da JOÃO CARLOS BRUM TORRES *
Riflessioni sugli eventi del 1968, in cui le mobilitazioni e le lotte per una vita più libera e una società più giusta furono accompagnate e superate dalla reazione conservatrice e autoritaria.
1.
Il riferimento emblematico delle proteste del 1968 fu la vera insurrezione urbana di origine studentesca avvenuta a Parigi nel maggio di quell'anno. In quei giorni di trasformazione dei ciottoli che lastricavano le strade di Quartiere Latino sulle barricate - giorni in cui l'entusiasmo e il carattere di massa del movimento studentesco provocarono uno sciopero generale e in cui si espresse con innegabile gioia lo spirito di rivolta contro il carattere formale, gerarchico, economico e socialmente ingiusto, moralmente ed esistenzialmente repressivo e ipocrita delle istituzioni e valori tradizionali ‒, furono spiegate le bandiere e le speranze di un altro stile di vita, il cui significato durò a lungo e ben oltre i confini francesi.
Anche lì si metteva in atto l'idea e l'illusione della politica fatta dalla strada, dal gruppo fuso dei singoli-cittadini, espressione diretta del “popolo”, del popolo inteso come essere, nella sua azione diretta, la fonte della legittimità ultima di ogni potere politico - un'idea poi, come sappiamo, per un momento, vittoriosa.
A proposito, una prima osservazione è che gli eventi del maggio 68 in Francia, per molti versi, esplosero come lampi in un cielo azzurro, poiché mancavano ancora sette anni ai già accennati Trenta Gloriosi, nome dato loro da Jean Fourastié, ha concluso, per evidenziare gli anni di intenso e consistente sviluppo economico e di consolidamento del welfare state in pressoché tutti i Paesi OCSE, il cui insieme costituisce, peraltro, quello che può essere considerato il modello e il periodo d'oro delle società e della civiltà contemporanea.
È vero però che nel 1968 nessuno avrebbe osato dire che il dopoguerra, dinamico ed entusiasmante com'era dal punto di vista economico, sarebbe stato un periodo glorioso. Tutto avveniva infatti in quegli anni come se la stessa prosperità e la stessa restaurazione democratica, perché sembravano naturali e ovvie, annullassero il loro valore, un valore innegabile, come si vede più chiaramente ora, purché non eliminassero le differenze di reddito e benessere e che le molteplici forme di gerarchizzazione del potere e status nelle istituzioni private e pubbliche.
Inoltre, un po' paradossalmente, era come se proprio i progressi economici e sociali e l'ampia democratizzazione aprissero alle nuove generazioni lo spazio necessario per sviluppare preoccupazioni più lontane da quelle più elementari necessarie alla vita e alla sopravvivenza, che erano state ineluttabilmente dominanti per qualcuno che aveva vissuto la seconda guerra mondiale e il periodo turbolento che l'aveva immediatamente preceduta. Preoccupazioni in un senso più superficiale, in un altro più profondo come lo sono i cambiamenti nei valori e nei costumi che strutturano la vita sociale attuale. Più superficiale perché le proteste contro il convenzionalismo, l'autoritarismo e il gerarchismo dei modi di vita tradizionali (presenti sia nelle relazioni asimmetriche che regolano abitualmente i rapporti umani all'interno della famiglia, nella vita delle istituzioni, sia nei divieti, in pratica spesso ipocriti, di morale tradizionale, soprattutto per quanto riguarda il comportamento sessuale), o le riserve critiche nei confronti della moralità e del materialismo della società dei consumi, o ancora il profondo disgusto e la rivolta contro le disuguaglianze socio-economiche, persistenti anche nelle società più ricche, non erano , in quanto di fatto non erano, da sole, capaci di scuotere le istituzioni di base del capitalismo e della democrazia contemporanea e, tanto meno, dell'imperialismo, macro istituzioni che non solo resistevano alle turbolenze del tempo, ma che, in una certa misura, finito rafforzato da loro.
Ma più profonde, però, perché si riferivano al modo in cui intimamente viviamo e sperimentiamo il mondo, i suoi contenuti e le sue riflessioni costituendo lo sfondo delle simpatie e antipatie con cui tutti noi viviamo in quello che Husserl chiamava il mondo della vita, cioè dire: alla base stessa di tutta l'esperienza umana.
Certamente, nella sua dimensione più immediata, l'apertura normativa dei movimenti del '1968 è stata più mirata, poiché, all'epoca, l'aspetto dominante delle lotte allora condotte era di natura politica, anche in Francia e negli Stati Uniti, e anche più chiaramente, nelle altre rivolte di quell'anno, siano esse avvenute nella cosiddetta “Primavera di Praga”, nell'aggressivo movimento studentesco tedesco a Berlino, nei conflitti straordinariamente ampi e violenti tra studenti e governo in Messico, che culminò nei tanti morti avvenuti nel cosiddetto “massacro di Tlatelolco”; anche in Brasile, nelle numerose marce di protesta organizzate e realizzate da studenti universitari di tutto il Paese contro il governo militare.
Considerando solo questa dimensione politica degli eventi del 1968, se li valutiamo dal punto di vista rigoroso dei risultati raggiunti, nonostante l'ampiezza e la radicalità delle manifestazioni, nessuno di questi atti di vigorosa protesta ebbe successo. In Francia, già a giugno, il generale De Gaulle ristabiliva l'ordine e lo faceva con rinnovata legittimità; a Praga, nonostante la guida di Dubček, capo di Stato, le riforme liberalizzanti furono presto represse dall'occupazione del Paese da parte delle truppe sovietiche; anche a Berlino la forza del movimento studentesco non è bastata a produrre cambiamenti istituzionali nella società tedesca, nonostante abbia dato vita alla lunga vita dell'estremismo armato del Gruppo Baader-Meinhof, per il quale lo Stato tedesco era una variante del fascismo... Una lotta che, peraltro, costò fatalmente la vita o la prigionia a praticamente tutti i suoi leader.
Anche nel caso messicano l'esito è stato crudele, poiché le proteste si sono concluse con una repressione che ha provocato centinaia di morti. Negli Stati Uniti, la fine delle grandi proteste studentesche è stata meno disastrosa, poiché, in fondo, è innegabile che, in qualche misura, hanno contribuito alla decisione del governo di porre fine alla stupida guerra del Vietnam. In Germania, come accennato, e infine in Brasile, i risultati furono i peggiori, perché alimentarono il passaggio di molti oppositori del regime alla lotta armata, sfociata in un'ondata repressiva ancora più violenta che si concluse in entrambi i Paesi con l'incarcerazione , la morte dei leader e lo smantellamento delle organizzazioni ribelli.
Tuttavia, il successo politico immediato non può essere assunto come l'esclusiva unità di misura in base alla quale valutare l'importanza storica di quel 1968 di proteste rivolte. C'è un'altra forza in lui, o meglio, un'altra eredità, un'eredità diversa. Nel caso francese, subito, il riconoscimento che il progresso economico di gloriosi trenta essa doveva essere associata a una migliore distribuzione dei suoi risultati, come si vide subito quando, per porre fine allo sciopero generale che correva parallelo alla rivolta studentesca, De Gaulle autorizzò un aumento del 35% del salario minimo nazionale.
Furono adottate anche misure di democratizzazione e decentramento del sistema universitario, con risultati discutibili, ma che cercavano in qualche modo di rispondere alla forza anticonvenzionale e antiautoritaria del movimento di maggio. D'altra parte, in termini di usi e formalità e rapporti gerarchici all'interno delle istituzioni, in particolare nelle Università, i progressi liberalizzanti erano innegabili.
Sul piano ideologico, invece, l'esito immediato del movimento fu disastroso e triste. Con la continuità del movimento interrotta – contenuta dalle forze statali e dal conservatorismo tradizionale – buona parte dei suoi dirigenti politici ha incoraggiato una reazione intellettuale di estrema sinistra, allo stesso tempo critica nei confronti del partito comunista, impegnata in un rifiuto libertario del sistema capitalista e lo stato di diritto, ben esemplificato dall'entusiastica ammirazione delle Guardie Rosse maoiste che ne portò a un malinconico e rapido estinzione, come illustra paradigmaticamente la fine del Proletario goffo.
A un livello più profondo, però, e con conseguenze più durature, il movimento ha influito sui costumi, fin dall'inizio, certo, sul modo di vedere, vivere e valutare la dimensione sessuale delle interazioni umane, ma, più in generale e diffusamente, attraverso la persistenza e l'intensificarsi della difesa e promozione di valori e politiche antiautoritarie oggi chiamate identità. Determinazioni politico-culturali, che si unirono a quello che (dalla seconda metà degli anni '70 in poi, per effetto del pieno riconoscimento del carattere totalitario dell'esperienza socialista nell'Europa dell'Est) divenne noto come il movimento dei “diritti umani come politica” , è venuto a costituire l'inconfondibile figura francese della politica di sinistra nel passaggio dal Novecento ad oggi.
Nonostante le particolarità naturali di ciascun paese, il significato generale di ciò che accadde dopo il 1968 negli altri casi sopra menzionati non fu molto diverso. In Cecoslovacchia, ciò che seguì la Primavera di Praga fu la fine delle riforme liberali e il ristabilimento del governo socialista autoritario, che controllava poliziesca la vita sociale sotto Gustáv Husák. Tuttavia, anche in questo caso è possibile vedere negli eventi del 68, così come in quelli del 56 in Ungheria, un'altra direzione e conseguenze che, non perché indirette, hanno cessato di essere importanti, poiché è innegabile che la liberalizzazione le aspirazioni del regime sotto Dubček e la diffusa disillusione e rabbia provocate dalla sua forzata interruzione contribuirono pesantemente al profondo, anche se per lungo tempo quasi invisibile, indebolimento del sistema di credenze che sosteneva il socialismo nell'Europa orientale.
La velocità con cui si è verificata la debacle del sistema e la ridemocratizzazione nel 1989-1990 sono indicatori inequivocabili dell'influenza tardiva degli eventi del 68 sulla storia del Paese. Anche in Messico i risultati a lungo termine non sono facili da identificare con precisione, ma si può tranquillamente affermare che la violenza della repressione di Tlatelolco ha contribuito al rafforzamento della coscienza democratica nel paese e all'indebolimento dell'egemonia e alla fine del modello di Stato e di governo del Partito Rivoluzionario Istituzionale - PRI. Come accennato in precedenza, negli Stati Uniti l'eredità di medio e lungo termine degli eventi critici del 1968 e, in generale, delle altre manifestazioni degli anni Sessanta, è stata più chiara e profonda, anche se non si sono verificati nella politica scena stessa, ma nel complesso sviluppo di quella che venne chiamata controcultura, che comprende, oltre ai movimenti pacifisti, le molteplici facce del rifiuto della standard di vita americano, la cui espressione più chiara era forse quella del movimento hippie.
Nel caso tedesco, invece, viste le critiche del stabilimento compiuta dal movimento studentesco negli anni '60 ha generato il terrorismo della Fazione dell'Armata Rossa e la sua violenta repressione con tutti i mezzi, compresa l'esecuzione di leader imprigionati i cui processi erano in corso, i risultati a lungo termine furono, dopotutto, la demoralizzazione della sinistra radicale e il rafforzamento dei partiti di destra. Tuttavia, per fare una sorta di contropartita, è vero che in Germania la sinistra più lucida, di cui la Scuola di Francoforte può essere considerata l'espressione teorica e più raffinata, ha conservato e rimodellato lo spirito critico e le velleità libertarie degli anni 'XNUMX-'XNUMX di facendo degli ideali di giustizia, democrazia partecipativa e, più indirettamente, rispetto per l'ambiente il nord delle politiche di opposizione alle politiche conservatrici dello Stato tedesco.
Infine, nel caso del Brasile, tra le conseguenze degli eventi del 68, la più importante fu la comprensione che la radicalizzazione militarizzata dell'opposizione al regime autoritario era la strada da non seguire. Vale a dire che il suo risultato più profondo e consequenziale è stato anche indiretto: il rafforzamento della coscienza democratica nazionale, di cui è diventata parte centrale la consapevolezza che la lotta alle profonde disuguaglianze economiche e sociali del Paese è una priorità nazionale. essere affrontato, tuttavia, all'interno del quadro costituzionale dello stato di diritto. Una sfida che però non possiamo non registrare, siamo ancora tristemente sconfitti.
Infine, va anche notato che se, quindi, in relazione alle sue ambizioni politiche e ai suoi programmi di profonde riforme e cambiamenti anche rivoluzionari nel status quo borghesia, falliti i movimenti del 68, è innegabile, d'altra parte, che essi – attraverso i mutamenti culturali e ideologici che innegabilmente provocarono – aprirono uno spazio di contestazione alla compiaciuta autosufficienza della status processo di civilizzazione raggiunto dalle forze conservatrici e anche socialdemocratiche nel dopoguerra, uno spazio che resterà aperto per lungo tempo, anche se, come si vedrà in seguito, dagli anni Settanta in poi, si restringerà progressivamente.
2.
Conviene ora chiedersi perché, riferendosi agli avvenimenti degli anni Sessanta, ci sembra inevitabile vederli come strani, come se, pur vicini su scala storica, appartenessero a un'altra epoca, separati da noi da una distanza cronologicamente ristretta. fessurato, ma molto profondo, nonostante le istituzioni politiche e i quadri istituzionali entro i quali si svolge il processo di riproduzione delle società odierne, se considerato globalmente, è ormai lo stesso degli anni '1960 del secolo scorso, perché la verità è che Mercato e Stato, come hanno plasmato tutta la modernità, lì, come qui, le istituzioni fondamentali continuano ad esistere.
Innanzitutto, per ridurre il carattere paradossale di questo disco, è necessario rendersi conto, e ammettere senza riserve, che le variazioni nei modi in cui, internamente, se il capitalismo moderno si riorganizza, genera forme di società e di vita individuali profondamente diverse; punto su cui dovremmo soffermarci un attimo.
La prima e più ovvia sottolineatura da fare su questo punto è che per chi è a conoscenza delle dinamiche economiche e politiche degli ultimi 50 anni è innegabile l'impressionante mutazione subita dalle società contemporanee dagli anni '70 in poi. In secondo luogo, è anche importante notare che questi mutamenti sono avvenuti in termini e modalità del tutto estranei agli eventi del 68, che né di per sé né nei loro sviluppi hanno influito maggiormente sul disegno di quella che sarebbe diventata l'essenza del tempo storico in soli dieci anni. dopo.
Perché quello che è successo allora è stato piuttosto una specie di taglio, il rilascio di una forza che ha dato inizio a una nuova serie storica. Una serie la cui strutturazione è derivata da un complesso mutamento delle modalità di funzionamento e di articolazione delle istituzioni fondamentali delle società moderne, essendo mutato sia il modo di concepire e valutare le funzioni dello Stato, sia mutando radicalmente la forma di organizzazione e funzionamento del Mercato, la cui immediata conseguenza fu un profondo mutamento del regime di interazione tra queste fondamentali istituzioni.
Di recente, quando si tratta di questo punto nella sua prefazione a la grande regressione, Heinrich Geiselberger (2019, p. 13-14), molto opportunamente, suggerisce che quanto è avvenuto da allora va preso in termini analoghi a quelli di Polanyi, ed è conveniente riconoscere in questo processo una seconda grande trasformazione del capitalismo. Guardando l'andamento storico in questa prospettiva, si può figurativamente affermare che l'ultimo quarto del Novecento ha lasciato alla memoria degli anni Sessanta – e quindi a noi – il compito di lasciare ai morti la sepoltura dei morti.
Certamente supera i limiti di questa comunicazione per ricostituire ciò che è stato e ciò che è stato il processo di globalizzazione e la travolgente egemonia neoliberista. Ma, per chiarire il mutamento del panorama storico del mondo occidentale dalla fine degli anni Settanta in poi, non c'è modo di sottrarsi almeno ad alcune osservazioni di carattere generale. Solo dopo si potrà discutere la questione del carattere decisamente anacronistico o meno degli eventi del 70.
È consuetudine avere la politica economica del Chicago come punti di riferimento politici della svolta in questione. ragazzi di Pinochet, l'insediamento di Margaret Thatcher a Primo Ministro d'Inghilterra e l'elezione di Ronald Reagan a Presidente degli Stati Uniti. Tuttavia, dato lo stretto legame della politica e della cultura neoliberista con l'ideale e, soprattutto, con la pratica della globalizzazione delle attività economiche, credo che, alquanto inaspettatamente, debba essere presa come non meno eclatante l'affermazione di Deng Xiaoping ‒ nel 1987, in gli atti preparatori del 13° Congresso del Partito Comunista Cinese – che sebbene “in passato si diceva che in una società socialista viene prima la pianificazione”, in quel momento storico ciò “non doveva più affermarsi” (Vogel, 2011, p. 469).
E questo non perché l'apertura dell'economia cinese al mercato internazionale fosse basata su tipiche idee liberali, ma perché ha dato uno straordinario dinamismo al processo di globalizzazione, in particolare per aver provocato un inedito e accelerato processo di delocalizzazione di impianti industriali in quel paese e moltiplicato esponenzialmente il commercio estero.
Nel contesto della presente comunicazione, non è opportuno descrivere in dettaglio la sequenza delle decisioni e degli effetti causati dal processo di globalizzazione. Ciò che è possibile fare qui e ciò che conta qui è richiamare l'attenzione sul significato generale della nuova serie storica che ha riconfigurato il mondo contemporaneo. Per farlo, però, è necessario almeno citare decisioni, misure e politiche che hanno portato alla ridefinizione del ruolo dello Stato all'interno delle società democratiche e all'espansione pratica e oggettiva della cultura neoliberista nel mondo.
Le misure di politica economica dell'ideologia neoliberista sono ben note: il controllo dell'inflazione, occasionalmente attraverso l'aumento dei tassi di interesse e, in modo permanente, mediante misure di riduzione delle spese primarie, soprattutto di natura sociale, attuate attraverso pensioni più o meno e sistemi sanitari, ma per quanto possibile non spese in conto capitale; privatizzazioni; deregolamentazione dei rapporti di lavoro, modifiche della legislazione in materia di organizzazione sindacale, con l'obiettivo di ridurne l'influenza e il potere politico; misure di riduzione delle tariffe sul commercio estero e, soprattutto, svincolo regolamentare delle attività nel settore finanziario e apertura alla libera circolazione internazionale dei capitali.
Corrispondentemente, pur nella diversità di questi fronti, spicca il fil rouge che lega questo insieme di misure: la riduzione del ruolo dello Stato nella vita economica e il corrispondente aumento, quanto più ampio possibile, della partecipazione del settore privato sia nella determinazione degli indirizzi di politica pubblica, nonché nella realizzazione delle infrastrutture e nell'erogazione dei servizi sociali.
Certamente, come dovrebbe essere, il ritmo, l'importanza relativa di ciascuna di queste linee di ordine pubblico, le difficoltà di attuazione di ciascuna di esse, i progressi e le battute d'arresto su ciascun fronte e persino sull'insieme di esse variavano in modo significativo. Esse variavano in funzione del grado, della coerenza e dell'efficacia con cui le istituzioni e le politiche dello Stato assistenziale erano state attuate nei vari Paesi e, correlativamente, in funzione dei rapporti di forza tra i settori sociali e le forze politiche che , in ogni caso, li ha rappresentati. D'altra parte, progressivamente, le nuove linee di progresso tecnico ‒ di enorme impatto sociale, direttamente o indirettamente associate all'economia digitale globale ‒ hanno enormemente accelerato il processo di integrazione dell'economia internazionale e hanno fatto sì che il commercio estero tradizionale diventasse progressivamente una parte minore del relazioni economiche, potenziate dagli enormi movimenti di capitali finanziari e dalle massicce politiche di trasferimento dagli stabilimenti industriali ai paesi con un costo del lavoro inferiore a quello praticato nel mondo industrializzato, essendo stata, come è ormai evidente, la Cina sia il principale destinatario di queste iniziative che il loro principale beneficiario.
Il dinamismo dello sviluppo economico globale da allora è stato indiscutibilmente enorme e, valutato a livello internazionale, ha contribuito a una riduzione molto espressiva dei livelli di povertà assoluta nel mondo, un duplice effetto le cui conseguenze sociali e politiche non possono essere sottovalutate. Un buon modo per presentare la profondità degli impatti di questi macro movimenti nel loro insieme è attirare l'attenzione sulla natura paradossale di tre conseguenze di questi cambiamenti economici nei campi della politica, della struttura sociale e dei comportamenti e delle mentalità di tutti noi, tutti noi, che siamo stati coinvolti in questi processi il cui insieme, come già accennato, ha costituito una profonda rottura con i termini dell'economia, della vita sociale e della cultura del cosiddetto gloriosi trenta, il dopoguerra di consolidamento e sviluppo del Welfare State.
Il primo di questi paradossi è che la componente politica dei cambiamenti in questione era straordinariamente importante e dipendeva dall'ascesa ai centri del potere statale nei diversi paesi di forze impegnate nell'ideale liberale di ridurre il ruolo del settore pubblico nell'economia e lo sviluppo sociale delle società. . Come analizzato in modo esemplare da Ulrich Beck, questo processo è stato altamente politicizzato e ha richiesto, soprattutto nel caso del Cile e dell'Inghilterra, lotte politiche e ideologiche di grandi proporzioni, in cui hanno vinto le forze impegnate negli ideali neoliberisti. Il carattere paradossale di questo processo risiede nel tipo di autoamputazione che lo Stato ha fatto delle proprie competenze e responsabilità.
Naturalmente, il risultato naturale di questo autosgravio e riduzione degli ambiti di erogazione dei servizi pubblici è stato l'apertura di nuovi spazi per l'iniziativa privata e la riduzione del contributo globale della società al soddisfacimento dei bisogni di strati sociali il cui reddito privato limitava la loro accesso a questi servizi. Questa minimizzazione del principio e della pratica della solidarietà sociale istituzionalizzata, che è il segno distintivo dello stato sociale, aggiunta alla riduzione dei posti di lavoro industriali nei paesi sviluppati, ha portato a un rapido e ampio aumento delle disuguaglianze di reddito e benessere in queste società. . Il secondo paradosso insito in questi cambiamenti risiede nel fatto che, nonostante dipendessero, come abbiamo appena visto, da decisioni politiche di enorme importanza e fossero attuate attraverso azioni di ordine pubblico su larga scala, vi fu, contemporaneamente, un secondo processo di esenzione, in questo caso di esenzione politico-ideologica dalle responsabilità dei loro autori, artefici di questi stessi mutamenti.
Questo secondo esonero si ottenne presentando le riforme istituzionali e culturali che segnarono il periodo come la naturale conseguenza delle forze e delle leggi della dinamica economica, la cui necessità non poteva che essere contestata da ignoranti, sentimentalisti, corporativisti, politici in cattive condizioni fede e ipocrisia, offuscata, quindi cieca, incapace di vedere ciò che il progresso tecnico ed economico mostra come indiscutibile per ogni persona sensata, esente da interessi particolari.
Il terzo paradosso insito in questo processo è che ‒ nonostante tali cambiamenti fossero considerati meri effetti di leggi economiche oggettive e ineluttabili, la cui resistenza avrebbe solo il deplorevole risultato di ritardarne il pieno funzionamento ‒ la loro attuazione ha richiesto la ferrea volontà degli attori politici molto determinati. Da leader disposti ad affrontare il logorio delle crisi e delle proteste per far prevalere i propri ideali, un progetto realizzato con successo attraverso una lotta di natura culturale e ideologica il cui obiettivo strategico era quello di cambiare profondamente e in modo massiccio i comportamenti individuali e gli ideali che definiscono ciò che è appropriato, buono e atteso da tutti coloro che vivono nella società.
Il risultato di questa politica fu un cambiamento soggettivo di grandi proporzioni nei progetti e nelle aspettative di vita individuali. Oliver Nachtwey presenta bene il significato di queste alterazioni quando commenta: “Il Mercato continua ad essere la misura di riferimento per tutte le sfere della vita (...) il mercato è stato interiorizzato come qualcosa di naturale, concordando – a volte volontariamente, a volte no – con la sua logica. Nel neoliberismo è grande il peso dell'autocoercizione, della sublimazione permanente: bisogna sempre accontentarsi della concorrenza, confrontarsi, misurarsi e ottimizzare. In caso di affronti, degradazioni, umiliazioni e fallimenti, la colpa è nostra – e quindi dobbiamo aspettare con gioia un'altra possibilità”. (In: Geiselberger, 2019, p. 222).
Ebbene, se confrontiamo questo scenario con la configurazione delle società sviluppate nel periodo che va dalla fine della seconda guerra mondiale fino agli anni '70 e, soprattutto, con le aspettative e le lotte per il cambiamento della forma e dello standard sociale allora raggiunto, il cui apice è stato nel 1968, è impossibile non vedere l'abissale differenza che li separa, e che nonostante lo Stato e il Mercato – i macro-segni istituzionali della società moderna, come già sottolineato sopra –, se considerati astrattamente, permangono lo stesso.
Se non fosse per la diffusione di visioni volgari della società moderna – che oscillano tra il non accorgersi dei mutamenti da essa subiti nel tempo e il considerare i periodi storici come incommensurabili – non sarebbe necessario insistere sul variare dei modi in cui, al proprio interno,, le riorganizzazioni del capitalismo moderno generano forme profondamente diverse di società e di vita individuale. Nel caso in esame, ciò che distingue le due situazioni storiche è che il welfare state si è consolidato nel Gloriosi Trenta è stato corrotto e, per così dire, svanendo con la globalizzazione e la progressiva egemonia neoliberista.
Il principio di solidarietà sociale – incarnato in generosi sistemi pensionistici e pensionistici, nel determinare i livelli di spesa pubblica stabiliti in vista non solo delle esigenze di creare adeguate infrastrutture per le società contemporanee, ma anche dei livelli di occupazione e delle esigenze di sostegno della pubblica istruzione, della sanità e della casa, elementi tutti indissolubilmente legati alla progressività dell'imposizione degli oneri tributari, nonché alle politiche fiscali di carattere distributivo – è stato sostituito dal principio della responsabilità assunta come intrasferibile da parte di ciascun soggetto per la situazione sociale in cui si trovano e, di conseguenza, per la progressiva riduzione e, in alcuni casi, per l'eliminazione di questi meccanismi di attenuazione delle differenze socio-economiche così ineluttabilmente caratteristici del funzionamento delle società di mercato.
Quindi, se ora proviamo a confrontare non più la configurazione istituzionale dei due periodi che stiamo distinguendo, ma le disposizioni soggettive, le attese personali di cambiamento presenti in entrambi, la prima cosa da notare è che i controlli culturali si sono allentati e burocrazie burocratiche sulla vita quotidiana. Tuttavia, queste misure di sblocco dei modelli tradizionali di comportamento – di cui le cosiddette lotte identitarie sono al tempo stesso operatore e sintomo, nonché l'evidente flessibilità con cui i limiti e i modelli di organizzazione della vita sono ormai considerati familiari e sessuale – non ha portato a una vita più solidale ed egualitaria, come miravano le lotte politiche del 1968.
Piuttosto, hanno portato alla radicalizzazione dell'individualismo e alla conversione del successo economico e sociale individuale in un valore superiore a quello che forse sarebbe opportuno chiamare "civiltà neoliberista", il cui correlato era l'elevazione del livello di rischio e incertezza con cui ogni di noi deve sviluppare il rispettivo piano di vita.
A questo punto, però, conviene tornare al piano più generale e dire una parola sui cambiamenti nel modo di concepire e valutare le funzioni dello Stato e nel modo in cui il Mercato è organizzato e funziona. Quello che voglio sottolineare è che la riduzione di funzioni e responsabilità del settore pubblico e la sua mancanza di responsabilità per le differenze economiche e sociali ha portato anche a una significativa diminuzione delle aspettative generali su ciò che ci si può e si deve aspettare dall'azione del pubblico energia.
Di conseguenza, ciò ha prodotto un disinteresse per la politica istituzionale. Questo mutamento delle aspettative circa la forza del potere pubblico è stato ulteriormente rafforzato da un secondo fattore: l'innegabile diminuzione dei gradi di libertà degli Stati nazionali per l'attuazione delle politiche pubbliche interne a seguito della globalizzazione incontrollata delle attività economiche. Vale a dire che si è diffusa la convinzione, in parte vera, che il principale dinamismo dello sviluppo economico e sociale stia al di fuori e ben al di là dei poteri di controllo degli Stati nazionali.
Ora, non è difficile capire, allora, che non solo le lotte per una maggiore uguaglianza economica e sociale nel mondo si sono raffreddate, ma che le aspettative e le strategie di autodifesa individuale sono cambiate nel contesto di questa nuova forma di organizzazione delle società.
In questo nuovo contesto globale, questo è ciò che vogliamo sottolineare ora, è naturale e inevitabile che il mancato rispetto delle status quo e anche gli interessi e le rivendicazioni dei lesi e degli scontenti assumevano forme del tutto diverse da quelle che animavano i movimenti di protesta del periodo precedente. In questo nuovo contesto si annullano i rapporti tra frustrazioni sociali e aspettative utopistiche e si rafforzano le reazioni individuali di autoprotezione. In termini generali, ciò ha generato una società in cui l'individualismo è il tratto dominante dei progetti di vita, la disconnessione dai contesti di vita tradizionali, anche territoriali, sempre più frequente e radicalizzata, l'aumento della disponibilità a migrare e le emigrazioni ne sono un chiaro sintomo di questo stesso processo.
Da soli, questi elementi permettono di vedere più chiaramente la profondità della spaccatura che, come dicevamo prima, ci separa dagli anni Sessanta. C'è però un altro ordine di fattori che differenziano le due situazioni, c'è un'altra forza che anacronizza il terzo quarto del Novecento e che ha a che fare, senza dubbio, sorprendentemente, con quanto di più positivo vi fu negli anni successivi, tuttavia questi stessi progressi sono all'origine delle angosce dei tempi attuali e, in parte anche, di alcuni degli aspetti regressivi del tempo che stiamo vivendo. Mi riferisco al progresso tecnico su larga scala e all'immenso impatto sulla vita contemporanea determinato dall'emergere del cosiddetto mondo digitale.
È chiaro, infatti, che lo sviluppo accelerato delle possibilità di fruizione di Internet, guidato da aziende operanti a iperscala, come Google, Amazon, Facebook, ha avuto impatti cataclismici e allo stesso tempo ambigui sulla vita sociale, producendo – con forza dirompente – – effetti sia positivi che negativi sui modelli comportamentali tradizionali e sugli stati psicologici tipicamente associati ad essi.
L'effetto sociale positivo più evidente dello sviluppo dell'economia e del mondo digitale è stata la rapidissima espansione delle possibilità di comunicazione interindividuale, possibilità che costituiscono una straordinaria espansione dello spazio in cui vive la vita privata, poiché lo scambio di opinioni tra individui assumeva un'estensione incomparabile con cui fino a tempi molto recenti era possibile fare sulla base di rapporti faccia a faccia, o con l'uso di messaggi trasmessi con mezzi tecnologici vecchi e convenzionali, come le telefonate, o l'uso di posta e telegrafo . In un certo senso, non c'è dubbio che i nuovi strumenti di contatto interpersonale messi a disposizione dalle suddette applicazioni hanno rappresentato un'enorme e ricca espansione della vita privata e hanno conferito alla socialità privata una dimensione societaria globale.
Tuttavia, poiché l'attenzione è stata richiamata con sempre maggiore evidenza e con allerte sempre più intense, non è meno evidente che questo fenomeno ha profondamente e negativamente alterato i processi di formazione dell'opinione pubblica, che sono venuti a dipendere molto di più dalla cosiddetta comunicazione sociale reti. , rispetto a strumenti tradizionali come la televisione e la radio. E questo perché, sebbene, in generale, gli strumenti tradizionali di formazione dell'opinione pubblica fossero istituzionalizzati come società private, assolvevano funzioni di carattere riconoscibilmente pubblico, funzionavano come canali aperti e, come stampa, agivano, almeno idealmente, con l'idea di impegno per la presentazione veritiera dei fatti.
Ora, la crescita esponenziale della comunicazione nello spazio dei cosiddetti social network non solo ha ridotto l'importanza delle istituzioni che fino ad oggi hanno sostenuto la comunicazione sociale, ma si è anche liberata dai vincoli di questo impegno all'evidenza fattuale. Ciò che si vede nella comunicazione in rete è la legittimazione di preferenze soggettive, idiosincratiche, di parte, ideologiche, religiose, che si traducono nella cacofonia di opinioni che vediamo oggi ovunque. Come è stato insistentemente ribadito in questi giorni, la manifestazione più aggressiva e cruda di questa nuova situazione è stata la produzione su scala industriale del cosiddetto notizie false.
Tuttavia, l'effetto maggiore di questo fenomeno è l'indebolimento della nozione di verità, l'aumento dell'“opinionismo” e la chiusura di giudizi e posizioni basate su preferenze soggettive, vulnerabili alle incostanti influenze impressioniste, incuranti delle giustificazioni e, quindi, , soggetta a manipolazioni su scala e forza storicamente senza precedenti. L'impatto di questa nuova forma di comunicazione sociale diventa ancora più pericoloso e distruttivo in quanto indebolisce le istituzioni politiche e demoralizza il concetto stesso di rappresentanza politica, così come il ruolo dei partiti nella costituzione delle società democratiche.
Al fine di confrontare gli eventi del 1968, motto delle presenti considerazioni, è importante osservare che questa nuova conformazione della vita sociale cambia interamente il modo di strutturare le reazioni critiche, qualunque sia la loro portata, perché ciò che conta ora - molto più che sottolineare i problemi sociali, indignarsi per i sacrifici da loro portati, rivendicare giustizia e cercare la credibilità di queste proteste nella veridicità delle dichiarazioni e nella giustificazione di ciò che affermano ‒ è o fuggire, fuggire, fisicamente o psicologicamente, o insultare, produrre una versione sostitutiva e soggettivamente preferibile degli eventi, delle opinioni, delle decisioni e trovare, il più rapidamente e arbitrariamente possibile, attori, soggetti individuabili, a cui imputare le frustrazioni e le perdite subite.
Infine, credo sia ancora opportuno segnalare che nelle angosce e nei dilemmi della vita sociale contemporanea c'è ancora un fattore, di carattere molto generale e meno visibile, che è l'oscura percezione della strutturale dispensabilità di contingenti sempre crescenti di esseri umani, tenendo conto del fatto che il nord del progresso tecnico – al quale si dedicano, con sempre maggiore audacia ed efficacia, molte delle migliori menti del tempo – è quello di sostituire, per usare i termini di Marx, il lavoro morto al lavoro vivo.
Il messaggio sistemico ed estremamente perverso che le persone sono un fastidio, che noi siamo troppo, anche se solo surrettiziamente presenti nelle attuali dinamiche socioeconomiche, non manca di essere appreso da chi vive nella società contemporanea ed è certamente una parte maggiore della generazione di regressivi movimenti che la recente critica politica e sociologica va segnalando.
Si vede, dunque, che questo è un elemento in più che ha lasciato lo spirito critico e le proteste sociali e politiche degli anni Sessanta come appartenenti a un tempo non solo passato, ma emotivamente ed esistenzialmente inaccessibile, quasi fosse una sorta di alternativa mondiale.
*Joao Carlos Brum Torres è un professore di filosofia in pensione presso l'UFRGS. Autore, tra gli altri libri, di Trascendentalismo e dialettica (L&PM).
Estratto selezionato se articolo originariamente pubblicato sulla rivista Criterio, Belo Horizonte, edizione speciale, gennaio 2021.
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