da JOSÉ GERALDO COUTO*
Commento al film diretto da Alexandre Moratto
C'è ferita più dolorosa, iniquità più crudele della schiavitù? Con il suo brutale realismo, un film come 7 prigionieri, in onda su Netflix, dimostra che questa ferita non si è rimarginata, non ricorda un passato remoto, ma è ancora viva e aperta, contagiando non solo chi la subisce direttamente ma l'intera società che la tollera, se non la incoraggia.
Secondo lungometraggio di finzione di Alexandre Moratto (regista del grande Socrate, 2018), il film racconta il dramma di un gruppo di ragazzi poveri dell'interno che si recano a San Paolo in cerca di una vita migliore e finiscono prigionieri del proprietario di una discarica che li costringe a lavorare gratis e a vivere in un dormitorio fetido non dissimile da un alloggio per schiavi.
Detto questo, può dare l'idea di un'opera sensazionalista e manichea, con cattivi e vittime ben definiti e, preferibilmente, una catarsi edificante alla fine. Ma questa non è esattamente la realtà costruita dal film.
Ci sono, fin dall'inizio, due personaggi centrali: il giovane nero Mateus (il grande Christian Malheiros), che lascia la piccola fattoria di famiglia per lavorare nella metropoli, e Luca (Rodrigo Santoro), il proprietario della discarica dove Mateus e il suo i compagni vanno a lavorare. L'acume narrativo del film consiste nell'opporsi inizialmente ai due e, a poco a poco, avvicinarli, quasi che l'intera storia fosse il processo di trasformazione di Mateus in Luca, o da oppresso a oppressore. Ma non anticipiamo noi stessi.
Fin dalla prima scena tutto è narrato dal punto di vista di Mateus, ma ciò non avviene in modo apparente, attraverso una macchina da presa prevalentemente soggettiva o ricorrendo alla stampella della narrazione fuori campo, così comune nel nostro cinema socio-didattico. È semplicemente presente in ogni scena, anche se a volte a una certa distanza, vedendo, sentendo o intuendo tutto ciò che sta accadendo. Il film è, in un certo senso, il suo “romanzo educativo”, o meglio deformazione.
Viste retrospettivamente, le prime immagini sono significative. Con un martello, chiodi e assi, Mateus costruisce una recinzione o un muro nella fattoria di famiglia. La telecamera è “da questa parte” del recinto, e vediamo il ragazzo e la fattoria nello spazio che ancora rimane, e che si fa sempre più piccolo durante la scena. In un certo senso, siamo noi, gli spettatori, ad essere intrappolati. E Mateus è colui che arresta. Questa inversione di prospettiva avrà perfettamente senso nel corso della narrazione.
La schiavitù, sembra dirci il film, non è il risultato della perversità di pochi individui, ma di un intero sistema di deformazioni: sociali, politiche, economiche e, naturalmente, morali. In altre parole, la perversità esiste, ma si produce in serie. I redditizi affari di Luca si basano sull'aiuto di una polizia corrotta, su una supervisione indulgente e sulla complicità di commercianti e clienti. Di più: fa parte di una più ampia rete di sfruttamento del lavoro forzato, di cui uno dei capi è un politico amico in cerca di rielezione, un padre di famiglia preoccupato per “il paese che lascerà per i suoi figli”.
Così come il politico è un padre devoto, Luca è un figlio esemplare, che ha comprato un panificio da gestire alla madre, non soffrendo più lo sfruttamento altrui. La cosa terribile è questa: i mostri sono umani, fin troppo umani.
È in questa situazione, in cui lo spazio di manovra diminuisce come il paesaggio visto nelle prime immagini della recinzione, che si muove il giovane Mateus. È il grande personaggio morale, quello che si trova sempre di fronte a dilemmi etici e che, al limite, quando compie la più sordida delle azioni, si giustifica dicendo: “Se non lo faccio io, qualcun altro lo farà". Il film presenta sottilmente questi momenti, questi incroci di condotta, senza enfasi eccessiva, solo attraverso la durata leggermente più lunga di un'inquadratura, o un'esitazione nello sguardo dell'attore.
È, insomma, un realismo sostanziale, senza didascalismo e senza discorso militante, quello che si muove 7 prigionieri. La sua efficacia drammatica e politica risiede nel suo carattere scarno, nella sua dinamica implacabile. È uno dei film più violenti degli ultimi tempi. Non tanto per la violenza fisica, che si riduce a un paio di colpi di sedere e due o tre pugni, ma per la brutalità psicologica, spirituale e morale che rivela.
Nel tempo: Alexandre Moratto, figlio di madre brasiliana e padre americano, ha studiato cinema negli USA ed è stato assistente di Ramin Bahrani, regista di la tigre bianca. Si dice che sia stato Bahrani a consigliargli di tornare in Brasile e realizzare film che facessero parte della realtà sociale del Paese. Socrate e 7 prigionieri (prodotti da Bahrani) sono il frutto di questo saggio consiglio.
* José Geraldo Couto è un critico cinematografico. Autore, tra gli altri libri, di André Breton (brasiliese).
Originariamente pubblicato su BLOG CINEMATOGRAFICO
Riferimento
7 prigionieri
Brasile, 2021, 94 minuti
Regia e sceneggiatura: Alexandre Moratto
Interpreti: Christian Malheiros, Rodrigo Santoro, Bruno Rocha, Vitor Julian, Lucas Oranmian, Cecília Homem de Mello, Dirce Thomaz.