8½ di Fellini

Marco Buti, Via
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da ROBERTO SCHWARZ*

Commento al film classico del regista italiano.

1.

È facile apprezzare 8½ e più difficile dire perché. Intrappolato nella psicologia e nella creazione artistica di Guido, il discorso tende a perdersi in banalità sull'infelice ma felice persistenza del ragazzo quarantenne. La portata del film è maggiore, trascende la psicologia. Se il suo asse fosse psicologico, non ci sarebbe alcun danno essenziale nel trasformare il regista in musicista o scrittore, poiché la distanza tra l'esperienza infantile e la realizzazione artistica o personale rimarrebbe la stessa. Ricordando il film, però, sappiamo che il danno sarebbe enorme. La professione di Guido è il contesto indispensabile di 8½: a contatto con l'industria cinematografica, i tradizionali problemi dell'artista e dell'intellettuale assumono un aspetto nuovo e peggiorato.

Spinto dall'industria, senza la quale non può nascere, il cinema raggiunge gran parte della popolazione nazionale. Per i soldi e la fama che genera, è un sogno comune: tutti vogliono registrarsi. È la prima forma d'arte ad avere una circolazione forzata, analoga per penetrazione all'espansione dell'economia moderna. Fellini fa sentire questa forza quando mostra come tutto sorride, si raddrizza e si inchina quando passa Guido, il regista: ognuno vuole essere il suo personaggio. Alla portata totale corrisponde, ovviamente, la responsabilità totale. Se tutti vogliono mettersi in mostra, giustizia va fatta a tutti.

La concezione artistica di Guido, invece, è borghese; il suo desiderio è quello di oggettivare una visione personale, idiosincratica, una fissazione infantile da cui sarebbe così liberato. Questo è il problema psicologico esplicito nel film. La maggiore portata del tema, tuttavia, implicita, risiede nell'articolazione della sua banalità con l'industria, che le conferisce potere. Se fosse uno scrittore, Guido potrebbe sconvolgere la vita di tre, quattro, cinque donne con le sue fissazioni. Molto di più è impossibile, per chi corteggia con mezzi personali. Ma Guido è un regista: ha a sua disposizione, a disposizione delle sue manie, le donne della nazione, e le tormenterà secondo la loro maggiore o minore somiglianza con i miti dell'infanzia.

C'è una discrepanza tra le forze sociali scatenate e il particolarismo che vi reagisce. Di fronte alla macchina sociale, al potere creato dallo sviluppo borghese, è la stessa concezione e glorificazione borghese dell'individuo – particella sacra, valore massimo – che risulta grottesca. Approfittare dell'industria e stordire il paese per oggettivare una fissazione infantile è possibile, ma assurdo: se la personalità trionfante è libera e capricciosa, è perché tutti gli devono lo stipendio con cui vivono. Come dimostra la figura di Guido, la crudeltà e le piccole debolezze sono monumentalizzate dalla proprietà privata della macchina sociale. Il cinema sfida la concezione individualista delle arti: la ricerca di una garanzia soggettiva di autenticità – l'attore deve corrispondere alla visione precedente del regista – si rivela tirannia.

Il lavoro non è fatto per il bene del mondo, ma è il mondo che esiste per il bene della visione. Questa frase, che per gli esteti dell'Ottocento era metaforica ed esprimeva disgusto per la mercificazione filistea della vita, assume un significato pratico e reale se associata al cinema e al suo potere economico. Alleata al potere industriale, la delicata esigenza di autenticità soggettiva mostra il suo lato arrogante, la furia di imporre agli altri la propria visione; furia che è simbolo della violenza quotidiana esercitata nella vita agonistica. Un'idiosincrasia vuole essere migliore dell'altra. Il cinema, per le esigenze pratiche del suo linguaggio, rende esplicito ciò che è implicito nelle altre arti: c'è violenza sociale nell'impulso che porta all'elaborazione di mitologie personali, anche nelle filigrane di un poema ermetico.

2.

8½ è accusato di amplificare in modo sproporzionato una piccola angoscia. Abbiamo già mostrato che questo ingrandimento è il tema del film, e non il suo difetto. L'errore nasce dall'identificazione di Guido e Fellini, autorizzata dai cronisti di gossip, dal regista stesso, forse, ma non dal film. Se Fellini è Guido, i conflitti di quest'ultimo infuriano identici nel petto del primo, che sarebbe lo scemo dei propri limiti, un piccolo borghese nostalgico e fantasioso, incapace di fare qualcosa di utile. Per difendere 8½ è necessario mostrare il carattere di Guido, spiegare la differenza tra il suo modo di vedere e il nostro modo di vederlo vedere. Più idiosincratici sono i suoi scopi, maggiore è il significato sociale della sua figura, che resta da esporre.

Guido saluta l'attrice francese dicendo che sembra una lumachina, "lumaca"; la somiglianza è davvero sorprendente. Si presume che il dialogo sia adattato ai personaggi, in modo da renderlo esatto; immaginate la difficoltà, se il testo precedesse gli attori, di trovare un'attrice con la faccia di lumaca. Nel realizzare il film, il regista parte dagli attori che ha, e non da personaggi immaginari. Il processo non sarà esclusivo di Fellini, ma è di particolare importanza per 8½, il cui tema è il procedimento inverso: Guido parte dalle sue ossessioni, e ne cerca la somiglianza negli attori; ma tra visione e attore c'è un divario incolmabile.

Non va dimenticato, tuttavia, che le visioni di Guido – le belle, ricche, naturali visioni ed esperienze che i suoi attori possono solo rovinare – sono state anch'esse filmate, da Fellini. Ci sono due film: uno bello, della vita reale e immaginaria di Guido, e uno brutto, in cui Guido cerca di ricreare la sua esperienza. Corrispondono ai due modi di filmare che abbiamo descritto. Per esemplificare, immaginate Fellini con un arsenale di dieci streghe più o meno simili. Ne prenderà uno e cercherà di catturare, in dettaglio, le possibilità della strega come strega; questa sarà la straordinaria Saraghina delle visioni di Guido. Per realizzare il film realizzato dal suo personaggio, però, Fellini procederà in modo diverso: ordina agli altri nove di imitare il primo, già trasformato, ora, in vita reale, fuori dalla portata di Guido, che vorrebbe riprodurlo.

La differenza nel risultato è evidente. Girate secondo le loro singole nature, le notizie potrebbero essere interessanti; Costretti a imitare la Saraghina i, diventano tutte copie economiche, recitare i loro ruoli. I due modi di filmare corrispondono, rispettivamente, a 8½ e al suo personaggio; Guido ne esce battuto. Sono anche una trasposizione tecnica dell'antagonismo sociale che abbiamo esposto all'inizio: l'anelito borghese, di imporre e quindi salvare una visione puramente personale, è contrario all'impegno collettivo, e proprio per questo scopo, dai film. Per Guido le immagini valgono quando sono biograficamente sature; il suo criterio è la memoria, il suo compito la ricreazione. Per 8½, le immagini contano quando sono completamente realizzate; il criterio è il significato oggettivo, il compito lo è rivelazione possibilità oggettuali.

L'irraggiungibile freschezza della visione immediata, il miraggio di Guido, è raggiunta e realizzata da Fellini. Una volta che l'infabbricabile è stato fabbricato, l'immediato è mediato, i problemi si spostano. L'ossessione di Guido, che identificava la ricerca del bello con l'oggettivazione delle sue fissazioni infantili e dei suoi echi adulti, rimane ingiustificata. Sarà presuntuoso mantenere la loro identità una volta dimostrato che possono separarsi. Il film avrebbe un tema che dichiara superato, e sarebbe giusto dire, come hanno detto i critici di sinistra, che non importa.

Ciò nonostante: non basta sapere che un'aberrazione è aberrante per toglierla dal mondo; non basta, per dissolverlo, sapere che la proprietà privata della macchina sociale è una sciocchezza; il matrimonio è contraddittorio, intende fissare la spontaneità? non è per questo che le persone sono meno infastidite. In effigie, la coscienza razionalista ha già seppellito il mondo borghese, che però persiste e detta le regole dell'esistenza. Questa ripetizione continua e obbligatoria di bugie logore è il terreno storico e attuale di 8½. la persistenza semplicemente la pratica di costumi e istituzioni, che razionalmente sono già anacronismi, rende giustizia al miscuglio di ridicolo e disperazione del film, esige un'indagine sostenuta e persino maniacale delle origini, delle ragioni che danno sette respiri al cadavere. La tecnica di fa decadere Guido, ma l'ordine prevalente, a cui si applica, rimette in circolo i problemi di Guido, nella qualità, ora, di obsoleto.

3.

Le contraddizioni della realtà sociale, anche se criticate in teoria, impongono un'esistenza contraddittoria: ogni impasse corrisponde a un'increspatura nella coscienza individuale, costretta a fare propria una difficoltà che disprezza. La concessione, però, non scioglie l'impasse sociale, che persiste e richiede in seguito una nuova sottomissione., Favorito dalla forza del cinema, Guido non cerca il mondo; il mondo lo cerca e gli sfila davanti, un corteo offerto da imprenditori, impiegati, attrici, vecchie amiche, giornalisti, tutti rapidamente consumati e congedati. La contraddizione tra ambito collettivo e orizzonte personalista, in Guido, eroderà in modo analogo tutti i rapporti personali.

Il miele è disprezzato nella voracità delle mosche; aspettane uno che non sia vorace, che però non verrà, perché se lo farà, non sarà quello atteso. L'impasse sociale corrisponde a un insieme di conflitti individuali, sue immagini, nella cui varietà appare la costanza dell'impossibilità fondamentale. È la realtà stessa che lo è fisso. Questo contesto ci fa riconsiderare la fissazione psicologica, che potrebbe non essere solo una mania contingente, senza senso generalizzare. Può corrispondere alla struttura del mondo reale. Nell'ossessione che vede lo stesso in ogni cosa può esserci follia, ma anche senso, un senso che la molteplicità del mondo non è un rinnovamento, ma una variazione di una difficoltà insormontabile.

Nella prospettiva biografica, di Guido e della memoria, questo tratto maniaco della realtà è legato alla prima esperienza personale dell'impasse, che sarà matrice e causa delle sue versioni successive. Tuttavia: ferma restando l'incancellabilità della biografia individuale, il dettaglio della prima esperienza è subordinato all'obiettiva impasse, che in un modo o nell'altro peserebbe. Sebbene l'antagonismo tra sessualità e vita normativa, per Guido, sia una mera ripetizione del conflitto tra Saraghina e sua madre, il conflitto, a sua volta, è la conferma dell'antagonismo, che ha una portata collettiva. Si vede che la ricerca dell'infanzia, vista come la chiave delle difficoltà dell'adulto, porta a sostituire l'oggettiva impasse con la sua manifestazione contingente: questa è la banalità delle preoccupazioni di Guido.

Ma si può anche vedere che nelle sue scoperte la contraddizione sociale vive in dettaglio: questo è l'orizzonte di 8½. Le fissazioni personali sono la cifra traumatica della violenza che sostiene un ordine di convivenza. Non sono simbolici per Guido; sono addirittura fissazioni, e come tali vanno riscattate: sono tortura e promessa di piacere, recuperarle nella loro particolarità sarebbe una liberazione. Dal punto di vista del film, però, hanno una grande generalità: la chiesa da una parte e i randagi dall'altra, l'infanzia in campagna, nella grande casa, piena di serve, e la vita nella grande città, di donne indipendenti - questi contrasti compongono un modello tipico, gamma occidentale.

Guido circola attivamente tra presente, memoria e fantasia. Le password sono solitamente dettagli visivi e l'origine del movimento è il momento dell'adulto. La matrice dei significati, però, è nelle immagini dell'infanzia, la cui forza e logica precedenza ne fanno la vera zavorra dell'inquietudine di Guido. I dilemmi dell'adulto appaiono come una variazione più o meno mascherata di vecchie contraddizioni, di un'ambiguità fondamentale: Saraghina è cattiva ma è buona; e la madre ei sacerdoti sono buoni ma sono cattivi. La strega, una specie di ippopotamo leonino, condotta sulle spiagge abbandonate del paese è feroce: ma è anche complice di tutte le brame, perché nella sua ferocia messa alle strette si conservava la sensuale rivendicazione della felicità che il paese scacciava e reprimeva.

Se Saraghina esiste, tutto è permesso. La scena in cui il mostro umiliato viene trasfigurato dalla danza e dagli applausi dei ragazzi, trasformandosi in leonessa e infine in turbolenta felicità, stupisce per la sua forza libertaria. Ma il bello è di breve durata: i preti arrivano presto e trascinano il ragazzo in un altro campo, religione, famiglia, scuola. La madre di Guido, una santa signora, è pulita, magra e virtuosa. Chiede al figlio di comportarsi bene. Da vicino, invece, ha l'occhio dispettoso. Mentre si asciuga le lacrime dalla palpebra sinistra, il suo occhio destro scruta fuori, duro e accusatore.

Poi il sentimento e il fazzoletto passano alla guancia destra, cambiano lato con la virtù oltraggiata. Le immagini del bene sono contraddittorie anche visivamente; la decadenza è il volto ipocrita ma trasparente dell'autorità: così nella composizione simmetrica di sentimento e tirannia su un volto, nella fragile silhouette della figura materna, contraddetta dalla durezza dei dettagli fisionomici, nel gesto consacrato dei sacerdoti, che , visti da vicino, hanno un volto di donna.

L'antagonismo tra Luisa, moglie di Guido, e Carla, sua amante, riproduce il conflitto infantile. La duplicazione rende lo schema e l'interesse psicologico della trama. Nell'orgoglio civilizzato e risentito di Luisa riecheggiano le grida di vergogna dai preti e dalla madre, come nel gesto eloquente e piccolo borghese di Carla, ossequiosamente godibile, riecheggia la diminuita libertà promessa dalla Saraghina. La corrispondenza tra le coppie è piuttosto esplicita: durante un bacio sognato, Guido trasforma sua madre in sua moglie, e nella camera d'albergo trasforma Carla in Saraghina, dipingendole le sopracciglia e chiedendole di fare un faccia da semina. Il reale è il presente, l'infanzia è immaginaria; ma la chiarezza è nell'infanzia, di cui il reale, il presente, è un intricato riflesso.

Il presente visivo è poroso, suscita memoria e fantasia; rivela la matrice irrisolta, e quindi costante, dell'infanzia. La matrice chiarisce, ordina la confusione dell'esperienza, è in grado di sostenere l'identità personale attraverso il vortice delle esigenze. L'unità della persona si fonda, quindi, sulla permanenza delle impasse, sulla debolezza. C'è piacere nel ripetersi, nell'autorealizzazione; la vita acquista così senso, anche se ingiustificabile, in quanto meramente legata alla ripetizione. Di qui l'ambigua felicità che accompagna gli innumerevoli già visto; cambia il mondo ma non cambia me, sono sempre lo stesso procrastinatore; ciò che mi conferma mi peggiora, ciò che mi salva mi dissolve, è ostile. Questa è l'esperienza che incoraggia o scoraggia la ricerca di Guido, e la rende così contraddittoria.,

Tutto ciò che gli occhi vedono può essere segno di ciò che hanno visto e vogliono modellare nella loro immaginazione. Le ginocchia della lavandaia, nelle terme, portano alle gambe danzanti di Saraghina; Carlo in camera da letto, versione Saraghina, porta l'immagine della madre; password del bambino, ala nisi masa, evoca l'ora del bagnetto e la cameretta dell'infanzia. Le immagini echeggiano: nell'harem, Guido agita le mani giunte al collo come faceva la signorina Claudia prima di andare a dormire, per evocare gli spiriti; e Claudia sarà il nome della grande stella; Guido viene portato in asciugamani dai suoi servitori immaginari, come nell'infanzia, quando veniva avvolto nei pannolini per uscire dal bagno; la donna imperiosa, che sale e scende le scale dell'albergo, ha il sorriso della statua della Vergine che Guido vide quando uscì dal confessionale, da bambino. A forza di ripetizioni e variazioni, le immagini cominciano a riverberare. Esigono e provocano un atteggiamento peculiare, di attenzione visiva, impegnata a intravedere ciò che si vede in ciò che si vede; una sorta di attenzione sensoriale, disponibile, solitamente riservata alla musica, non correlata a decisioni morali.

Non importa prendere posizione contro Luisa o Carla; è importante riscoprire in loro l'infanzia, che è anche una posizione. La postura strettamente visiva non prende posizione; trova e si associa. Attraverso di lei Guido è frutto dei conflitti in cui è entrato; cerca memoria e felicità in ogni cosa, e basta. In questo modo ha ricreato il privilegio dell'infanzia, quando correva dalla Saraghina senza sapere né curarsi del peccato. La purezza del mondo del bambino, però, che è il fascino di Guido, non sta nell'assenza di contraddizione – la madre e la rumbeira erano sempre escluse – ma nella sua ignoranza. Sebbene la contraddizione esistesse a livello oggettivo, come esistevano la spiaggia e la scuola, non era stata ancora interiorizzata, sotto forma di coscienza e impegno.

L'adulto non vede Carla senza avvertire il dispiacere di Luisa, e non vede Luisa senza sentire, nella sua leggerezza un po' asettica, l'esclusione di Carla. La pienezza delle immagini dell'infanzia corrisponde alla pienezza con cui era il ragazzo in spiaggia come in villa, prima di sapere che uno costava l'altro. Il relativo pallore delle immagini della vita adulta, invece, corrisponde al senso, presente ad ogni angolo, dell'opposto negato e perduto. L'identità tra ricerca autobiografica ed estetica ha qui il suo fondamento: se le immagini del bambino sono le più forti, è la loro ricerca che produrrà il lavoro migliore.

Guido non cerca dunque un mondo in cui il suo conflitto sia superato; basta cercare una fase della sua vita, o una postura, in cui non risenta della contraddizione, che però deve essere netta e vigorosa, e deve sempre mordicchiarlo. Cerca la ripetizione innocua, ma non il superamento. La possibilità dell'infanzia di allinearsi con il due lati della contraddizione, di non scegliere tra i propri cari, è la tua invidia. È questo che cerca di recuperare riducendo il mondo alla dimensione visiva: ridotto, il mondo ridiventa pieno; less is more, poiché le immagini non si negano attivamente a vicenda, anche se contraddittorie possono coesistere. La distruzione è al livello delle azioni viventi, la logica delle situazioni.

Guido preferisce vedere solo. Ora, l'esenzione in mezzo alle contraddizioni è cosa da eremita o privilegio. In linea di principio, il mondo potrebbe mettere da parte chi non se ne cura. Guido, invece, si astiene da una posizione di forza, da regista. Il mondo viene a cercarti invece di lasciarti. C'è il privilegio, anche il bel privilegio di non rispettare, almeno visivamente, i privilegi sociali o le norme repressive. La postura contemplativa – gli occhi cercano il loro piacere ovunque sia – presuppone una repubblica soddisfacente, che non esiste.

La prova è che al corpo non è concessa l'attiva e abbondante poligamia concessa agli occhi, il cui naturale democratismo, la cui immediata capacità di interesse e simpatia non ribaltano, a loro volta, le differenze sociali. Gli occhi sono progressivi mentre il corpo obbedisce ancora alla legislazione retrograda. La posizione di Guido è ambigua; oscilla tra la critica e il compiacimento, perché se è nato dal ritiro, sta più o meno bene in pensione e si gode lo spettacolo dal quale si è ritirato. L'evasione non risolve nulla, ma segnala un'impasse e un desiderio che sono reali. È una resistenza simbolica, anche se subdola e umoristica; una coscienza mista, consapevole che i suoi conflitti insormontabili non sono insormontabili, e che contano poco.

4.

La ricerca dell'immagine giusta è centrale nel film, è necessario interpretarla. È un tema attraverso le ossessioni visive di Guido e un presupposto tecnico della trama, poiché deve essere creata l'illusione di un'esperienza immediata e ricca, inaccessibile alla riproduzione artistica. 8½ è una straordinaria bellezza visiva. Le immagini che presenta, inseguite da Guido, irradiano felicità e malinconia in un misto – la loro ricchezza è la presenza più immediata per chi la vede, ma è anche la più immateriale del concept, in quanto non direttamente legata alla trama e il dialogo, sebbene ne sia il contesto essenziale. L'immagine felice è un'utopia criptata.

Guido e 8½, ciascuno a modo suo, convergono in quella ricerca: far apparire le persone secondo la loro natura; dar loro ragione finché non prospereranno disinibiti. Le immagini toccate dalla poesia sono poste, le figure sembrano esserlo di proposito cosa sono. Questa è la chiave del tuo respiro. Nelle sue visioni, Guido in qualche modo modifica le figure, per incoraggiarle a sbocciare. Ricordiamo la scena con Carla, sulla terrazza delle terme. Quando nota la moglie accanto a Guido, l'amante di periferia amplia intuizioni di cosmopolitismo, mette in atto uno splendido rituale di discrezione; La famiglia, nonostante la pelliccia eccessiva, terrorizzata dalla situazione, ma anche lusingata, un po' impazzita dal resort di lusso e, soprattutto, trovando sublime il sacrificio di essere una signora sola nel parco, si nasconde in un angolo in pianura vista.

La scena continua nella fantasia di Guido, che, dietro gli occhiali scuri, visualizza Carla che canta, generosa, distesa e commossa come una giraffa che ulula alla luna, infelice ma felice perché amata a distanza, sola e vessata come un violinista d'operetta . La visione realizza ciò che la realtà richiede. Attraverso un'empatia accentuata, ciò che sarebbe stato sconsiderato si trasforma in una strategia consapevole. Mettendo in scena se stessa, Carla non è più il proprio volgare limite; la sua volgarità è una graziosa stilizzazione che ha scelto. Il romanticismo di una telenovela radiofonica, esaltata ma prudente, di Margarida Gauthier nei limiti della praticabilità, diventa ironia in mezzo a difficoltà superate. L'euforia dell'immagine, la sua disinvoltura utopica, deriva dall'apparente disinvoltura all'interno degli impegni sociali.

L'immaginazione di Guido salva Carla dalle contraddizioni reali e dai limiti del buon senso, è una fase in cui non risponde di quello che fa. In questo contesto, l'imbecille sentimentalismo dell'immagine – a cosa serve il canto modesto e meraviglioso, quando la moglie è davanti, sbuffando e sbuffando? – subisce una trasformazione sorprendente: nel mondo irreale, dove non si diventa abietti per l'umiliazione a cui corrisponde, la volontà di compiacere traduce solo la volontà di essere e di rendere felici. Liberati dalla sua conseguenza pratica dalla fantasia, i due lati della contraddizione diventano positivi, non richiedono mutua esclusione.

Carla si sente sublime e scusante allo stesso tempo, il che nell'immagine è due volte meglio: una volta perché è giusto accontentarsi, e una volta perché è divertente aggirare le istituzioni ostili. Nell'uno come nell'altro si agitano valide pretese. In realtà, però, che è della moglie, e le leggi, ed è costretta, accade il contrario: perché soddisfa i capricci suoi e di Guido, Carla sarà più puttana che sublime; e anche nella discrezione ci sarebbe meno felice complicità che paura e dolore. Luisa, la moglie, fulmina Carla, l'amante. Gli aneliti contraddittori, che furono felici uno per uno, costituiscono l'offeso quando sono impacchettati nella loro conseguenza pratica. Dare a Carla ciò che è di Carla, anche se lei non può sostenerlo – questa è la bellezza dell'immagine – e non dare a Luisa ciò che è suo; e viceversa. Non è possibile giustificare i due, se non nell'immagine, in quanto si nutre della reciproca negazione. Si vede già che la felicità sta in visioni isolate, buone in sé stesse, e che nella trama, nella dimensione delle conseguenze e della responsabilità, c'è il disastro.

Guido ha un debole per la debolezza. Vede in lei il desiderio che non si riscatta, che non è forza solo per la forza delle circostanze. L'amore dell'istante è la paura della sua continuazione. L'immagine ospita possibilità di cui la trama non è a conoscenza e resiste a essere inquadrata in essa; è per lui, che ne dispone, come desiderio personale per il cammino della società: è una cellula sovversiva, la cui ricchezza, senza alcuna utilità per la trama, spira lamento e protesta contro l'obbligatorietà della semplicità di ciò che le accadrà . Potrebbe essere il punto di partenza di una nuova trama, di un mondo che rendesse giustizia a ciò che la vecchia trama scartava.

Costruita contro la trama ostile, l'immagine felice è il germe immaginario di un altro ordine di cose. La perfezione scorre sull'esistenza e incita alla speranza; nell'atmosfera fantastica del film, la felicità potrebbe diffondersi come un prurito. Da qui il potere sorprendente di queste immagini. Guido però non vuole rivoluzionare il mondo, nemmeno nella sua immaginazione. Vuole curare certi dolori, ma non per sempre o del tutto, perché perderebbe il piacere di guarire. Di qui la malinconia canaglia che accompagna le sue piccole rivoluzioni visive; non sono seri.

E c'è anche un'altra tristezza, questa irrinunciabile e pesante: Guido vuole che i suoi personaggi siano felici, ma qui e ora, senza trasformarsi, perché trasformati non sarebbero più quelli che vuoi bene. Non vuole la rivoluzione, vuole la redenzione. Vuole che i personaggi siano, ma non come sono: felici, sarebbero liberi dalla loro contraddizione, e non sarebbero quello che sono ora; essendo come sono, non sarebbero felici. Il corso è contraddittorio: per dare la felicità è necessario sospendere la contraddizione che rende infelici, che sospende però l'individualità per la quale la contraddizione è stata sospesa. Nella prospettiva di Guido, l'immagine felice non è vera, e l'immagine vera è infelice.

In termini di logica drammatica: non è tutta Luisa a scacciare Carla, né sarebbe il contrario. Per combattere, le rivali dovrebbero specializzarsi l'una nell'essere un'amante e l'altra nell'essere una moglie, a scapito del massimo che potrebbero dare. L'impasse istituzionale pesa sull'immagine, le figure non possono convivere pienamente se rispettano il loro contesto sociale. Trattenuto dalla contemplazione, tuttavia, traboccano. Straripanti, suggeriscono nuove trame o mete più ricche. Ma Guido accetta i suggerimenti solo a metà; per il regista personalista il ruolo della fantasia è ambiguo: deve recuperare l'integrità che la vita danneggia, ma non importa se al di là o all'interno del conflitto.

Il desiderio di pienezza è minore della fobia per la tristezza dell'imperfezione visiva. Il criterio non sono le esigenze del mondo, ma la serenità del regista. Due sono, dunque, i modi nella composizione dell'immagine felice: uno, trionfale, in cui il personaggio supera ciò che lo limita, raggiungendo l'interezza; nell'altra, umiliante per l'oggetto, è la vanità personale agiustada alla situazione reale per non discostarsene; pertanto annullato. In entrambi i casi, l'armonia risulta antagonistica per la contemplazione. Nel ritiro visivo non sono escluse la benevolenza e la crudeltà più generose.

La felicità e la correttezza delle immagini derivano dalla loro irrealtà. Negano, sublimano, superano i conflitti reali, lasciano intravedere la libertà nel corpo anche di chi è imprigionato. La realtà infelice è il loro riferimento, al di fuori del quale non hanno significato. Non hanno autonomia. Con grande disperazione di Guido, non compongono una storia, sebbene facciano parte della storia di un regista che, attraverso di loro, non può comporre una storia. Il miglior esempio è Claudia. Nel criticare la sceneggiatura di Guido, i letterati magri affermano che lei è il più ammuffito dei cliché ammuffiti che compongono il futuro film; Sì hai ragione. Tuttavia, è una delle immagini più belle del presente film. Come spiegare? Presa da sola, infatti, sarebbe una stupida fata. Ma il suo contesto è la fantasia di Guido, un po' indebolito e fragile, che si riprende il fegato alle terme.

Vista attraverso i nervi stanchi, la sua immagine bianca di nutrice delle anime e del corpo è medicinale. Il bicchiere d'acqua, che esce dalle tue mani, è come la fontana della nuova vita. Il suo passo è leggero e fermo come la dolcezza estatica del suo sorriso. Ah, costanza senza sforzo. Il corpo è pieno, ma i piedi sono morbidi, scalzi sull'erba. Oh, peso che non fa male. Claudia avanza come se bevesse la brezza, le mani un po' troppo tardi, suggerendo che sta per volare. Ah, sogna, non volare già. Ha bisogno di essere visto due volte: come l'airone bianco e bianco, ragazza cresciuto tra oggetti di vecchia bellezza, purezza e soluzione nel film di Guido, e come silenziosa e rasserenante controimmagine del disordine, delle occhiaie, del rumore. È la presenza di Guido che dà vita alla parola d'ordine. Claudia non può recitare, non ha continuità nel mondo immaginario; la sua sostanza è l'attimo di Guido. È come una tua poesia. Ma le poesie non compongono un romanzo.

Stare dalla parte dell'incoerenza, dell'immagine contro la trama, dell'istante contro la sua conseguenza, è schierarsi dalla parte dell'irresponsabilità; ma è anche il lato delle pretese inibite o calpestate dalla coerenza che sta al potere. Questa ambiguità è il limite di Guido, il suo fallimento come regista, il suo interesse come personaggio. Non c'è realismo nel tuo atteggiamento, poiché prevarrà la coerenza; ma c'è un senso nella sua sconfitta. Ne risulta un'atmosfera elegiaca, di lamento sulla possibile felicità, sulle possibilità che la situazione lascia, ma non permette di fiorire. Paradossalmente, l'impotenza di Guido trasmette, attraverso l'irritazione che ci provoca, la precisa sensazione che l'ordine della vita sia obsoleto; coscienza e mezzi materiali, tutto sembra a portata di mano per modificarla.

5.

L'immagine felice, costruita per la guarigione personale, nasce da una semplice operazione: trasforma ciò che è destino in opzione, in maschera ciò che è cicatrice, e fa così scomparire il segno della coercizione sociale. Annulla la differenza tra scopo ed esistenza. Crea un mondo felice e fraterno, il cui scopo è fare del bene a Guido, non infastidirlo. È come una repubblica socialista di cui lui era il re. Le immagini di pace sono immagini di violenza, in quanto ne annullano altre per pacificarle. La fantasia del ballo riconciliato tra moglie e amante ne è un esempio; fa piacere a Guido, ma è possibile solo perché Luisa è stata svuotata.

La generosità di Guido è generosa con se stesso e brutale con i personaggi. La disparità tra affetto e impertinenza culmina quando Guido trasforma la donna in una bella cameriera indaffarata, che le prepara il bagno e spazzola il pavimento del suo harem. Le conciliazioni sono tutte comandate, opera dell'immaginaria onnipotenza di Guido; non risolvono nulla, non attraversano l'interiorità dei personaggi ei loro conflitti. Non a caso la grande pacificazione finale avviene in una ciranda. I genitori e il figlio, i preti e la rumbeira, la moglie e l'amante, gli attori e il loro regista, si danno la mano in un ballo fraterno, senza però risolvere una sola differenza tra loro.

L'immagine della farandola pacificata ha tre facce: per Guido è felice, in quanto sospende le sue contraddizioni più dolorose e permette una conciliazione, illusorio, dallo straripamento sentimentale; per i personaggi è un oltraggio, poiché il proprio è messo da parte, per amore della pace di Guido; per lo spettatore è commovente e irritante, perché pur rispondendo a un dolore reale, non lo supera – per l'illusione che crea, chiude un cerchio di recidive. Guido passa quello che passa senza imparare, alla fine è allo stesso punto da cui è partito. Vuole, con la forza, prendere le contraddizioni come se fossero armonia, mantenere il mondo così com'è; per non perdere nulla, non vince nulla, per non mentire a se stesso, o anche a Carla e Luisa, mente a loro tre.

Guido cammina in cerchio. L'orizzonte di 8½ e lo spettatore però non è tuo, è più grande. Quindi, il conflitto non è tragico, che ha più inerzia che necessità. L'inerzia di Guido, però, provoca una reazione fortissima, apparentemente sproporzionata. Anche Carla è sposata, anche Luisa flirta. Tuttavia la situazione dei due è incomparabile con quella di Guido, la cui compiacenza li colpisce e li scandalizza come decisiva. Per quale ragione? Solitamente, trovare una soluzione privata e segreta alle impasse collettive, che sono quindi inevitabili, è segno di saper vivere. Tranne quando la soluzione personale può avere portata pubblica, sospendendo l'impasse che rendeva necessari l'ingegno e il segreto individuale. La mancata pubblicazione diventa allora conformismo, e per di più diventa ridicolo, perché produce una prudenza già inutile.

Sebbene sia palpabile dall'esperienza, l'anacronismo nelle impasse di Guido è difficile da individuare. Perché non sono valide le ossessioni di un uomo, i suoi compromessi tra la moglie e l'amante? Qual è il contesto che toglie loro peso? Guido non è semplicemente un uomo; è un regista. Il cinema, con l'atmosfera che lo circonda, introduce una costellazione pratica per la quale i conflitti borghesi sono lettera morta. Per quanto forte possa essere il senso di ciò, ciò non è facile da dimostrare, poiché si tratta dell'orizzonte effettivo, ma mai esplicitato, di 8½ e la nostra cultura. I segni del nuovo mondo sono appena percettibili, anche se sempre sufficienti a rendere struggente e obsoleta la permanenza del vecchio mondo.

Non ci interessa qui l'argomentazione astratta contro la società individualista; Abbiamo cercato le immagini e le situazioni la cui sola presenza, nel film, bastava a rendere obsoleti gli impegni di Guido. Nella sua passeggiata tra le terme, il regista vede un susseguirsi vertiginoso di volti straordinari, imperiosi e originali. La sequenza non è dovuta solo alla perspicacia del suo occhio allenato, che sa vedere, ma all'esibizionismo che suscita la sua professione. Quindi il viaggio accelerò e accelerò intorno ad esso.

Intravista da tutti nell'attenzione del regista, la cinepresa rappresenta un nuovo stadio della tecnica, suggerisce nuovi modi di convivere. Mobilita impulsi come quello che fa sobbalzare un ventaglio, in modo che gli spettatori in città prendano coscienza del suo volto. Non che pensi di essere bello, ma vuole essere visto. La cinepresa ha un potere curioso, che va interpretato: rende le persone orgogliose di essere quello che sono., Davanti all'occhio impersonale, al tempo stesso di portata universale, si mostrano smorfie e intimità che normalmente vengono accuratamente nascoste.

Ciò che è vergogna o handicap visto da pochi, acquista dignità di patrimonio nazionale quando siamo tutti pubblici. Ciò che viene esposto a fianco in una prospettiva particolarista e antagonista, è peculiarità personale, tratto ardito, curioso nell'insieme umano non appena il punto di vista è collettivo. È come se la gente dicesse: guarda che neo interessante è questo; oppure, guarda com'è brutto il mio piede; oppure, guarda quanto sono grasso o magro. Già si vede che il cinema suscita, in piena regola, l'emancipazione che Guido compie con raffinatezza, a riprova del suo talento personale ea favore di chi gli sta a cuore. La portata della tecnica sfugge a Guido, che liquida come benevolenza le sue virtualità che appartengono alla cultura. Qui sta la convergenza così come la divergenza tra e Guido.

Ci sono gesti che si possono fare solo da soli – l'infanzia di Guido, in bagno e in corridoio – o davanti alla telecamera, che mostrerà a tutti il ​​gesto. In questo paradosso è codificato il respiro utopico del cinema. Il film, per la sua meccanica imparzialità e per la circolazione sociale che ha, crea o contribuisce a creare un'universalità non solo teorica, ma pratica; ci può essere piena pubblicità di tutto. Rappresenta una fase tecnica in cui i segreti e, quindi, l'antagonismo organizzato vengono mantenuti solo ad arte.

Libera l'individuo dalla sua posizione particolare nella società, dalla sua convivenza ristretta e restrittiva, per dargli come sua sfera l'intera vita sociale. Non è solo un'estensione. È l'asse stesso della convivialità che si muove. Il riferimento collettivo eleva le facoltà che il conflitto immediato soffoca. L'occhio cinematografico è un confessionale speciale: l'ascoltatore non è un prete autoritario, ma la nazione nei suoi momenti di curiosità e svago; tutto ciò che diverte e non disturba merita l'assoluzione, cioè la licenza.

Davanti all'occhio universale della scienza, davanti all'universalizzatore concreto che sono i mass media, le peculiarità personali cessano di essere una segreta debolezza e un segno di disumanità – come lo sono sempre state in tutto il contesto competitivo – così come le contraddizioni sociali cessano di essere un fatto naturale e insormontabile. Il cinema, la psicoanalisi, la sociologia, la stretta convivenza nella grande città, queste prospettive rendono insostenibile la finzione borghese della natura umana, della società composta da animali proprietari, competitivi e monogami. In queste circostanze, che sono quelle del film, la persistenza dell'ordine di vita tradizionale è particolarmente dolorosa.. Porta alla generalizzazione della malafede e alla nascita di nuove forme di essa.

Luisa, vedendo Carla nel parco, dice a Guido: “Quello che mi fa infuriare di più è pensare che quella mucca sa tutto di noi”. Poi esplode, a bassa voce perché è civile: “Puttana!” Subito dopo, si scusa per aver interpretato la borghesia. Il suo furore è complesso: “sapere tutto”, in questo caso, significa conoscere cose straordinarie? Affatto. La violenza di Luisa più finge che difende una preziosa intimità, in buona parte è indignazione per l'inesistenza di ciò che intende proteggere. Il riconoscimento dell'uguaglianza è implicito nella dolorosa ferocia con cui afferma la sua differenza. Luisa è consapevole della varietà dei desideri e non riconosce più l'autorità dei tradizionali divieti; intellettualmente non c'è motivo di ribellarsi.

La critica teorica, tuttavia, non esclude la contraddizione pratica. La prolungata convivenza dei due, a sua volta, brucia i nervi. Luisa dice a Guido che lui “mente come respira”, il che vale anche per lei e per tutti coloro che vivono nella sua situazione – se mentire a se stessi è compreso tra le bugie. Nasce un nuovo tipo di fisionomia, corrispondente proprio a questa costellazione: la fisionomia dell'intellettuale, dell'uomo consapevole e geloso delle sue contraddizioni. Per quanto ne so, fu messo su tela per la prima volta da Fellini e Antonioni. Il viso è logorato, ma non per lo sforzo fisico, quindi conserva tratti giovanili, che non sono felici; è a volte libero ed espressivo, anche se in generale sembra intrappolato, non dalla stupidità, ma dalla consapevolezza presto maniacale delle proprie contraddizioni; c'è debolezza, ma non decadenza, perché lo sforzo per cercare la verità, per vivere una vita più o meno giusta, è costante.

Diretto contro Guido, ma anche contro se stesso, il teso miscuglio di disprezzo, pietà e furore forma un rictus spaventoso attorno alla bocca di Luisa il cui volto dolente, consapevole e distruttivo ne è un emblema, fedele al film come il sorriso di Guido, generoso, compiacente e depressivo. Il mondo ha le facce che può avere.

Guido vede ma non sente, nascosto dietro gli occhiali scuri. Ignaro della conversazione e dei problemi che si presentano in essa, crea il suo mondo felice. Gli altri sentono, ma non vedono: immersi nei loro problemi, non ammettono che c'è un mondo fuori di loro. È questo il contesto che dà ricchezza e verità allo schematismo delle grandi scene finali. La ciranda della felicità, in cui si recupera la fraternità universale e la purezza delle bianche figure, sarebbe sentimentalismo se fosse di rose, se presentato come soluzione. Essendo però irreale, solo visione, è giusto che sia trionfante, poiché concilia dolorose contraddizioni. Essendo trionfante e irrealistico, si tinge di malinconia e ha una bellezza toccata dall'improbabile. La tua bugia è la tua verità, euforia e gola stretta: l'apoteosi diventa segno della tua stessa assenza.

* Roberto Schwarz è un professore in pensione di teoria letteraria all'Unicamp. Autore, tra gli altri libri, di Qualunque cosa (Editore 34).

Originariamente pubblicato, con il titolo "Il ragazzo perduto e l'industria", in supplemento letterario dal giornale Lo Stato di San Paolo, in 1964.

Riferimento


(otto e mezzo)
Italia, 1963, 138 minuti
Regia: Federico Fellini
Interpreti: Marcello Mastroianni, Anouk Aimee, Sandra Milo

note:


[1] Nel suo saggio su Le affinità elettive, Walter Benjamin commenta la resistenza di Goethe al matrimonio: “Preso atto della tremenda esigenza delle forze del mito, conciliabili solo attraverso la costanza del sacrificio, Goethe si ribellò”, in Caratteri, Suhrkamp, ​​​​Francoforte a. M., 1955, pag. 99.

[2] “Sente che vivendo ostacola il proprio cammino. Ma in questo impedimento, invece, trova la prova che vive”, F. Kafka, “Lui”, in Descrizione di un combattimento.

[3] “L’industrializzazione capitalistica del cinema preclude all’uomo contemporaneo il diritto di vedersi riprodotto”, Walter Benjamin, L'opera d'arte al momento della sua riproduzione tecnica.

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