da RICARDO FABBRININI*
Le fotografie di Saggese non sono testimonianze della foresta amazzonica, che in termini di elogio ne elogierebbe lo splendore o il fotogiornalismo ecologico.
Le fotografie di Antonio Saggese articolano nuovi modi di pensare e produrre un'immagine, opponendosi all'immagine egemonica nella società dello spettacolo o all'ipervisibilità del presente. La sua sfida è opporsi all'abbagliante catena di immagini, in cui ogni cliché non fa altro che condurre al successivo – il che ci riporta all'idea di “Total Screen” di Jean Baudrillard – un'immagine che custodisce qualche enigma, che allude a qualche segreto, mistero o ritiro, evocando nell'osservatore uno sguardo più pigro, trattenuto, se non apprensivo.[I]
Le sue fotografie sono immagini eccezionali che mirano a restituire la visione all'occhio saturo, accecato dall'eccesso di immagini vuote, anche se molto intense dal punto di vista sensoriale, dal mezzi di comunicazione di massa o la rete digitale, reagendo così alla cosiddetta “iconomania contemporanea”.[Ii] La sfida per chi guarda le sue fotografie è “cosa c'è da vedere in questa data immagine”; e non "quello che vedrai nella prossima immagine".[Iii]
Nel percorso di Saggese è ricorrente, a partire dalla serie “Mecânica”, del 1988, la cancellazione del cliché alla ricerca di immagini enigmatiche. pinup dalla rivista Playboy – il tutto immerso in polvere o segatura. Sono fotografie di immagini stereotipate del corpo femminile – come quelle della pubblicità, del cinema o della televisione – che vengono raffigurate come bambole di plastica, color cera, senza alcun vigore o traccia di vita vissuta, come feticcio o simulacro, insomma. Disposte sulle pareti dei laboratori, queste immagini cliché appaiono qui, nella foto di Saggese, decentrate, sbiadite o strappate – come nella decolli di Jacques Villegé – in una tonalità bluastra o terrosa che accenna alla malinconia.
Questa cancellazione della rappresentazione stereotipata del corpo femminile in mezzi di comunicazione di massa, ovvero le modalità di produzione della conoscenza o della verità sul corpo, che sono in realtà simulacri di una pratica liberatoria, è visibile anche nella serie spirito del corpo, di 1970 a 1990, in Negativo PB, in cui le regioni del corpo sono raffigurate come un paesaggio terrestre. Nella geografia parziale del corpo in riposo, le cui forme concave o convesse alludono a valli e colline – evocando senza epigonismo il pittorialismo di Edward Weston o Helfried Strauss – crollano i luoghi comuni. In queste immagini, il corpo non è affascinato da photoshop, né bollata come pornografia, nel senso di banalizzazione del corpo e mercificazione del piacere, ma unta di bellezza perturbante, legata all'erotismo e alla seduzione, al sacro e al segreto.
Saggese ha più volte affermato che l'apparato fotografico basato sulla convergenza tra un sensore elettronico e l'elaborazione del computer consente a chiunque, senza competenze o conoscenze preliminari, di catturare in un istante innumerevoli immagini, ferme o in movimento, ad alta risoluzione, con il semplice gesto di attivare un bottone. È attraverso questo gesto automatico, come nella corrente selfies compulsiva, che ogni fotografia così ottenuta riafferma la sintassi convenzionale delle immagini che circolano sugli schermi di computer, video, televisioni o cellulari. Saggese non cerca un'immagine di resistenza ricorrendo a telecamere analogiche a bassa tecnologia, ma, al contrario, utilizza fotocamere digitali ad altissima sensibilità, modificate per catturare l'infrarosso, con lenti di grande luminosità, e con sensori che modificano la profondità; successivamente, queste immagini così prodotte vengono da lui modificate al computer, nella speranza che questo intervento tecnico si traduca in potenzialità artistiche impossibili da ottenere nei film fotochimici.
In questo modo, Saggese non converte la sua padronanza tecnica di nuovi obiettivi, macchine fotografiche e programmi per computer – che integrano l'Apparecchio come un “processo di codifica della scatola nera”, nella caratterizzazione di Vilém Flusser – in feticismo della tecnica.[Iv] Non esplora l'effetto facile, illustrativo, utilitaristico, digestivo delle immagini tecniche che realizzano quanto già precedentemente inscritto nel programma della fotocamera digitale, ma “gioca con esso”, se non contro di esso, come vedremo, mirando a produrre un un'immagine inedita che sorprende l'osservatore. Se nella società dello spettacolo ciò che si mostra è il valore di mostrare l'immagine, ciò che si fa con l'intenzione di produrla – nel culto del dispositivo –; diversamente, nelle fotografie di Saggese che reagiscono a interventi meramente decorativi, alla saturazione dell'estetismo, ciò che si vede è un'immagine incompatibile con il progetto della sua mostra.
Vediamo la serie di foto Hylea e Yg. La serie Hiléia è il risultato dei viaggi di Saggese, tra il 2014 e il 2016, in igarapés, buchi e igapós, nel Pará. In questi viaggi, con attrezzature leggere, Saggese si è intrufolato nella foresta, non più vergine, come attestano le palizzate e le barche, visibili nelle sue fotografie, per immortalare le meraviglie che appare da sé, richiedendo però, per essere catturato, il preventivo accordo da parte del fotografo. Non si trattava, quindi, di produrre il caso – o di prenderlo come caso oggettivo come uno strano incontro tra due serie di eventi allo stesso tempo simili e indipendenti, abilmente architettati dalla Natura, come volevano i surrealisti – ma semplicemente di dedicare raddoppiato attenzione a tutto ciò che è al di fuori di una probabile aspettativa – come procederà anche, come si vedrà, nel video urbano Nero. Saggese si pone, insomma, in mezzo alla foresta, in uno stato di ricettività integrale – analogo all'attenzione fluttuante – per cogliere le potenti forze atmosferiche nascoste nelle cose, se non nei luoghi, o nei suoi precisi termini, qui vicino agli arcieri, per mietere “la fortuna, che premia gli insistenti”.
"Hilea" dal greco hyle, è “luogo della foresta”. Hylé è “tutto ciò che ha a che fare con il legno”, e per estensione “materiale da costruzione”, ma è anche causa – se si ricorre ad Aristotele – “in quanto qualcosa si fa e si presenta”, come insegna Leon Kossovitch, che amalgama il a seguire, i due significati: “Foresta di legno con cui si produce qualcosa, materia come massa e tutto ciò che qua e là si assottiglia, senza però desertificarla”, indicando la presenza dell'uomo.[V] Nelle immagini di Hylea non abbiamo le convenzioni dell'arte figurativa della fotografia naturalistica o della pittura di paesaggio, come la linea dell'orizzonte, i punti di fuga, il fuoco di luce, la prospettiva aerea o atmosferica, che garantirebbero la modulazione, i volumi, la proporzione tra le figure; infine, la scena dell'illusionista.
In queste immagini la composizione, intesa come unità nella molteplicità degli elementi, o anche come disposizione sintagmatica che subordina organicamente le parti al tutto (in termini di ipotassi) è sostituita dalla giustapposizione di elementi eterogenei (in termini di paratassi) .
L'unicità della serie Hiléia risiede nell'effetto grafico, di calcografia, puntasecca o penna e inchiostro, di queste fotografie. In queste immagini fotografiche non c'è fumo, gradiente o mezzitoni di nero, producendo modellazione o l'illusione del volume, ma hachures e superfici quasi piatte. Al computer Saggese esalta alcune linee o addirittura aree, rendendole luminescenti, e ne abbassa altre, oscurandole, in modo tale che l'effetto finale sia un'intensificazione del contrasto bianco e nero. Tra gli emendamenti che impediscono il inganna l'occhio, l'effetto di illusione o verosimiglianza naturalistica tipico delle cosiddette vedute paesaggistiche, abbiamo, in una data immagine di questa serie, un trattamento digitale che accentuando l'oscurità dell'acqua rende la scena poco plausibile a causa del bagliore del cielo, mescolando giorno e notte, alla René Magritte.
E ancora: le inquadrature molto ravvicinate o molto ravvicinate della foresta, così come il successivo dettaglio digitale delle sue foglie, tronchi e nuvole, impediscono anche l'"effetto reale", ovvero che l'immagine fotografica sia intesa come un mondo duplicato che continuerebbe oltre la cornice. Privato di prospettiva, l'osservatore, in altre parole, non proietta più illusoriamente l'immagine fuori dall'inquadratura. L'abbandono della profondità, impedendo l'estensione dell'immagine al controcampo (extra-frame), mette in guardia sulla materialità della fotografia, come costrutto linguistico, evidenziando così un'altra scena fino ad allora invisibile o repressa, quella del lavoro stesso del fotografo, – il fatto che tali immagini fossero il risultato di una selezione di procedure scelte intenzionalmente.
Sulla Serie Yg (termine Tupi-Guarani che designa l'acqua) Il Saggese ha attraversato igarapé e igapós nella foresta amazzonica. Si addentrò nella foresta lungo fiumi dalle acque limpide e, soprattutto, scure, a causa della bassa profondità, nei qual caso usò delle canoe (igarapés: “sentiero in canoa”; ygara: canoa; apé: sentiero). Sono fotografie della vegetazione fluviale, composta sia da arbusti, ninfee, liane e muschi, piante comuni nelle zone umide, sia da alberi come alberi della gomma, buriti e kapok. In diverse immagini di Yg abbiamo un effetto grafico simile a quello di Hileia. Le sue immagini sono state anche alterate digitalmente da Saggese che ha spruzzato pollini di luce sulla superficie della fotografia. In alcune di queste immagini ha modificato più che punti, aree, rendendo, ad esempio, il riflesso nello specchio d'acqua, un luccichio di argento puro, offuscando così la linea di demarcazione tra fiume e cielo. Non mancano però anche in questa serie immagini dai toni brunastri o porpora in cui l'effetto pittorico prevale sull'effetto lineare, la macchia trionfa sulla linea, attenuando il carattere grafico di Hylea.
In questi casi abbiamo un effetto simile a quello della serie pittoresco, esposta nel 2015, che evocava il sentimento del sublime romantico, come quello di Edmund Burke alla fine del XVIII secolo. La sua intenzione, in queste opere, è quella di attribuire alle immagini tecniche della natura il potere di produrre nell'osservatore un effetto di stupore o stupore, che non risulta dalle edulcorate registrazioni della natura che circolano ininterrottamente nei media o nella rete digitale, come nei portali turistici o ecologici. In queste immagini di Saggese, invece, tutto è ambientato in un vortice così che lo spettatore, come preso da una passione scopica (o dalla follia dello sguardo), viene travolto da un vortice di forme, luci e ombre. Se si è già accennato all'associazione con il cosiddetto romanticismo a proposito di pittoresco, è perché nelle immagini di questa serie il nero delle nuvole che annunciano una tempesta, o il candore della schiuma delle onde che si infrangono sugli scogli, in modo tale che, di fronte ad esse, l'osservatore sperimentasse qualcosa di analogo a un sentimento di attesa o di sospensione (“Will something accadere?”), che si avvicinerebbe alla nozione di “stupore” di Burke, intesa come “la passione provocata dal grandioso e dal sublime in natura”; o anche, nei termini dell'autore stesso, come “quello stato d'animo in cui tutti i movimenti sono sospesi perché lo spirito si sente così pieno del suo oggetto che non può ammettere altro né, per conseguenza, ragionare su quell'oggetto che è il bersaglio del tuo Attenzione". [Vi]
È importante sottolineare, tuttavia, che le forme nebbiose di queste fotografie – come il “fumo che si mescola all'aria polverosa quando raggiunge una certa altezza” come descrisse Leonardo da Vinci nel Trattato di pittura; le ninfee di Claude Monet; Voi sfumato di Odilon Redon; le vaporizzazioni di JMW Turner; e nella linea pittorica della fotografia, le nuvole di Alfred Stieglitz – portano alla cancellazione del referente (dell'oggetto come dato luogo nella foresta) ponendo così l'immagine “al di là delle qualità intrinseche del referente”, in modo tale che la foresta sarebbe più osservata “dal suo aspetto esteriore, ma secondo le regole della bellezza pittoresca”, nell'espressione di l'autore e pittore del XIX secolo William Gilpin.
Per Saggese il referente si sposta, nella fruizione di queste immagini, dal mondo cosiddetto reale o esistente, ad altre immagini, non solo quelle citate sopra, certo, ma anche alle incisioni giapponesi del mondo fluttuante di Hiroshigue, Hokusai , o Utamaro (Ukyo-ê); ai light painting in madreperla di Armando Reverón; o gli acquerelli del “pittoresco atlante dei cieli” di Hércules Florence, tra gli altri riferimenti cari al fotografo.
Nel lavoro di “post-produzione”, di alterazione dei codici dei pixel per introdurre, ad esempio, variazioni tonali, Saggese getta sospetti sulla natura rappresentativa (o addirittura indiziale) della fotografia. Questo perché le immagini digitali danno visibilità a ciò che è impercettibile nelle “modalità tradizionali di rappresentazione” delle pellicole fotosensibili, come ha mostrato Antonio Fatorelli.[Vii] Alla luce di questa attenta manipolazione digitale nella produzione dell'immagine – da questo pittorialismo pixel distinto dal pittorialismo della fotografia che emulava la pittura - e la sua successiva stampa in schizzi di inchiostro su carta per rotocalco o altri materiali, lo spettatore non può rilevare le modifiche, e quindi se ciò che vede nell'immagine è una rappresentazione della foresta, cioè se "Quello era!" effettivamente testimoniato dal Saggese, oppure no.[Viii]
Le fotografie di Saggese non sono dunque testimonianze della foresta amazzonica, che in un elogio ne elogia lo splendore, o fotogiornalismo ecologista che denuncia lo spreco criminale delle risorse naturali, ma immagini tecniche prodotte da dispositivi (macchine fotografiche, obiettivi e computer) che sospendono la convenzioni della fotografia paesaggio, genere ereditato dalla storia della pittura. Saggese, però, non si limita a realizzare automaticamente le potenzialità già inscritte nei programmi di questi dispositivi, come dicevamo. Non le usa strumentalmente per produrre altre fotografie, ma le manipola, “gioca con lui”; “gli gioca contro” non lasciandosi dominare da lui. Da questa manipolazione – come l'alterazione di un'immagine ottenuta da una fotocamera digitale da un altro programma per computer al fine di produrre linee luminescenti o aree scure – che esplora regioni sconosciute dei dispositivi, risultano “immagini mai viste prima”.
Saggese agisce concettualmente perché tecnicamente; il che significa che la sua intenzione artistica deve prima essere tradotta in un concetto (nel linguaggio del dispositivo) e poi transcodificata in un'immagine artistica mediante stampa su carta. Ogni fotografia sarebbe così il risultato di un rapporto conflittuale tra “collaborazione e combattimento” tra il fotografo e il dispositivo, per dirla con Flusser. In modo tale che, davanti alla sua fotografia, l'osservatore possa chiedersi se sia stato il dispositivo ad appropriarsi dell'intenzione del fotografo, deviandola ai fini in essa programmati, o se sia stato il fotografo ad appropriarsi dell'intenzione del fotografo dispositivo, sottoponendolo al proprio intento artistico. Se nel caso delle immagini cliché il dispositivo devia gli scopi del fotografo verso i loro scopi programmati, rafforzandoli, nelle immagini enigmatiche l'intenzione artistica del fotografo prevale sull'intento codificante del dispositivo. Non è negando il progresso tecnico e il suo crescente automatismo, ma appropriarsene, che Saggese riprende il potere sui dispositivi.
Saggese non cerca la specificità della fotografia, ma i reciproci contagi tra linguaggi diversi, come la pittura, l'incisione o il cinema. “È una questione per i fotografi – dice – il repertorio condiviso delle linee, dei piani e delle texture delle arti visive”. Nella sua serie di foreste, abbiamo quindi liane di linee e schizzi come nei dipinti astratti di Mark Tobey o Wols. Non c'è modo di evitare qui l'analogia tra calligrafia e vegetazione, alberi e scrittura, lettura visiva e percorso; perché è una calligrafia aggrovigliata, o più precisamente un boschetto di tratti – un tratto vegetale. “L'universo della foresta è, in fondo, una similitudine di “testi difficili da tradurre”, come diceva Octavio Paz. La sfida dell'osservatore diventa così quella di aprirsi una strada in mezzo a questo incomprensibile, questo silva de varia lección. In alcune immagini di Hileia e Ig non ci sono figure che si stagliano sullo sfondo, zona privilegiata che attrae principalmente lo sguardo. Di fronte a queste fotografie, l'occhio dell'osservatore, come un nomade, vaga sulla superficie dell'immagine, alla ricerca, mai soddisfatto, di una figura che, operando come porto sicuro (o “punto inerte”), gli permetta di ancorarsi. L'attraversamento del Saggese attraverso la foresta ha come correlato, quindi, lo sguardo alla deriva dell'osservatore – sottolineando che per il homo viator, il viaggio è la metafora della vita.
Le opere di Saggese richiedono quindi allo spettatore di guardare le cose nel tempo, permettendogli di concentrarsi sui dettagli (nelle fotografie) e sui piccoli cambiamenti (nel video). Questa percezione delle sfumature nelle sue immagini, che richiede attesa e rallentamento, cosa ralenti o rinvio, può sembrare irrealistico in un mondo governato da performance, per l'efficacia prestazionale che si manifesta, ad esempio, nell'immediata riconoscibilità di un logo. È proprio, però, nella percezione segnata dal ritardo, dalle esitazioni, dalla perdita del tempo e dal tempo perduto, dalla pazienza nello svelare il segreto di un'immagine enigmatica, un volto in essa che si lascia solo intravedere, che abbiamo la negazione della temporalità la produzione di cliché o merci (di voracità e fretta), e, di conseguenza, di “ansioso edonismo”, come vuole Lipovetsky, che è caratteristico del capitalismo finanziario – che mette in discussione ogni lungo Visione a lungo termine a favore della circolazione accelerata dei capitali su scala globale.[Ix]
E ancora: se dal punto di vista della produzione dell'immagine, il codice digitale – come afferma Mark Hansen – ha creato una nuova “modalità di partecipazione corporea sostanzialmente diversa da quella richiesta dall'esperienza estetica modernista” (con immagini analogiche o fotosensibili); dal punto di vista della ricezione, l'impossibilità di individuare le singolarità tecniche e procedurali delle immagini digitali, come quelle che abbiamo visto, richiede anche un'altra partecipazione dell'osservatore, che è già stata considerata come “coscienza affettiva”.[X]
Em Noir, la notte nella metropoli, 2015, Saggese estende il “momento decisivo” nella fotografia di Henri Cartier Bresson alla durata delle sequenze video. Situata tra l'immagine statica e l'immagine dinamica, la sua “fotografia cinetica”, come la chiama lui, rimanda all'intenzione del cinema puro di Hans Richter o Viking Eggeling, negli anni '1920; al cinema strutturale di Michael Snow o di Ernie Gehr, o ancora alla videoarte di Andy Warhol o di Bil Viola, negli anni Sessanta e Settanta, che, ciascuno a suo modo, miravano, attraverso la dilatazione dell'istante, a consentire la cristallizzazione del tempo, mentre la durata nell'immagine. il tuo intento Nero era quello di prolungare l'istante decisivo facendone un'immagine-tempo (o durata), e, nella stessa operazione, avvicinare l'immagine-movimento all'immobilità del fotogramma, problematizzando così i regimi temporali della “forma fotografica” e la “forma cinema”.”.[Xi]
Se, da un lato, abbiamo un procedimento filmico che aspira all'immobilità della fotografia; dall'altra l'immagine fissa della fotografia che mira alla mobilità dell'immagine filmica. A differenza della fotografia statica, la fotografia cinetica di Saggese, come l'immagine cinematografica, impone una certa temporalità all'osservazione. Nel cinema industriale o di intrattenimento, segnato dall'accelerazione del montaggio, esiste però una sezione di tempo, che riduce a pochi secondi ogni piano sequenza, mentre nel fotografia cinetica il movimento non risulta dal montaggio, dalla collisione di aerei, ma dallo spostamento di persone e veicoli all'interno di ogni aereo, che viene colto in un tempo prolungato.
Se in una mostra o in un libro fotografico abbiamo solo le immagini che sono state tratte dalle “prove di contatto” – che raccolgono tutte le foto di un dato film, permettendoci così di conoscere il processo di lavoro del fotografo – quello che vediamo in clip noir sono inquadrature da dieci a cento secondi disposte in una data sequenza, basata su ore di riprese, dato che, secondo Saggese, solo una su duecento clip raccolti, integrati nell'edizione finale. Di fronte alla domanda: “Cosa si aspettano da noi le immagini di Saggese?”, si può rispondere, anche qui, che è il tecnica del ritardo: la percezione gelosa e pigra, cioè il tempo necessario perché «nell'osservazione di queste immagini comincia a nascere tutto ciò che accade in esse».[Xii]
Questo video di cattura silenziosa dei ritmi di automobili, ciclisti, skateboard, pattini; dello svago nei parchi, del vagabondaggio notturno dei senzatetto, si inscrive, senza mimetismo, in una stirpe di film di riferimento sulla città, quali: Manhattan di Paul Strand, del 1921; IL Ridi alle ore, di Alberto Cavalcanti, del 1926; IL Sinfonia della metropoli di Walter Rutttmann e, in particolare a San Paolo, Sinfonia delle metropoli di Adalberto Kemeny e Rudolfo Lustig, entrambi del 1927. Nero che può anche evocare Paranoia di Roberto Piva e il notte vuota di Hugo Koury, è una giustapposizione di blocchi temporali indipendenti, poiché non fanno parte di una narrazione. La sua edizione era limitata al taglio che inizia o termina ogni inquadratura e alla sua disposizione in una certa sequenza. La fotocamera è sempre fissa, senza scatti itineranti, oltre che fissa è anche la messa a fuoco che non ricorre agli effetti zoom. Le oscillazioni dell'immagine su alcuni piani derivano esclusivamente dalle vibrazioni del treppiede o dal respiro del fotografo.
In tutte le opere viste, c'è la stessa ricerca di un'immagine capace di raggiungerci, di incitarci, con la sua “bellezza intensa e inquietante”, nell'espressione di Jean Galard, che la contrappone alla “bellezza esagerata” che “attrae, ma non ferisce o incita”, dalla società dello spettacolo.[Xiii] Di qui il suo interesse per il valore cultuale della fotografia visibile nella serie “Mecânica”, che presenta, come abbiamo visto, il rapporto tra “la magica presenza del manifesto e il meccanico che vi lavora”; nelle foto depositate dai familiari accanto a lapidi o lapidi; o anche nella serie ex voto, del 1995, rivolto alle stanze dei miracoli delle Chiese, nelle quali l'offerente deposita una foto alla ricerca della concessione di una grazia. In questi casi Saggese si è interessato al valore di culto attribuito alla fotografia da chi la propone, che coglie la fotografia come immagine magica, come presenza muta, come tumulto silenzioso capace di donare loro ciò che la vita gli ha sottratto.
Saggese, come abbiamo visto, non cerca la specificità della fotografia – “la questione essenzialista, di natura ontologica, propria del modernismo” – da André Bazin a Roland Barthes – ma i suoi rapporti con le arti plastiche, il cinema, e il nuovo tecnologie dell'informatica.[Xiv] Pertanto, la sua ricerca non è per il purismo della forma o l'autonomia dello specifico fotografico, ma per le possibilità aperte dall'ibridazione della fotografia con altre arti. La sua sfida, soprattutto, è pensare attraverso le sue fotografie alle conseguenze dell'assenza di indicalità nell'immagine digitale; perché se l'iscrizione analogica presupponeva il contatto fisico (luce fissata su una superficie fotosensibile); l'immagine digitale, come è noto, è la codificazione di procedimenti matematici o astratti, che quindi prescinde dal “contatto tra mondo e immagine, tra macchina e riferimento” – “l'attuale modalità dell'indicativo”.[Xv]
In sintesi: anche se si ammette che al momento nulla sembra più essere in conflitto, il che significa che il crollo “non cessa di devastare i corpi e gli spiriti di ciascuno”, come ha già affermato Didi-Huberman avvertito, non deve presupporre l'esaurimento di forme di resistenza ancora possibili. In altre parole: nell'“immanenza del mondo storico” dove “il nemico non smette di vincere”, l'immagine enigmatica, di inquietante bellezza, di Saggese opera come indice di sopravvivenze. Non è necessario, però, attribuire alle sue immagini, che operano da contro-immagini, un valore di riscatto o di salvezza perché, come ha sottolineato lo stesso Didi-Huberman, la distruzione, anche se continua, “non è mai assoluta”.
Investendo nelle inedite possibilità di metamorfosi aperte da nuove tecniche e media, come il digitale, le fotografie e i video di Saggese sono, quindi, belle immagini riflessive, immagini che costringono sensibilmente il pensiero (perché non c'è punto in esse che non ci guardi , interrogandoci).us) interrompendo ogni organizzazione performativa, ogni convenzione o contesto dominabile dal convenzionalismo della macchina generatrice di immagini del digitale e dei mass media che è sempre tautologico, perché risulta dall'intercambiabilità delle immagini cliché.
*Ricardo Fabbrini È professore presso il Dipartimento di Filosofia dell'USP. Autore, tra gli altri libri, di L'arte dopo le avanguardie (Unicamp).
Versione parzialmente modificata dell'articolo originariamente pubblicato nel libro YG/ Fotografie di Antonio Saggese. San Paolo, Editora Madalena, 2017.
note:
[I] Jean Baudrillard; A tutto schermo, miti-ironia dell'era del virtuale e dell'immagine. Porto Alegre: Sulina, 2005.
[Ii] Hans Belting; La vera immagine. Oporto: Dafne Editora, 2011.
[Iii] Gilles Deleuze; Cinema 1: L'immagine-movimento. San Paolo: Brasiliense, 1°. edizione, 1985.
[Iv] Vilem Flusser, Filosofia della scatola nera. So Paulo: Hucitec, 1985.
[V] Leon Kossovitch; “Saggese in Amazzonia”; In Antonio Saggese; Hylea. San Paolo: Editora Madalena, 1st. edizione, 2016.
[Vi] Edmund Burke; Un'indagine filosofica sull'origine delle nostre idee del sublime e del bello. Campinas: Editoriale Unicamp, 2°. edizione, 2013.
[Vii] Fattorelli, A. Fotografia contemporanea: tra cinema, video e nuovi media. Rio de Janeiro: Senac nazionale, 2013.
[Viii] Roland Barthes; La camera lucida. 2.ed. Rio de Janeiro: Nuova Frontiera, 1984.
[Ix] Gilles Lipovetsky e Charles Sebastien. Tempi ipermoderni. 1a edizione. San Paolo: Barcarola, 2004
[X] Mark B.N. Hansen, Nuova filosofia per i nuovi media. Cambridge: MIT Press, 2004.
[Xi] Antonio Fattorelli, op. cit., p.67
[Xii] schede kiarostami apud Antonio Fattorelli, op. cit., pag. 127
[Xiii] Jean Galard; Bellezza esorbitante: riflessioni sull'abuso estetico. 1°. edizione. San Paolo: Editora Fap-Unifesp, 2012.
[Xiv] Arlindo Machado; L'illusione speculare: una teoria della fotografia. San Paolo: Gustavo Gilli, 2005.
[Xv] Antonio Fattorelli; operazione. cit., p.67.