La cicatrice e altre storie

Willem de Kooning, Valentino, (1947)
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da FABIOLA PADILHA*

Presentazione del libro appena uscito di Bernardo Kucinski

Bernardo Kucinski ha esordito in letteratura con K., un romanzo pubblicato nel 2011 da Expressão Popular, ribattezzato K. rapporto di una ricerca, nelle successive edizioni. La storia ruota attorno allo sforzo instancabile di un padre per scoprire dove si trova sua figlia, un'attivista politica di sinistra, scomparsa durante la dittatura civile-militare brasiliana, una narrazione che è strettamente legata alla biografia dell'autore.

Nel 1974, sua sorella, Ana Rosa Kucinski, professoressa di chimica all'USP, e Wilson Silva, suo marito, furono rapiti, torturati e uccisi dai militari durante la dittatura. Sin dalla sua opera letteraria inaugurale, Kucinski ha privilegiato temi con un forte accento politico. Le atrocità commesse dalla dittatura danno il tono ai romanzi e ai racconti dell'autore, mostrando le vene aperte della violenza fisica e simbolica esercitata da agenti al comando e al servizio dell'apparato statale militare.

Esempi di questo, oltre a K., i romanzi il nuovo ordine (2019) e Giulia, nei campi incendiati del Signore (2020), così come i racconti di Tornerai da me, del 2014, che compongono, accanto a un gran numero di narrazioni inedite e ad altre poco pubblicate su giornali e riviste, questa nuova raccolta, che riunisce storie scritte tra il 2010 e il 2020. Nella sua presentazione, Kucinski spiega i criteri di organizzazione dell'opera, i cui racconti “sono raggruppati per affinità tematica o formale e ordinati in ogni gruppo secondo l'ordine cronologico della loro prima versione”. Sei divisioni interne ospitano le narrazioni: I. Storie degli anni di piombo, II. Istantanee, III. Altre storie, IV. Kafkian, V. Judaicas e VI. Tornerai da me.

Sebbene la dittatura sia presente in innumerevoli storie di questo volume, occupando una parte significativa del libro, esiste anche un'eterogeneità di altri temi, che coinvolgono, ad esempio, i conflitti familiari, spesso segnati da indigenza emotiva ("Chamada a collect", “Il calpestio”, “Zia Flora”, “Tempi moderni”, “Coisa”, “Licenza di non morire sola” e “Povera Heloísa”), rotture di coppia (“O sal da discorda” e “Il divano”) e frustrazione sessuale (“La pantofola” e “O sventura di Íris”), attraverso la violenza sulle donne (“Il segreto”), casi di corruzione (“Una segretaria efficiente”), criminalità ambientale (“La tartaruga”), sfruttamento (“La tartaruga”) Una piccola storia del plusvalore”), la disuguaglianza economica, comprese le sue possibili conseguenze, come l'indifferenza all'ingiustizia sociale (“Ordine e progresso”) e la morte prematura di giovani poveri della periferia ad opera della polizia militare (“La storia del plusvalore”) Thaddeus”), alle narrazioni che dialogano strettamente con Kafka e a quelle che incorporano riferimenti alla tradizione ebraica, come i racconti delle parti kafkiana e giudaica, rispettivamente.

Alcuni racconti dell'antologia sono improntati all'umorismo, utilizzato, ad esempio, per ironizzare su certi atteggiamenti sessisti che mostrano tentativi di controllo sulla vita della donna ("La rottura") o per alludere alla proverbiale ostilità tra suocere e nuore- suocero (“Papo de sogras”). In altri racconti, ancora, l'espediente dell'ironia si attiva con sfumature oscure, intensificando la perplessità del lettore di fronte al modo in cui si costruisce la violenza dei fatti narrati ("La scommessa", "Il certificato di morte" e "Tu tornerà per me"). La vasta gamma di temi è esplorata dall'autore con grande padronanza tecnica della moderna matrice del racconto breve.

Le epigrafi, entrambe di Julio Cortázar, convergono su questioni legate all'atto del narrare. La prima specula sulla necessità di raccontare qualcosa “al suo momento” e sulla difficoltà di trovare il momento giusto per raccontarla. La seconda espone l'impossibilità di avere una prospettiva enunciativa ideale per raccontare qualcosa, come se le opzioni suggerite fossero insufficienti e non rendessero conto della storia da narrare.

In entrambi i casi spicca una sorta di impotenza nel tentativo di dare al resoconto inteso una forma precisa, compatibile ed equa. La presa di coscienza di questa impotenza accusa, nello sforzo stesso di tentare di superarla, un certo carattere indicibile che riveste ciò che si vuole raccontare e che, nonostante la precarietà delle risorse, viene raccontato. L'imperativo della narrazione prevale, nonostante, e forse a causa dell'insuperabile mancanza di accuratezza formale, e si articola con i limiti e le sfide imposte al genere del racconto.

Uno dei limiti convenzionalmente assegnati a questo genere è la brevità (nonostante le differenze sulla determinazione di questa clausola). Paragonando, ad esempio, il romanzo al racconto, in termini di lunghezza, Cortázar afferma: “[…] il romanzo si sviluppa sulla carta, e quindi, nel tempo della lettura, senza altri limiti che l'esaurimento del romanzato Materiale; a sua volta, il racconto parte dalla nozione di limite, e, prima di tutto, limite fisico, in modo tale che, in Francia, quando un racconto supera le venti pagine, prende già il nome di nouvelle, un genere che si colloca tra i racconti e il romanzo stesso.[I]

I racconti di Kucinski contemplano questa premessa. La maggior parte è lunga tra le due e le quattro pagine, con eccezioni che oscillano tra gli estremi. Ci sono, da un lato, storie minuscole, di poco più di una pagina, come, ad esempio, “Lamento”, “Ordens não se discusse”, “Quattro pietre” e “O salt da discordia”, oltre al più piccoli, “Tempi moderni”, che occupano una sola pagina, e, invece, altri più voluminosi, che superano le dieci pagine, come è il caso di “O esilio de Pompeu”, “Recordações do casarão” e “O delitto fare marinaio”.

Quanto alle presunte sfide al racconto, per quanto riguarda l'effetto provocato sul lettore, vale la pena ricordare, a titolo esemplificativo, la nota metafora del pugilato usata da “uno scrittore argentino, appassionato di pugilato”, evocata di Cortázar, per paragonare il racconto al romanzo. Mentre il primo deve concentrare una tensione capace di mettere fuori gioco il lettore, il secondo, viste le possibilità di successo nella nobile arte del pugilato, la vincerebbe ai punti. Il colpo preciso e decisivo sferrato dal novelliere è, quindi, condizionato all'abilità con cui egli controlla, senza mai lasciarla raffreddare, la carica tensionale della narrazione, che l'attraversa da un capo all'altro, e alla quale “ l'essenziale del metodo” contribuisce: un'economia interna refrattaria agli elementi accessori, “meramente decorativi”.

Questa tensione può anche essere il risultato di quanto postula Ricardo Piglia in una delle sue tesi sul racconto: “un racconto racconta sempre due storie”.[Ii] Come spiega lo scrittore e critico argentino, nella tradizione del racconto classico, i cui esponenti sarebbero Poe e Quiroga, la seconda storia è costruita in segreto, abilmente cifrata nella prima. L'esito comprende l'“effetto sorpresa” provocato dalla rivelazione di questa storia segreta celata nel primo racconto.

La confluenza delle dinamiche divergenti che guidano le due storie costituisce, dunque, “il fondamento della costruzione”. È il caso, ad esempio, alla fine de "I delitti della Rue Morgue" di Poe, in cui la scoperta dell'autore dell'assassinio di Mrs. L'Espanaye e sua figlia del famoso e insuperato detective Dupin, dotato di una suprema capacità analitica, dà sollievo al lettore. Secondo Piglia, nella sua versione moderna, i cui modelli ritroviamo in Cechov, Katherine Mansfield, Sherwood e Joyce, “l'effetto sorpresa”, capace di porre fine alle tensioni e di raggiungere una pacificazione dei conflitti, in un movimento dialettico che inquadra il il modello classico a “struttura chiusa” non esiste, e la tensione tra le due storie rimane irrisolta: “Il classico racconto à la Poe raccontava una storia annunciando che ce n'era un'altra; il racconto moderno racconta due storie come se fossero una sola”.[Iii]

Nei racconti di Kucinski prevale la modulazione moderna, che abdica a una sintesi dall'esito rasserenante. In molti casi l'autore non solo mantiene la tensione della trama narrativa fino all'ultima riga, ma la esalta, portandola al parossismo. Se cioè, da un lato, nel modello classico del racconto breve, la rivelazione di un segreto camuffato culmina nella riconciliazione con un certo stato di normalità, normalità sconvolta dall'intervento di circostanze eccezionali, debitamente superate, dall'altro D'altra parte, nel modello moderno, il progresso progressivo della storia intensifica in modo esponenziale la forza di tensione, che si intensifica consumando il knockout. Nei racconti di Kucinski, non è raro che il finale distilli uno shock implacabile di fronte all'irrimediabile, negando al lettore un'indulgente clemenza.

Il racconto di apertura della collezione, “A Scar”, è paradigmatico di questo tipo di costruzione. La vicenda è narrata da un ex militante di sinistra, sopravvissuto al carcere, che racconta come, qualche tempo dopo, avvenga l'incontro fortuito, in un bar, con il torturatore soprannominato Nava, un tempo incaricato di uccidere i “comunisti”. Immediatamente, la riunione non consente al narratore di identificare l'agente della repressione. La difficoltà del riconoscimento istantaneo è dovuta allo scorrere del tempo (impreciso, nella narrazione) e al dolore delle tragedie personali che colpiscono l'aguzzino e ne trasfigurano i lineamenti. Il dialogo senza preavviso con chi fino a un certo punto della conversazione sembrava essere un estraneo è punteggiato dalle immagini passate dei sordidi atti di Nava, che si manifestano sotto forma di ricordi sempre più nitidi.

La tensione aumenta alla stessa velocità con cui i contorni dello sconosciuto assumono tratti familiari. Il graduale processo di identificazione innesca, nel narratore, un atteggiamento reattivo di ripudio rivolto al carnefice del passato. La sua reazione estemporanea, quando si rese conto di trovarsi di fronte al temuto aguzzino dei suoi giorni di prigionia, è un corollario dell'attrito tra presente e passato. La saldatura di istanze temporali evidenzia un passato che non è passato, un passato le cui tracce di violenza e sterminio sono inscritte nel presente come una cicatrice inamovibile.

L'articolazione delle temporalità apre una riflessione che va oltre i domini della narrazione stessa, permettendo la percezione di ferite storiche che non hanno ancora ricevuto le dovute cure, che non sono state ancora superate, che sono diventate traumi nella vita delle vittime della barbarie (“trauma”, nel suo senso etimologico, significa, tra l'altro, “ferita”). Simile allo “sconosciuto” che abita il “cuore stesso dell'immediato”, il passato che continua a palpitare incombe, alla fine, sia nell'atteggiamento del torturatore, che riaccende la violenza passata ricordandola con estrema freddezza (“— Abbiamo fatto poco... avevamo che averli liquidati tutti, questo è stato l'errore. […] Un comunista buono è un comunista morto!», frase, per inciso, che dà luogo a un riconoscimento definitivo), così come nell'incisiva voce del narratore gesto di rivolta di fronte alla sconvolgente scoperta.

Il titolo del racconto, “La cicatrice”, fa riferimento alla registrazione fisica della violenza e, per estensione, all'oggetto tagliente utilizzato per colpire il volto del torturatore, il rasoio, ma indica anche un altro tipo di cicatrice, quella incapace di fermare nel tempo il dolore della violenza ricevuta. L'assenza di una traccia fisica della brutalità di cui è stato vittima il narratore indica anche, in un registro simbolico e di portata amplificata, la cancellazione dei crimini commessi dai militari al servizio della dittatura. Una violenza che “nessuno vedeva” e che, quindi, “non esisteva”, una violenza, insomma, vigliaccamente negata dai responsabili di crimini perpetrati con il massimo del sadismo e della disumanità.

Nel racconto si insinua una sorta di macabra ironia quando ci rendiamo conto che il portatore delle tracce visibili della pratica della violenza (rappresentate dalla cicatrice come iscrizione epidermica in Nava) è proprio l'autore dei delitti. Spetta alla vittima portare per tutta la vita una cicatrice che, poiché a volte è depositata in strati più profondi e interni (del corpo e della mente), continua a causare dolore, disagio e sofferenza incessanti. La permanenza del passato nel presente è tanto più opprimente quanto più vediamo che gli agenti della barbarie restano impuniti, vantandosi delle loro nefandezze e perversioni.

In “Un software avanzato”, sono le relazioni intertestuali con l'opera di Kafka che contribuiscono a potenziare il movimento tensionale ascendente. Nella storia, José Alves da Silva, il cui nome di battesimo riverbera Joseph, nome a sua volta del protagonista de Il processo di Kafka, è un pensionato che si reca in un ufficio pubblico per completare la reiscrizione annuale obbligatoria, ma gli viene impedito dal farlo. per concretizzarlo attraverso l'argomentazione di un dipendente che afferma categoricamente che José non esiste più nel sistema ("— Siccome non esisto più! Sono qui, davanti a te, guarda la mia carta d'identità! […] — Certo che esisti [ …] è nel sistema che hai cessato di esistere. Hai capito? Sei stato cancellato”).

Se nel romanzo di Kafka Joseph K. è sorpreso da un'accusa di cui ignora le cause, lottando instancabilmente per mantenere la propria innocenza, che lo porta a confrontarsi con un sistema giudiziario dispotico, nel racconto di Kucinski, José Alves da Silva occorre sforzarsi di convincere l'apparato burocratico della sua esistenza civile. L'assurdità della situazione nella storia risiede nel fatto che la fiducia inconfutabile nell'efficacia del software all'avanguardia è in grado di prevalere su qualsiasi prova di fallimento del sistema, anche se la prova materiale del fallimento è proprio prima della occhi del diligente impiegato incaricato di manipolare questo sistema.

La scelta di un punto di vista narrativo che rimane distante dai fatti narrati, con scarso intervento nella storia, simile al metodo di contenimento osservato in Kafka, rafforza l'incongrua arbitrarietà subita dal personaggio. È come se il mondo fosse indifferente alle sciocchezze in cui José si trova invischiato, o meglio, è come se le sciocchezze fossero previste nella stessa logica che muove il mondo, congegno insito nel suo funzionamento, e lo stupore e l'indignazione di José (come con Giuseppe) erano un'estrapolazione intempestiva di questo ordine incrollabile. Entrambi i personaggi, José e Joseph, sperimentano il limite dell'oppressione e l'assoluta impotenza di fronte ai poteri istituzionali che, invece di annientarli, dovrebbero garantire loro pieni diritti di cittadini. Il dialogo con l'opera di Kafka punta alla possibilità di verificare la condizione di vulnerabilità a cui siamo sottoposti in una società dominata dal controllo tirannico della vita sociale, nonché di percepire gli esiti nefasti di questa condizione portata al limite.

Nel racconto “Bialystok, il viaggio”, il carico tensionale è costruito sulla base del ricordo di eventi storici traumatici che attraversano le generazioni precedenti della famiglia del narratore. I ricordi privati ​​si alternano a riflessioni sulla dimensione collettiva della barbarie che uccise milioni di ebrei durante la seconda guerra mondiale. La narrazione è piena di riferimenti alla tradizione ebraica e all'Olocausto, indicato nella storia come "l'inimmaginabile". Il narratore, i cui nonni e zii morirono nei campi di concentramento, è figlio e nipote di ebrei polacchi, informazione che converge con alcuni dati della vita di Kucinski, anch'egli figlio di immigrati polacchi e discendente di ebrei vittime del genocidio.

L'epigrafe, tratta da Cortázar, esprime una contraddizione che riguarda qualcosa che sembrava una bugia, ma in realtà era vera, una contraddizione direttamente collegata alla storia di Kucinski. La storia si apre con una strana parola, Bialystok, stampata su una vecchia lettera del nonno del narratore che sua madre gli consegna prima di morire. La missiva, indirizzata al padre, ormai deceduto, è scritta in yiddish, una lingua che il narratore non ha mai imparato e che lo riporta alla sua infanzia quando la sentiva praticata dal padre nelle conversazioni con “conoscenti dell'epoca polacca”.

Appartenente a una famiglia di sette fratelli, il padre del narratore è l'unico ad essere andato in esilio in Brasile, in fuga dalle persecuzioni naziste. Con la lettera tradotta in mano, decide di recarsi a Bialystok, la città dove vivevano i suoi antenati e dove suo nonno possedeva una fabbrica tessile, e decide di visitare la vecchia casa di famiglia. Il fatto che il padre non abbia mai menzionato la lettera al figlio è motivo di interrogativo per il narratore e rappresenta per lui una storia interrotta. La decifrazione del contenuto della lettera e il viaggio a Bialystok costituiscono il tentativo di conoscere la fine di questa storia ("Mancava una fine. E una storia senza una fine non è una bella storia").

Il risultato è importante perché si collega al significato della tua stessa vita; in fondo, sta a lui continuare a raccontare questa trama di cui è parte, assicurandone la trasmissibilità, assumendosi così il compito di custode della memoria familiare. In Ebrei e parole, Amos Oz e Fania Oz-Salzberger spiegano che la lingua ebraica (il cui alfabeto è usato dallo yiddish e che gli ha fornito parole ed elementi vari) prefigura un parlante “posto nello scorrere del tempo con le spalle al futuro e il volto rivolto al passato”,[Iv] che segna una differenza rispetto alla concezione occidentale del tempo. Gli autori sostengono che “la parola ebraica kedmem significa 'vecchi tempi', ma il derivato kadma significa 'avanti' o 'avanti'. Chi parla ebraico guarda letteralmente al passato”.[V]

Il racconto di Kucinski sembra essere in linea con questo principio paradossale. La ricerca della fine della storia è, in effetti, un modo per darle continuità, il suo futuro dipende da questo sguardo rivolto al passato. Pertanto, decifrare la scrittura enigmatica della lettera del nonno e cercare di sapere da dove veniva suo padre, la casa dove viveva la sua famiglia, è riallacciare i legami con una narrazione sospesa per garantirne la continuità. Il finale del racconto recupera, sotto forma di triste ironia, reminiscenze di un passato doloroso e convulso che caratterizzano l'episodio noto come “la strage di Kielce”. In quella città, dopo la fine della seconda guerra mondiale, tornando alle loro case, gli ebrei si imbatterono nelle residenze occupate dai polacchi, i quali, oltre ad averne usurpato i beni, invasero una congregazione “uccidendo quarantadue ebrei e ferendo più di cento".

Il mancato superamento delle barbarie storiche, come più volte è stato sottolineato, in questi tempi oscuri di inarrestabile avanzata dell'estrema destra in Brasile e in diverse parti del mondo, impone il compito urgente di scavare nel passato traumatico, al fine di prevenire la verità di ciò che è accaduto diventa una menzogna con trucchi retorici negazionisti, capaci di incoraggiare la ripetizione dell'“inimmaginabile” nel presente. In questo senso “Bialystok, il viaggio” dialoga con “La cicatrice”. La fine di entrambe le storie ci avverte della necessità di guidare le nostre vite con "guardando avanti guardando indietro". Questo modo di concepire l'esistenza, come osservano Oz e Oz-Salzberger, è “una metafora della vita umana in generale”[Vi], fondata sull'imperativo etico di contrastare l'irruzione dell'orrore nel presente e, al tempo stesso, sull'omaggio alla memoria delle vittime delle catastrofi storiche.

I racconti di questa raccolta sanciscono il vigore narrativo di Kucinski e la sua capacità di mettere fuori gioco il lettore, dimostrata in pubblicazioni precedenti. Dalle situazioni prosaiche della nostra vita quotidiana, che accolgono le vibrazioni più ordinarie della vita, agli episodi solenni, che racchiudono recalcitranti dilemmi storici, sintetizzano ciò che muove e mobilita il pensiero. Alla fine della lettura di ogni breve racconto, il lettore si trova alle prese con una miriade di inquietanti domande che solo la buona letteratura è in grado di suscitare. In questo volume espressivo si moltiplicano, attirando lo sguardo sugli strati più insondabili della nostra inesauribile umanità.

*Fabiola Padilla Professore di Teoria della Letteratura e Letterature della Lingua Portoghese presso l'Università Federale dell'Espírito Santo (UFES).

Riferimento


Bernardo Kucinski. La cicatrice e altre storie. San Paolo, Alameda, 2021, 452 pagine.

note:


[I] CORTAZAR, Giulio. valigia cronopio. Trans. David Arrigucci Jr. e Joao Alexandre Barbosa. Org. Haroldo de Campos e Davi Arrigucci jr. 2a ed. San Paolo: Perspectiva, 2008, p. 151.

[Ii] PIGLIA, Riccardo. Forma breve. Trans. José Marcos Mariani de Macedo. San Paolo: Companhia das Letras, 2004, p. 89.

[Iii] Ibidem, pag. 91.

[Iv] OZ, Amos; OZ-SALZBERGER, Fania. Gli ebrei e le parole. Trans. Giorgio Schlesinger. San Paolo: Companhia das Letras, 2015, p. 131.

[V] Idem.

[Vi] Ibidem, pag. 132.

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