La classe operaia non ha raggiunto il paradiso

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da TESSUTO MARIAROSARIA*

L'impatto di un film su una società può essere misurato non solo dalle ripercussioni che ha avuto quando è uscito, ma anche da come viene ricordato.

Nell'aprile 1975, José Carlos Avellar, durante la recensione del film brasiliano Pass gratuito (1974), di Osvaldo Caldeira, sottolineando come il lavoro stesso possa essere un mezzo di alienazione, ha consegnato il suo testo al Giornale Brasile il titolo "La classe operaia va in paradiso". Nel maggio 1979, Luiz Israel Febrot, analizzando come veniva presentata la classe operaia brasiliana È rimasto, di Ruy Guerra, pubblicato nel “Supplemento Culturale” di Lo Stato di San Paolo, “La classe operaia arriva al cinema”.

Nell'ottobre 1981, Luiz Carlos Merten, riflettendo sullo scontro tra immobilità e trasformazione presente in Eles não usam cravatta nera, di Leon Hirszman, ha intitolato il suo articolo per il giornale Ora zero “La classe operaia lontana dal paradiso”. Al di fuori dell'ambito cinematografico, solo per citare un esempio, il materiale per il Folha de S. Paul (aprile 2006), in cui Maria Inês Dolci ha fatto una radiografia della crisi che ha colpito l'istruzione superiore privata, ha ricevuto il titolo “La classe operaia non studia in paradiso”.

Cosa ci dice la scelta di questi titoli? Ci racconta che, seppur mai nominato, il film che Elio Petri realizzò nel 1971, rimase, per la nostra critica (e società), come uno dei parametri per definire cosa sarebbe stato un cinema (e un comportamento) etico e politicamente impegnato. E questo è curioso, perché in Italia, La lezione di opera va in paradiso (La classe operaia va in paradiso) fu oggetto di polemiche violente e attacchi furiosi, provenienti soprattutto dalla borghesia (per essersi considerata aggredita), da intellettuali (per essersi sentita esclusa) e dalla critica di sinistra militante, che additò come difetti proprio quegli aspetti che avevano spinto Critici brasiliani per lodarlo.

Elio Petri aveva imparato da Giuseppe De Santis, per il quale era assistente alla regia, a coniugare il contenuto sociale con lo spettacolo, coinvolgendo lo spettatore con i suoi temi scottanti e attuali, già nel suo film precedente, Informarsi su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (Inchiesta su un cittadino irreprensibile, 1969), il cui protagonista era Gian Maria Volonté, lo stesso interprete che diede vita all'operaio Ludovico Massa (in arte Lulu), attore feticcio del cinema italiano impegnato degli anni '1970.

Il cinema impegnato si era affermato in Italia nel decennio precedente, soprattutto grazie a cineasti come Francesco Rosi, Gillo Pontecorvo, Marco Ferreri, Ermanno Olmi, Pier Paolo Pasolini, Giuliano Montaldo, Vittorio De Seta, Bernardo Bertolucci, Paolo e Vittorio Taviani, Valentino Orsini e Marco Bellocchio, molti dei quali non solo hanno attinto all'eredità dei grandi registi neorealisti – Roberto Rossellini, Luchino Visconti e Vittorio De Sica/Cesare Zavattini – ma hanno anche partecipato alle loro produzioni (a vario titolo) prima di esordire come registi.

Pur proseguendo su questa linea, Elio Petri (così come Giuseppe De Santis, neorealista che non si inseriva perfettamente negli schemi di questo movimento cinematografico) non disdegnava l'intrattenimento, come strategia per ammaliare il grande pubblico, senza rinunciare al rigore ideologico – un rigore che si accentuerà Tutte le modalità (Tutte le modalità, 1976), violenta diffamazione contro la Democrazia Cristiana. È importante ricordare che Elio Petri contava sulla collaborazione dello scrittore Ugo Pirro, il quale, come sceneggiatore, si caratterizzò per la ricerca di un cinema che non rinunciasse mai a esplicitare le sue intenzioni politiche e sociologiche, anche nella ricostruzione storica film.

Se, da un lato, La lezione di opera va in paradiso si inserisce nella scia aperta dal neorealismo con Ladri di biciclette (ladri di biciclette, 1948), di Vittorio De Sica – in cui, probabilmente per la prima volta nel cinema italiano, era protagonista un operaio –, non si può invece non sottolineare come dialoghi con l'ennesimo grande successo di critica e pubblico in Brasile, che, come il film di Elio Petri, non è stato molto apprezzato in patria: ho condiviso (i compagni, 1963), di Mario Monicelli.

In quest'opera, Mario Monicelli offre una visione antiretorica delle prime lotte operaie in Italia alla fine dell'Ottocento, scegliendo di raccontarle in chiave “comica”. Non c'è esaltazione dei suoi protagonisti, ma molto più un sentimento di fallimento dei “grandi ideali” di fronte alla dura realtà (fatta, al massimo, di piccole conquiste), che non significa rinunciarvi, sperare in un rinnovamento della società futura.

Rappresentando, nella foga del momento, le contraddizioni di un proletariato diviso tra due miti – quello della rivoluzione e quello del benessere borghese –, è questa stessa visione disincantata che commuoverà Elio Petri. Ricorda solo la fine di La lezione di opera va in paradiso, quando Ludovico, dopo lo sciopero, viene assunto di nuovo, retrocesso però alla catena di montaggio, e racconta ai compagni un sogno fatto: il muro di cui parlavano Militina/Salvo Randone (questo ex operaio, che Lulu visita di tanto in tanto nell'ospizio, potrebbe idealmente essere la continuazione di Pautasso/Folco Lulli monicelliano), dall'altra parte non c'è il paradiso, ma solo una grande nebbia, e sono tutti ancora condannati allo stesso lavoro, forse a mai.

Riviste "con il senso del poi”, come si dice in italiano, cioè con giudizio a posteriori, che consente soprattutto una presa di distanza critica dalle vicende degli anni in cui sono state girate, sia il film di Mario Monicelli che quello di Elio Petri meritano una rivisitazione.

Non possiamo dimenticarlo ho condiviso viene dopo il governo Tambroni (luglio 1960), quando l'Italia, di fronte agli scioperi che continuavano a scoppiare nelle fabbriche, respirava aria di restaurazione fascista. Un anno dopo, Pier Paolo Pasolini lanciò Accattone (disadattato sociale, 1961), in cui condannava a morte il suo protagonista, un sottoproletario senza prospettive nella società capitalista. La stessa mancanza di prospettiva che aveva angosciato anche Aldo, l'operaio di griglia malata (L'urlo, 1956-1957), di Michelangelo Antonioni, che finisce per gettarsi dall'alto di una torre della fabbrica, disertata a causa dello sciopero dei suoi compagni. Questi film sono stati attaccati anche dalla sinistra: quello di Antonioni, per aver attribuito una crisi esistenziale borghese a un rappresentante della classe operaia; quella di Pasolini, per aver presentato una condizione sociale senza vie d'uscita.

L'Italia era entrata negli anni '1960 divisa tra il boom crescita economica e l'inizio delle lotte sindacali e studentesche, il pragmatismo del “capitalismo selvaggio” e l'utopia del “vogliamo tutto” dei suoi oppositori (“Vogliamo tutto(era uno degli slogan degli operai FIAT negli scioperi di quel periodo), la violenza dello Stato e la violenza dei suoi oppositori.

La pratica delle lotte operaie del 1968-1969 – principalmente quella del “brodo autentico” (“autunno caldo”) del 1969 – si aggiunge all'esperienza del movimento studentesco, le cui manifestazioni, in Italia, precedono quelle del maggio francese, e cominciano ad emergere alcuni gruppi fortemente politicizzati, come il Collettivo politico metropolitano, da Milano, nel settembre 1969, tra le cui fila alcuni dei futuri fondatori della Br (Brigate Rosse, cioè Brigate Rosse), un anno dopo. 

Il governo prevalentemente di destra ha cercato di fronteggiare queste manifestazioni promuovendo una repressione violenta in cui non sono mancati gli attentati - attribuiti a gruppi neofascisti Nuclei Armati Rivoluzionari e Ordine Nuovo –, che può essere classificata come vera carneficina, compresa quella di Piazza fontana (Milano, 12 dicembre 1969), che inaugurò in Italia i cosiddetti anni di piombo, provocando, per reazione, l'inizio della lotta armata da parte di alcune fazioni della sinistra extraparlamentare (oltre alla Br, Lotta continua, Nuclei Armati Proletari, potere operaio ecc).

Il Partito Comunista Italiano, dal canto suo, temendo i “golpe bianchi” della destra e una conseguente svolta reazionaria (paura che si sarebbe accentuata con la caduta di Salvador Allende, l'11 settembre 1973, in Cile) e preoccupato per una probabile fallimento una volta conquistato il potere, proporrà il cosiddetto “compromesso storico”, basato sulla collaborazione tra comunisti e cattolici.

Questo è lo sfondo di La lezione di opera va in paradiso, ragion per cui non ci si poteva aspettare un finale glorioso per le vicende che Elio Petri si proponeva di ritrarre, né un'uscita vittoriosa per i suoi personaggi, grazie all'intervento dei sindacati, come forse avrebbero voluto le sinistre parlamentari e che probabilmente hanno portato loro di condannare il film da un punto di vista ideologico.

Elio Petri non era interessato a dissimulare una verità che appariva sempre più oscura per l'intera società italiana (è bene ricordare che nel 1970 aveva collaborato a un documentario su Giuseppe Pinelli, il ferroviere anarchico, che, accusato di aver collocato la bombe dentro Piazza fontana, “volato” dal quarto piano della Questura di Milano) e, più specificamente per la classe operaia, come farà, in La meglio gioventù (il meglio della giovinezza, 2003), Marco Tullio Giordana, lo stesso regista che, in Piazza fontana (Piazza Fontana: un complotto italiano, 2012), si schiererà dalla parte dello Stato.

Em La meglio gioventù, trasformando un operaio del sud che lavora in una fabbrica torinese in un piccolo imprenditore di edilizia civile, trasformando la sconfitta di una categoria in un tornaconto personale, Giordana non solo adotta il punto di vista dei “padroni”, ma anche non dà molta importanza alle lotte per le rivendicazioni, trattando i licenziamenti di massa che colpirono i lavoratori dell'industria negli anni '1970 come una mera questione statistica, cioè di congruità dei costi.

E pensare che, oltre a Elio Petri, altri cineasti avevano affrontato, in quegli anni, questo stesso tema dell'impatto violento subito dai lavoratori che abbandonavano le campagne di fronte alla disumanizzazione imposta dalla logica industriale: in questo senso, è esemplare, anche se controverso, Trevico-Torino… via Fiat-Nam (1972), di Ettore Scola. Per non parlare dell'anticipazione rappresentata da Rocco ehi i suoi fratelli (Rocco e i suoi fratelli, 1960), di Luchino Visconti, il cui tema sarà ripreso in modo molto più crudele da Gianni Amelio in così ridevano (È così che ridi, 1999).

Altre maestranze popolarono la cinematografia italiana di quel periodo, prima o dopo Lulu Massa, come metello (metello, 1970), di Mauro Bolognini, o Mimì metallurgico ferito nell'onore (Mimi il metalmeccanico, 1972), di Lina Wertmüller, i cui registi, come Petri, usarono gli stilemi della cosiddetta commedia all'italiana per denunciare una politica economica che puntava solo alla massima produzione per generare profitti sempre maggiori. Nessun film, tuttavia, è arrivato sullo schermo con tanta veemenza come La lezione di opera va in paradiso, il tema dell'alienazione, parola cara alla sinistra militante di quel periodo: alienazione attraverso il lavoro, tema già presente in un film meno noto di Ermanno Olmi in Brasile, Il Posto (Opposto, 1961), e in “Renzo e Luciana”, puntata; di Mario Monicelli in Boccaccio '70 (Boccacci 70, 1963).

Basato sulla storia di un ragazzo di origine contadina che trova lavoro nella grande città, Olmi mostra tutto lo squallore di una vita condizionata da una routine metodica e ripetitiva. In “Renzo e Luciana”, trasponendo sullo schermo il racconto “L'avventura dei due sposi”, scritto da Italo Calvino nel 1958 – che, in seguito, farà parte del volume Gli amori difficili (1970) –, Monicelli, aggiungendo alcuni elementi di Prometto sposi (La sposa e lo sposo, 1840-1842), di Alessandro Manzoni, conferisce alle disavventure di una giovane coppia, la cui intimità è intaccata da turni di lavoro in orari diversi, una connotazione sociale ben marcata: quella di una critica ironica all'alienazione imposta dai “servi di capitale” (moderni maestri di corda e mannaia, come il manzoniano Dom Rodrigo) alla classe operaia.

Un'alienazione dalla quale, più che mai, di fronte ai dettami della nuova economia mondiale – che, a poco a poco, stanno sottraendo tutti i diritti del lavoro conquistati in più di un secolo di lotte –, la classe operaia deve svegliarsi , non per raggiungere il paradiso, ma perché il tuo sogno non si trasformi nell'incubo di Lulu Massa.

*Mariarosaria Fabris è professore in pensione presso il Dipartimento di Lettere Moderne della FFLCH-USP. Autore, tra gli altri testi, di “Cinema Italiano Contemporaneo” (in: Contemporary World Cinema, Papirus).


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