da ALCIR PÉCORA*
Commento al libro postumo di Tomás Antônio Gonzaga
Da quando Tomás Antônio Gonzaga (1744-1810?) fu deportato in Mozambico, nel 1792, si è molto speculato sulla sua vita africana: sposò una ricca ereditiera, si unì a una casa di esportazione di schiavi, impazzì romanticamente, ecc. Sicuramente, però, non molto. anche la poesia La Concezione, il cui manoscritto autografo fu acquistato dalla Biblioteca Nazionale nel 1910, vi rimase oscuramente fino a quando Rodrigues Lapa lo trovò, nel 1957.
Inoltre, il poema nel suo insieme è rimasto inedito fino al 1995, quando è venuto alla luce in edizione critica e con una pregevole introduzione di Ronald Polito. Si tratta di un'epopea marittima, che fa riferimento, secondo note d'epoca, all'affondamento della nave Marialva, avvenuto nel 1802, nei pressi del Mozambico, che uccise più di cento persone e di cui i Gonzaga vennero a conoscenza attraverso i sopravvissuti. Tuttavia, i 22 fogli acquistati dalla Biblioteca Nazionale sono solo un frammento del poema, la cui lunghezza è sconosciuta: due fogli sono del Canto 1, gli altri del 3° e 4°.
Scritto in eroici decasillabi, rari saffici, in versi sciolti, con un numero irregolare per strofa, l'intrigo del poema, così come ci è pervenuto, è incentrato sulla disputa tra Pallante e Venere sulla condotta dei nautas portoghesi: il primo , cercando di mostrare loro la necessità di riprendere il loro alto destino nella navigazione, che avrebbe portato loro onori e beni sublimi, e il secondo, impegnato ad impiegarli in piaceri sensuali.
Le quattro pagine che rimangono del Canto 1º sono un discorso evocativo del poeta stesso, senza esplicito riferimento all'azione successiva del poema. In un frammento i pericoli della navigazione appaiono associati alla tempestosità della fortuna di fronte alla sicurezza divina; in un altro, con struttura parallela, l'elogio della fortuna assume la forma di una delusione amorosa, quando dopo eccessivi tormenti, che non sembravano ammettere salvezza, il moribondo viene finalmente rinvigorito.
Saltiamo purtroppo dalla 1ª curva alla 3ª, dove vediamo Palas indignato per la corruzione del portoghese, che non lascia la terraferma, già dimenticato delle gesta eroiche in mare e preoccupato solo di un nuovo incontro, già programmato, con le ninfe di Venere. La dea si rivolge poi a loro con un discorso di esortazione alla superbia, applicando il tema stoico della superiorità delle difficili conquiste dei beni sublimi sulla volgare resa ai piaceri, che generano solo debolezza.
Nella versione Seneca tratta il tema della “vita da milizia”, cioè che “la vita è cosa da soldati”. L'educazione dello spirito dei migliori esige costanza, fermezza creata nel superare le prove, contrarie alla vita delle affettazioni mondane che assopiscono e bandiscono l'anima. Amplificata in un registro comico, la debolezza derivata dalle facilità è derisa da Palas come effeminatezza. Adornando i petti che avrebbero dovuto essere feriti dalle battaglie, i portoghesi tradirono il giusto destino del loro popolo. Forse non confidando solo nella saggezza delle sue argomentazioni, Palas si avvale di una prova extratecnica, cioè esterna al discorso: con un breve gesto, passa lo scudo sopra le teste dei portoghesi e fa loro recuperare il vecchio spirito, preparandosi a lasciare il porto dei piaceri, in questo caso Rio de Janeiro, e dirigersi verso l'ardua costa africana.
Il secondo passo della struttura del canto porta in scena la dea rivale. Venere, adirata per la partenza dei portoghesi, convoca il dio che presiede al porto e presenta i suoi lamenti, simili a quelli del portoghese Bacco, in cui l'azione portoghese è accusata di sovvertire la gerarchia naturale e di pretendere che gli umani siano più grandi di uomini. dei. Ammesso il cattivo esempio di un delitto senza pena, il dio accetta di punirli.
Se il discorso di Pallade ci dà la tesi, e il dialogo di Venere l'antitesi, non è subito seguita da una sintesi, ma da un'azione violenta. Il dio fluviale attacca la nave con la turbolenza delle sue acque, che però viene protetta da Pallade, in maniera quasi deludente, senza troppa fatica: con lo sguardo, si limita a fermare la corrente e ordina il nome che si sottomette a una dea che gli è superiore. Navigatori, come in The Lusiads, hanno poco da fare in mezzo a quella disputa divina. Tuttavia, contrariamente a quanto accade nell'epopea di Camões, qui la disputa è mal sostenuta, a causa della superiorità del potere di Pallante.
La sintesi di questo terzo canto si presenta sotto forma di una perorazione del poeta, che fornisce un'interpretazione morale e aneddotica del combattimento: i combattimenti potrebbero benissimo essere spiegati come una guerra tra donne che non subiscono mai la perdita della loro bellezza. Il modello omerico è qui più vicino, quando fece seguire la sanguinosa guerra di Troia dalla frivola disputa di tre dee. Il poeta ritorna infine sul tema della vita da milizia, associato alla chiave provvidenzialista che la stessa matrice senequista non ignorava: le disgrazie non sono il caso, ma un decreto che mira a svelare il valore degli uomini eccellenti.
Canto 4º posiziona già la nave vicino alla costa africana, dopo soli 6 giorni di viaggio, cosa che, come osserva Polito, sembra improbabile. Riguardo alla struttura del canto precedente, questo inizia con la seconda parte, l'antitesi di Venere, che dialoga con Eolo, dio dei venti, per convincerlo ad attaccare Marialva. Polito richiama l'attenzione sull'interesse del brano, che credo sia la parte migliore della poesia che ci è rimasta.
La seduzione del dio da parte di Venere avviene attraverso l'offerta di 9 delle sue ninfe, da scegliere, in cambio della distruzione della nave portoghese. Eolo mostra alla dea che un'offerta così eccessiva rende il servizio il semplice effetto di un pagamento, e questo non lo merita. Si trattava di trovare un'adeguata sistemazione tra il premio e la qualità del servizio, in modo che il pagamento non determinasse unilateralmente l'azione, qualificandola come venale. Propone poi di celebrare non un “vile contratto”, ma un favore che permetterebbe di riunire le loro case; e, per suggellare il favore, bastò una sola ninfa. L'accordo tra eccellenza e affari si fa, con onore, e non a immagine di banali viltà mercantili, attraverso l'unione di casate divine e mai attraverso l'estinzione di un debito localizzato. Il modello aristocratico, dunque, si riafferma qui, anche se più burocratizzato e formale, contro l'arrivismo affaristico e il cerimoniale borghese.
Ma questo non è l'unico accorgimento proposto da Eolo affinché l'azione distruttiva non risulti per lui disonorevole. La restrizione del numero delle ninfe e l'alleanza delle casate accolgono ugualmente i "desideri ardenti" a una posizione ragionevole che non tradisce l'incontinenza. Si nota, quindi, che, anche dalla parte di Venere, nei ritagli fatti dai suoi interlocutori sulla violenza prematura, viene sostituito qualcosa del discorso stesso di Pallade.
È solo che ciò che viene direttamente condannato come un vizio nel dialogo di Venere viene condannato come una scorrettezza da superare con la negoziazione. Ciò che in Pallade è un imperativo etico-aristocratico (il valore della lotta contro l'indebolimento del carattere), nei dialoghi di Venere è un possibile adattamento del piacere agli stessi imperativi. La cosa curiosa è che, in esse, tali imperativi sembrano meglio risolti, poiché il discorso di Pallante incontra appena la gravità richiesta, e cede facilmente al comico.
La chiave del singolare dialogo di Venere, però, sta nell'elogio che fa dell'"urbanità" di Eolo, quando questi rifiuta di sapere quale fosse l'affronto da lei subito, per non fare del suo servizio l'effetto di un giudizio, e suo giudice, sostenendo che tale posizione gerarchica dovrebbe essere riservata esclusivamente a lei, con la sola responsabilità dell'esecuzione della sentenza. È questa urbanità del diritto che attenua o aggiusta precisamente i conflitti tra l'equità del premio, il valore del pagamento e il merito dell'azione, evitando la venalità, così come l'accomodamento degli appetiti e l'onesta pratica amorosa, evitando l'incontinenza.
E questa stessa Venere, commossa dalla civiltà di Eolo, gli chiede seducente di annientare lentamente i portoghesi, perché soffrano di più. Il poeta, tuttavia, non vi suppone alcuna contraddizione, poiché, da un lato, fa parte della conformità con il carattere rozzo delle dee che prevalga in lui la vendetta; d'altra parte è opportuna anche la civiltà tra alleati, in quanto indica la cortese galanteria tra coppie di sesso diverso, il rispetto gerarchico tra gli dei e la stessa struttura burocratico-giuridica degli adeguamenti ritenuti essenziali al corpo sociale, anche se tale formata dagli dei.
La sequenza del canto è identica alla precedente: dal dialogo di Venere segue l'azione della vendetta. Eolo libera Noto, che attacca ferocemente la nave. Per Polito questo è il momento migliore dei frammenti. Sottolinea la padronanza dei termini della marineria, visibile in altre poesie del Gonzaga, e il susseguirsi di dipinti dove dipinge l'agitazione dei marinai sotto l'impeto della tempesta. È davvero un bel momento, peccato che finisca troppo presto. Come nell'altro attacco, l'azione è vanificata dal tipo di intervento onnipotente di Pallade, che rende impraticabile ogni movimento, sia l'alleato, assolutamente inutile, sia il nemico, fulminante con il suo semplice sguardo.
Il momento di sintesi, che nell'altro angolo era dato dal discorso del poeta, questa volta è rinviato, e, allo stesso tempo, figura camoniano nell'incedere di Anfitrite e del suo seguito di ninfe che sembrano incrociare il cammino del portoghese squadrone. Il passo è delizioso come la poesia erotica marittima. Sembra addirittura confermare l'ipotesi di Jorge Ruedas (cfr. Arcadia: tradizione e cambiamento) che avvicina Gonzaga al gruppo portoghese “Ribeira das Naus” – Camoniani, arcaici e desiderosi di estendere la narrativa pastorale ai paesaggi marini. Inoltre, il trattamento della scena colpisce per la sua visualizzazione: il culmine dell'episodio rivela il “tappeto colorato” che alterna il candore dei corpi nudi delle ninfe al verde delle acque. La scena smentisce completamente, come già Polito avverte, il crescente moralismo attribuito al Gonzaga da Rodrigues Lapa. La scena è molto sensuale e le modifiche apportate al manoscritto non la smentiscono affatto.
Ciò che qui viene confermato è quanto chiariva il dialogo di Venere con Eolo: il piacere non è inconciliabile con il valore, ma deve essere il suo premio, non il mezzo della sua realizzazione. Quello che Venere non sembra aggiustare correttamente è la piacevolezza dei suoi attaccamenti al decoro del coraggio, inteso come un vizioso eccesso. E, come credo, non è Pallante a sintetizzare la posizione più essenziale del poema, ma gli interlocutori di Venere: la primitiva inclinazione al piacere è sottoposta all'analisi della sua legittimità e all'adeguamento delle condizioni necessarie per conciliarle. In termini di matrice antica, man mano che il poema procede, il poeta sembra curiosamente risalire da Seneca figlio a Seneca rettore.
*Alcir Pecora è professore presso l'Institute of Language Studies (IEL) presso Unicamp. Autore, tra gli altri libri, di Máquina de Genres (Edusp).
REFERENCIAS
La Concezione e il Naufragio della Marialva – Gennaio 1996 – Tomás Antonio Gonzaga (https://amzn.to/3E2iidk)