da LUIZ EDUARDO SOARES*
In nome del rispetto che merita l’ex ministro, in nome del rispetto che meritano le donne vittime, mi chiedo se non sia il momento di girare la chiave della giudiziarizzazione, della polizia e della penalizzazione
Pensate che non c'entra niente il razzismo, la rapidità fulminante con cui è stato accusato, giudicato e condannato all'abominio perpetuo e irrevocabile un uomo, un brillante uomo di colore, dedito alla lotta antirazzista, che, per le sue capacità e traiettoria, si è distinto come candidato a posizioni di leadership a livello nazionale e internazionale? Credi davvero che la mancanza di cerimonie con cui sui suoi fianchi è stata impressa l'infuocata figura dell'esilio non abbia nulla a che vedere con il colore di quest'uomo, con le sue origini, con il nero inchiostro della sua pelle? Silvio Almeida, in meno di 24 ore, è stato bandito dalla patria dei cittadini onesti e onorevoli, quelli a cui è concessa voce e dignità. Avrebbe senso che rimanesse per sempre apolide, vagando tra l’arrogante disprezzo della destra e la feroce repulsione della sinistra? Un uomo invisibile? no, peggio.
Pensavi che non ci sarebbe stato destino più doloroso dell'invisibilità? Sì, esiste, perché l’invisibilità, sebbene devastante, può servire come strategia di sopravvivenza, offrendo una sorta di ombra a coloro che hanno un disperato bisogno di sfuggire agli onnipresenti carnefici. L'invisibilità può essere una trincea solitaria per chi scompare è una morte più sopportabile dell'avvilimento senza consolazione, tregua o salvezza. Il condannato sconta un giorno la sua pena, il torturato coltiva la speranza di una futura riparazione, ma la persona moralmente decostituita al fuoco del linguaggio non troverà mai più rifugio in nessuna versione futura della nostra storia comune. La persona moralmente stigmatizzata corre il rischio di diventare, finché vive, un morto vivente che contamina, con la morte che manifesta, lo spazio che lo circonda.
Un'accusa autosufficiente attraversa in un istante tutte le fasi, dall'accusa alla forca. Chi oserà schierarsi al fianco del condannato a morte che porta con sé una morte rinviata, infettando l'ambiente? Denunciare il dolore indicibile dell’esecrazione morale significherà allearsi con l’autore del reato e portare su di sé lo stigma della complicità. Chi rischierà di immolarsi sulla pira sacrificale dei buoni sentimenti? Chiunque tenti un gesto di empatia con gli esiliati sarà tempestato di repliche ovvie e inevitabili, che richiederanno l'omissione dell'altro dolore, quello delle vittime, la sofferenza trascurata quando il fulcro della descrizione è il tormento imposto all'imputato. . Un altro giro di vite, che mette alle strette coloro che dubitano, esitano, lamentano la tragedia che colpisce entrambi, accusati e vittime.
Il gravissimo conflitto tra la necessità di legittimare la voce delle vittime, prendendo sul serio le accuse, e, allo stesso tempo, di rispettare la presunzione di innocenza e il diritto alla difesa, questo conflitto è lungi dall'essere stato risolto, sia giuridicamente che culturalmente ., moralmente e politicamente. Siamo sospesi su un filo sull’abisso, e perché non si spezzi dobbiamo almeno, credo, essere umili ed estremamente attenti di fronte a casi di questo tipo, casi che questa situazione drammatizza in modo così intenso, a causa alle sue implicazioni. In definitiva, provo un’immensa tristezza per tutte le perdite implicate e per il mancato riconoscimento della gravità di questa impasse. Non esiste diritto di difesa quando il suo esercizio viene automaticamente inteso come una rinnovata aggressione nei confronti della vittima, una sorta di prolungamento dell'atto criminoso, impedendo la difesa stessa. D’altra parte, come sappiamo, siamo arrivati a questo estremo perché era necessario invertire il silenzio storico a cui sono state sottoposte le donne, un silenzio patriarcale che respingeva le loro accuse.
Nel caso di Silvio Almeida, non solo è stata ripristinata questa impasse per la società brasiliana. Si mobilita la doppia oppressione di genere e di razza. L’abuso è stato il linguaggio dell’oppressore maschio. Le accuse che portano a condanne a vita e irreversibili sono state il linguaggio del razzismo, come testimonia l’incarcerazione di massa di giovani neri, le cui sentenze sono così spesso basate sulla parola dell’ufficiale di polizia, responsabile dell’arresto sul fatto.
In nome del rispetto che merita l’ex ministro, in nome del rispetto che meritano le donne vittime, mi chiedo se non sia il momento di girare la chiave della giudiziarizzazione, del poliziesco e della penalizzazione di situazioni che forse potrebbero essere affrontate e gestite meglio attraverso altri linguaggi e meccanismi, in cui le strutture che finiscono per reiterare l’oppressione razziale e di genere, legata al dominio di classe, sono state di fatto rotte. Non illudiamoci: le condanne morali perpetue e che trascendono le pene non fanno avanzare le lotte più nobili, non fanno altro che aggravare le drammatiche ingiustizie brasiliane, che schiacciano tante vite – con l’ipocrisia più perversa –, in nome della giustizia, dell’ordine e della moralità.
* Luiz Eduardo Soares è un antropologo, politologo e scrittore. Ex segretario nazionale della pubblica sicurezza. Autore, tra gli altri libri, di Smilitarizzare: sicurezza pubblica e diritti umani (boitempo) [https://amzn.to/4754KdV]
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