La crisi e le crisi dell'università pubblica

Immagine: Elyeser Szturm
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Di Alcir Pecora*

La riflessione contemporanea sull'università è guidata da dibattiti basati principalmente su un libro decisivo: il L'idea di un'università, di John Henry Newman, pubblicato a Londra, nel 1852. Da allora molti altri studiosi hanno scritto sull'argomento, tanto che è lecito immaginare che un particolare genere discorsivo riceva la denominazione di “idea dell'Università”, come proposto da Stefan Collini, autore di A cosa servono le Università (London, Penguin, 2012) e, più recentemente, da A proposito di Università (Londres, Verso, 2017), libri che fanno una dura diagnosi dell'università inglese, che ha subito trasformazioni radicali, nel contesto di un presente travagliato.

Comprendere “l'idea di Università” come genere, per Collini, è importante per due ragioni fondamentali. La prima è sottolineare un tratto comune sorprendente di questi discorsi, che risale all'epoca della sua fondazione con Newman. Gli autori che pensano all'Università, anche quando hanno posizioni frontalmente opposte – come chi vuole che faccia pura ricerca, senza legami con esigenze esterne, o chi ne difende le performance legate all'industria o al progresso sociale – finiscono anche per intendendo il presente lei come un momento di declino.

Questo nostalgico dato originale può spesso risultare scomodo per una lucida analisi della situazione contemporanea dell'Università, soprattutto quando conduce a una mitizzazione del passato, ma, dialetticamente, non manca di evidenziare un secondo punto decisivo del genere, che riguarda la necessità che l'Ateneo stesso ha di sospendere periodicamente la sua routine, la sua quotidiana attività di ricerca, al fine di ripensare la propria natura e gli obiettivi fondamentali a cui deve rivolgersi.

Questo è, infatti, il motivo principale per cui Collini ha intitolato il suo libro “Parlando di…”, in quanto intende proprio valorizzare quei momenti di conversazione in cui la pratica universitaria viene sospesa, anche quando ha successo, a favore di una riflessione centrata su se stessi. Stesso. “Parlare di”, cioè fermarsi a pensare, ripensare i propri scopi, sarebbe al centro della vita universitaria e sbaglierebbe chi disdegna la conversazione come fenomeno estraneo al più decisivo lavoro universitario. Al contrario, è un'attività assolutamente peculiare dell'Università, anche quando porta con sé il disagio di un tono amaro o malinconico.

foto di Wang Qinsong

Tanto più che, attualmente, le trasformazioni sono troppo radicali per essere ignorate. Il primo di questi cambiamenti radicali da considerare è quello prodotto dalla globalizzazione. Oggi ogni riflessione sull'università ha risvolti internazionali prima impensabili. Lo scenario della discussione si è spostato in un contesto molto più ampio e interdipendente, che influenza direttamente il modo in cui pensiamo e scriviamo. Questa dimensione globalizzata, di per sé, impedisce qualsiasi tentativo di ritorno ai modelli interpretativi praticati fino a poco tempo fa, che erano fondamentalmente basati su una prospettiva nazionalista.

Una seconda trasformazione che sembra impossibile astrarre dal presente in cui viviamo è quella delle innovazioni tecnologiche, che hanno completamente alterato le attività più basilari del ricercatore. Basti pensare, per fare un semplice esempio, all'alterazione subita dall'idea di pubblicazione. Ai tempi in cui ero studente, il tempo che intercorreva tra la produzione e la pubblicazione era considerevole. E non solo i tempi di produzione sono stati più lunghi, con scadenze meno strette e minacciose di oggi: c'è stata anche una storia complicata tra produzione e pubblicazione, in cui sono stati passati molti vagli, dalle autorità accademiche ai veicoli di diffusione. Non avevi modo di autopubblicarti, su nessun tipo di piattaforma: né digitale né cartacea. E nessuno pensava nemmeno all'editoria, prima di tenere a lungo con sé la scrittura, partorita lentamente e timidamente affidata, prima ai colleghi più stretti, poi al suo supervisore, fino a finire su una rivista o un quotidiano. Oggi il divario tra scrittura e pubblicazione è molto più breve, anche se alcune riviste prestigiose rimangono rigorose nelle loro pratiche di valutazione.

Questa quasi soppressione del tempo tra produzione e pubblicazione va ben oltre gli articoli scientifici: ha raggiunto le abitudini più banali. Difficile immaginare che qualcuno di noi, anche il più anziano, passi molto tempo lontano da email, app di chat, social network. E i più resistenti a questo rischiano di sentirsi un po' fuori dal tempo. Vale a dire, il fatto che quasi tutti - in ambito accademico e non solo - si siano abituati ad avere un computer e un cellulare a portata di mano altera profondamente le relazioni personali, oltre ad alterare il modo in cui si fa scienza. Cambia anche la nostra idea di scrittura, comunicazione, socialità e anche quella che immaginiamo come la personalità più intima.

La terza svolta radicale del presente, in cui si inserisce l'università, si pone all'interno di un percorso politico molto chiaro: nel contesto occidentale, l'Università esce dalla seconda guerra, con una predominanza di una prospettiva socialdemocratica, in cui il Lo Stato si rafforza come strumento di benessere sociale, in una prospettiva in cui il nucleo delle decisioni è guidato dall'economia o “società di mercato”, al punto da non lasciare quasi nessuno spazio libero dalla sua influenza.

Calcolo costi-benefici, ridimensionamento delle macchine, raccolta e investimento, insomma compravendita — anche se spesso senza prodotto, ma solo produttivismo formale — sono presenti in tutte le relazioni sociali, e non solo nell'ambiente economico. L'Università non è esente da tutto ciò, nemmeno per quanto riguarda la libertà di cattedra o il suo più intimo patto di apprendimento tra professore e studente.

Come precisa Collini, soprattutto nelle migliori università del mondo, lo studente si comporta sempre più come un cliente e il professore, a sua volta, diventa una sorta di fornitore, che deve mantenere gli scaffali riforniti di cose ritenute utili dalle richieste subito gli studenti. E l'etica di un buon fornitore obbliga a non contraddire il cliente, che è il contrario di quanto si può accettare nell'ambito di un processo educativo, la cui formazione richiede spesso la contraddizione di convinzioni e pregiudizi coltivati ​​nella vita ordinaria.

Per ora, questo sembra meno evidente nelle università pubbliche brasiliane, ma come accade di solito, qui ci sono tardive precarizzazioni di quanto accade nelle università americane, non c'è dubbio che presto ci sentiremo allo stesso modo: i professori spaventati davanti al protagonismo delle richieste che sono estranee alle loro discipline, e gli studenti sono ugualmente sconvolti dal fatto che i loro diritti di consumatori non vengano rispettati.

Avere occhi per tali cambiamenti, tuttavia, è rilevante solo in un senso molto diverso da quello di sottoporre l'Università all'imposizione arbitraria del mercato, o da quello di consegnarla a un'immaginazione nostalgica del illo tempore. Si tratta di sapere cosa si può fare meglio, considerando la portata e la gravità dei problemi che lo riguardano. Parlarne è già un passo rilevante.

*Alcir Pecora Professore presso l'Istituto di studi linguistici (IEL) presso Unicamp

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