da DAVI ARRIGUCCI JR.*
Commento al libro del poeta Sebastião Uchoa Leite
“Ya todo vida tus ojos / hacen oficial de espias” (Quevedo – “El Basilisco”).
In agguato è un libro sfuggente, con forza e complessità, ma la cui poesia nascosta si nasconde alla vista. Libro dei rifiuti, che predilige il pregiudizio, l'ombra, il fascino difficile. Attratto dalla voragine delle acque segrete, da ciò che si nasconde nel buio e cova in segreto.
Eccentrico, nascosto tra parentesi, sibillino nelle allusioni, l'io che ci parla poco, invece di esprimersi, preferisce la mera osservazione o la registrazione dello sguardo, senza temere, dentro o fuori, angoli bui e stranezze, ma senza mostrarsi, preferendo essere velato. Osservatore di passaggio, sposa il movimento degli occhi al ritmo del viandante solitario e, come il flâneur di Baudelaire, spia ovunque come un principe in incognito.
Così le poesie, divise in due blocchi contrapposti dall'ironia (“A Espeita” e “Antídoto”), formano un insieme discontinuo di frammenti apparentemente oggettivisti, ponendo barriere a ogni effusione lirica. Esse sono infatti interconnesse dalla rete significativa di un'esperienza comune, ma intersecata ed ellittica, che in esse si aggroviglia e si oggettiva sotto forma di piccole finzioni istantanee. In essi il soggetto nascosto è come un divoratore di ombre che cerca con il giudizio finale degli occhi ciò che deve rimanere della memoria personale affinché la poesia mantenga segreto.
Non si limita a questo, però. Nel segreto custodisce anche una pulsione contraria verso la vita fuori e l'altra, un desiderio latente e costante di uscire da sé e aprirsi: il piacere di camminare all'aria aperta, sotto il sole o sotto la pioggia; il desiderio di dissolvenza sensuale negli elementi naturali; la consegna segreta ai simili, bersagli di uno sguardo altrettanto attento e di una furtiva, ma ricorrente, commozione sociale.
In diverse poesie – “Os Três In-Seres”, “O Que Se Nega”, “Os Passantes da Rua Paissandu”, “Spiritus Ubi Vult Spirat”, “Do Túnel do Ano Passado” –, le peregrinazioni casuali attraverso il Rio de Janeiro Janeiro, a Recife o in qualsiasi altra città, può portare a un'infrarealtà sociale, a un “inferno allighico dei poveri”. La strada, unico luogo di valida esperienza nelle parole di André Breton, al tempo delle avanguardie, è ancora il luogo dove questo “unico sconosciuto” camminatore incontra l'altro, e di nuovo con se stesso.
In tutti gli esempi citati, l'altro evoca in qualche modo “O Bicho”, di Manuel Bandeira, una poesia del 1947, in cui c'è la sorprendente scoperta di un essere che ingoia voracemente immondizia, e non è un cane, un gatto o un topo, ma un uomo. Ora la realtà è diversa; l'essere non è nemmeno un uomo, ma il senza nome. Sono “in-esseri”, ovvero è “ciò che è negato”, “esserci”, sciocchezze murate in una realtà grottesca: Scafo / Spinoso / Contro tutto / Che non muro / Recluso.
La via d'uscita sulla strada può essere l'osservazione della stessa muratura interna. L'io dall'interno in qualche modo si identifica, salvandolo attraverso lo sguardo, con l'altro dall'esterno: “A lo mejor soy otro”, come dice citando César Vallejo. Dilemmi oculari: fuori, dentro; sole, ombre. Chi lo vede potrebbe essere qualcun altro. Ma si può scoprire anche in altri senza nome, “i senzatetto”, rinchiusi nel tunnel dantesco di un “Ade minore”, un'identica nostalgia di luce. A chi apparterranno gli occhi che spiano?
Così, una poesia ferocemente individualista, nella sua estrema ribellione, che esce da una stirpe di ombre, con echi della letteratura gotica del XVIII secolo, romanticismo e simbolismo, Poe e Nerval, la follia di Lovecraft, passeggiare baudelairiana – echi ripetuti con un moderno senso parodistico –, identificandosi in qualche modo con un altro che osserva per strada, si apre al sociale, compone con la ferocia dell'esterno e acquista un significato politico. C'è la segreta solidarietà del solitario, l'invisibile comunità di uomini di cui è e si sente parte, anche attraverso il più recalcitrante gesto di rifiuto.
Come in Drummond, anche il cuore chiuso nell'anticonformismo individuale, nella solitudine più totale, batte goffamente in sintonia con gli errori e le disgrazie del mondo. E, infine, c'è l'ironia suprema di chi ride per ultimo: quella di “Un artista della fame”, di Kafka, il cui rifiuto di mangiare, ragione ultima della sua arte, dimenticata dagli uomini per la sua ostinazione, è proprio quella di non aver trovato cibo di suo gradimento.
Soffocato in se stesso e rivolto al mondo, ma insieme contro il mondo e chiuso in se stesso, ermetico e aperto, tagliato dall'ombra e dalla luce, il libro condensa nella breve forma della sua scrittura compatta e criptica, la sostanza estratta da memoria vissuta o letta, permeata da tensioni contraddittorie. Tensioni che agiscono non esattamente per antitesi o antagonismi stagni, ma per improvvise intersezioni e soprattutto secondo il movimento oscillante di liquidi, di umori contrastanti che trapelano, si mescolano, possono dissolversi.
Il movimento dissolvente si riflette anche nel tono: lo spirito giocoso, ironico, parodistico gli permette di passare dalla riflessione alla beffa feroce, dalla gravità all'umorismo nero, dal registro secco al riso beffardo, modulando un equilibrio instabile di umori tra anima e spirito .corpo, cuore e viscere.
Sotto la copertura del mistero, rivela un gusto per il grottesco, già accennato, e per la poetica della materia. Si rivolge costantemente al corpo e alle sue parti inferiori, alle secrezioni e ai fluidi organici che tanto parlano all'immaginazione, ai cattivi odori, alle viscere, al vomito, ai vermi. “Le visioni sono viscere”, come dirà in “Verità”. Si nota la risata sarcastica. Tende al lato realistico e rabelaisiano della satira, qui con un piede nella terra di Augusto dos Anjos e una certa seduzione erotica da parte della malattia stessa e della materia in disgregazione.
In questa linea va anche il linguaggio, affascinato dai giochi concretisti di altri tempi, ormai rivolti ad altri fini, con la commistione del colloquiale-ironico con termini stranieri, esotici o neologismi stravaganti – “osfere malefiche”, “sole monofonico” o “incosmico”, “pluviopériplo”, “acrelirico” –, accompagnando l'attrazione del vortice che tutto inghiotte e la direzione stessa dello sguardo, calamitato dall'orrore del vuoto e dalla minuziosa contemplazione della liquefazione o disfacimento delle cose in nulla.
E in questo modo sovverte, detronizza e abbatte la spiritualità accresciuta degli occhi, situandoli come testimoni della vita e della morte come fenomeni materiali, vicini agli elementi cosmici, ai cambiamenti della natura, ai ritmi del tempo, cioè sotto il angosciosa pressione della malattia, come un “tempo di fame”, di “piacevole attesa”. L'elemento biografico, soprattutto di fronte alle incalzanti vessazioni della malattia, si infiltra molto, ma si nasconde in una trama cava, diffusa, i cui fili si perdono in ogni momento.
Solo lo sguardo rimane fermo – l'orologio –, occhi di pietra fissi sul flusso delle cose: acque che liquefanno l'aria, bagnano lo scheletro, dissolvono la coscienza stessa, offuscano la memoria, scompaiono nel flusso segreto dell'interno o dell'esterno del corpo:
La vita svanisce
su quell'ago
Che si adatta.
Notevole il finale del poema “Agulha”, uno dei migliori del libro, per la precisione, la sottigliezza e la contenuta intensità drammatica con cui coglie, in un'immagine apparentemente oggettiva e lontana, l'intima angoscia di osservare, in progressivo incanalamento, la vita irresistibilmente drenante. L'esperienza interiore della malattia acquista la registrazione oggettiva dello sguardo, sotto forma di immagine. L'interno è fuori; l'esterno, l'interno.
Infatti, fisso nel centro è l'occhio della coscienza. Occhio da detective o da spia, che segue vigile i movimenti ambivalenti della velatura. Rifiutando lo svelamento lirico, la coscienza è costantemente all'erta: guarda e guarda se stessa, guarda il mondo e se stessa senza sosta, rannicchiata nelle pieghe di se stessa come una vipera, nascosta nei solai delle ombre che essa stessa divora. , trasformandosi nella malattia stessa. O come dice "Una voce dal sottosuolo":
ogni coscienza
È una malattia
Rovistando di nascosto.
Sbirciare significa, si sa, osservare di nascosto, guardare con attenzione. La dubbia etimologia data a questa parola è un paradosso, in quanto rimanda al verbo latino spiegare, frequentativo di spiegare, che significa rendere intelligibile, interpretare. Ma in questo caso si chiarisce davvero. Nella minuscola spiegazione dello sbirciare c'è probabilmente il desiderio di portare alla luce, di esplicitare attraverso uno sguardo attento. Questo movimento che collega l'ombra alla luce, attraverso lo sguardo, è essenziale per la poesia di Sebastião, in quanto assume la forma concreta di immagini reiterate e inquietanti.
Nella poesia che ha l'esatto titolo di “Guardia”, l'immagine spaventosa di un ipotetico animale che potrebbe essere scaturita dalla più semplice osservazione si forma assemblando dettagli, come un puzzle o un crittogramma – qualche cane con le spalle al muro come il padrone. giardino di una villa recintata –, da un film, da un documentario o trapiantati dalla memoria letteraria, per esempio, dal “Manual de Zoologia Fantástica” o dal “Livro dos Seres Imaginários”, di Jorge Luis Borges:
È una specie di Cerbero
Non passa nessuno
non sfugge nulla
occhio centrale
Fisso
In agguato
bocca mascherata
che inghiotte velocemente
senza dare tempo
poi dormire
Placato.
Ma niente è chiaro. Ragno, serpente, mostro marino? Una fusione di strani esseri, un essere onirico? L'ambiguità si mantiene fino alla fine, servita dal linguaggio ellittico, che elimina ogni spiegazione indesiderata e si aggrappa al taglio laconico, limitando la costruzione ai più piccoli tratti decisivi. Dà più spunti di riflessione per il potere suggestivo del poco che mostra, mettendo in risalto ogni dettaglio che è forte per la sua latente aggressività. La velata minaccia si impone con ancora maggior impatto perché non si sa esattamente di cosa si tratti, per via del travestimento, che è il dettaglio della bocca, ma anche l'immagine nel suo insieme e la costruzione stessa del poema, ironicamente armato al tradimento. , allo sconcerto del lettore.
Si può, tuttavia, cercare un animale tra la fauna immaginaria che meglio serva alla comprensione critica di questa poesia, nella sua relazione con il libro nel suo insieme. In effetti, la natura implacabile dell'inseguimento, con l'enfasi sulla fissità centrale dell'occhio, può suggerire il basilisco, il favoloso rettile che uccide respirando o guardando con quell'unico occhio fulminante sulla fronte.
Questo essere fantastico e misterioso è abbastanza dotato per servire i disegni obliqui del poema. E può ben fungere da emblema dell'intero libro, anche se non è stato l'animale prediletto dal poeta, in quanto simboleggia l'atteggiamento fondamentale dell'agguato che è quello del Sé (e dell'altro) che qui si esprime, incarnazione di potenza e ambiguità dello sguardo, che si muove tra il dentro e il fuori, il chiaro e il nascosto, l'anima e il mondo.
Come in ogni opera d'arte radicalmente moderna, la poesia di Sebastião cerca la partecipazione all'oscurità contro il mondo reale, lo guarda di lato, si arma nell'ombra, si identifica con immagini demoniache, con lo spreco del desiderio, si posiziona sul lato antisociale di chi dice no con le spalle al muro, pretendendo la quota di negatività di cui ha bisogno per poter in qualche modo ancora aspirare alla luce, che a volte anche lei nega.
Così, il libro può suggerire sia l'attraversamento di un tunnel infernale e dantesco della divisione dell'essere, dell'oblio e della morte, sia l'uscita integrativa verso l'esterno, in cui il recupero della memoria, la dissoluzione erotica in comunione con la natura, il simpatico lo sguardo e l'umorismo stesso sono segni che affermano la vita, anche se problematici. L'eros, l'“eros umido”, anche quando crudelmente si frantuma nell'estasi o si dissolve nel liquido della materia indistinta, suona ancora, lasciando ricordi della pienezza perduta che il caos oscuro tende a trascinare nella voragine.
Nell'insieme l'oscurità si impone per prima, ma la poesia salta sempre oltre la propria ombra, aprendosi anche alla luce, poiché è dal rifiuto che trae ancora la sua possibilità, la sua promessa di essere.
Prese isolatamente, le brevi poesie, a volte con l'aria di una notazione senza pretese, sembrano, a prima vista, insufficienti in se stesse, e la loro raccolta, un insieme casuale e sparso. Si possono inoltre ricordare, per la ricorrenza di motivi e procedimenti, precedenti poesie dell'autore, raccolte in “Obra em Dobras” (1988), e soprattutto le due successive, “A Uma Incógnita” (1991) e “A Ficção Vida ” (1993), con cui l'attuale libro forma di fatto un blocco omogeneo, incorporando un'esperienza simile, con inflessioni, tuttavia, diverse e diverse conseguenze.
Nulla è più falso, in questo senso, che ridurlo alla facile apparenza, al casuale e al già noto. La continuità esiste, ma il cambiamento è decisivo e laborioso. Pur formando un corpo con i due precedenti, il suo significato per l'opera nel suo complesso è un altro, più potente, perché rappresenta una trattazione più efficace dei problemi posti nella fase precedente, ora integrati in profondità e con maggiore accuratezza.
La difficoltà che presenta, infatti, non è quella di superficie, come le ripetute allusioni, che richiedono al lettore di padroneggiare un contesto culturale ampio o molto specifico, e l'impedimento di alcune parole latine e straniere, che il senso dell'umorismo in fondo salva sempre. Tutto questo era già presente negli altri, a volte con il rischio della mera oscurità, della pedanteria o del motto di spirito, e ora cambia pelle, adeguandosi all'intima esigenza espressiva, con portata e forza diversa.
La difficoltà più profonda è quella di comprendere l'articolazione dell'insieme, che collega temi e tecnica e dà una forma unitaria a ciò che apparentemente era sciolto, cioè la difficoltà di comprendere il processo di sintesi e mutamento insieme che ha dato una nuova fisionomia e peculiare di questa poesia. Questa è la forza segreta che attrae il lettore per il modo organico in cui un nuovo soggetto si adatta al modo subdolo e fazioso di esprimersi del poeta.
Il suo linguaggio, cristallizzato negli anni, è stato improvvisamente scosso, sovvertito e arricchito dalla nuova e complessa esperienza che ha dovuto coniugare con il nucleo della composizione. Il risultato non è né un poeta singolarmente raro né generalmente negativo; è la forma particolare che ha trovato per esprimere il nuovo materiale che costituisce la sfida critica.
E il libro si impone subito, chiedendo una lettura attenta, come rielaborazione mentale e poetica di un vissuto denso, seppur spesso permeato dalla memoria di letture letterarie: i disagi della malattia e la minaccia imminente della morte. Con questa esperienza limitante ha dovuto affrontare. La forza della verità intima è un'altra, che ora è anche verità poetica: quella che è venuta alla luce, sotto forma di “finzione della vita”, in modo ancora più acuto che nel libro che portava quel titolo.
È solo che ora tutto in qualche modo si trasporta sottilmente attraverso la voce dei simboli alla trama semifittizia, spalancata e incompleta, tagliata in brandelli di memoria, nelle poesie brevi e frammentarie a cui ritornano i ricordi dei vecchi avatar del poeta, come il detective o la spia, ma soprattutto la sua stessa mitologia, il sapore di puzzle, di enigmi e incognite, il bestiario fantastico – la pantera e la vipera con le loro perverse insinuazioni erotiche –, l'immaginario personale dei libri precedenti, ma nel suo insieme rifatto e vivificato in una direzione inaspettata: quella dell'angoscia dell'esistenza che si restringe , sotto la pressione della malattia mortale, e si espone in questa fusione di ombra e luce dei suoi versi.
La malattia si interiorizza, passa dal corpo all'anima, si configura come terzo indesiderabile, attecchisce nella coscienza (e certamente anche nell'inconscio), costringe su di sé i rielaborati giri di riflessione, diventa questione morale e comportamento , riprende, quando c'è una tregua, il contatto dell'essere isolato con il mondo. È attraverso questa sostanza accumulata, materia densa, personale e biografica, strappata alle viscere dell'interiorità più profonda, che il poeta riesce ad emergere, paradossalmente, da se stesso.
La malattia ha provocato un cataclisma nella sua guardia, ha aperto uno spiraglio in quell'interiorità così protetta dalla costante ossessione dell'ordine, rompendola in modo lancinante e terribile, costringendola con il rimuginare della riflessione e del sentire davanti a un baratro infinito, in cui il soggetto si liquefa o si dissolve, cadendo “in una caduta/nell'ombra-silenzio”. L'occhio fisso ha iniziato a tenere lezioni dall'abisso.
E attraverso questo difficile percorso, il poeta si è aperto e ha dato una particolare forma estetica a una più ampia esperienza storica, poiché è stato attraverso di lui che il generale è penetrato nella singolarità individuale del suo intimo così protetto e coperto. È così che ha trasformato il suo solipsismo in un modo simbolico di essere, dandogli un significato sociale e densamente umano, esemplare e generale.
Dal titolo, In agguato è caratterizzato da un atteggiamento peculiare nei confronti del mondo e dell'arte. Si tratta in fondo di un atteggiamento psicologico, o meglio, di un modo di vedere, che implica anche un modo di essere e una “psicologia della composizione”, un modo di concepire il lavoro artistico.
Il riferimento a João Cabral non deve tuttavia creare confusione, poiché Sebastião non è, nel senso che conta qui, Cabral. Sebbene apprezzi l'atteggiamento di vigilanza e lucidità nell'opera d'arte, non compone programmaticamente alla maniera del suo connazionale (o “en toute lucidità”, come voleva Valéry), per quanto possa condividere con lui il gusto dell'aridità nella costruzione, la depoetizzazione del poema e la visione della realtà. Sotto questo aspetto e molti altri, è un bandeiriano.
Bandeira è davvero il poeta tutelare qui, con il quale dialoga continuamente. In primo luogo, dallo spontaneo slancio della poesia, raccogliendo in un libro l'ultimo raccolto di composizioni che le venivano quando lei, la poesia, voleva; poi, per essersi lasciato toccare da un'emozione sociale simile a quella espressa nella poesia “O Bicho”, già citata, e per la vicinanza tematica nelle questioni della malattia e della morte, cui riserva però un trattamento ben diverso . Infine, attraverso la tecnica del dipanarsi della poetica del denim grezzo, di cui ci sono diversi casi in questo libro.
Ma la cosa fondamentale è che, per Sebastião, a differenza di Cabral (e, in una certa misura, anche di Bandeira), la poesia non si costruisce come lo spazio in cui la poesia si rende visibile. Al contrario, è lì che tende a nascondersi. Una poesia come “Espreita”, commentata sopra, ne è un buon esempio. Tutt'al più è lo spazio in cui la poesia può essere spiata, attraverso una parzialità linguistica, come un segreto, che lì viene custodito e al tempo stesso lasciato trapelare. L'originalità del trattamento che ha saputo conferire, in ogni caso, a questa concezione ampia è il segno profondo del suo stile personale, a volte così parziale, sottile e difficile. In effetti, è un mezzo per affrontare le tensioni contraddittorie inserite al centro di questa nozione di poesia come segreto, ciò che è custodito e ciò che è trapelato.
In una poesia molto rivelatrice, per contenere questa visione centrale della poesia e la poetica corrispondente al modo di essere di tutto il libro, “Os Sentidos de um Vocábulo em um Dicionário Alemão”, i significati della parola tedesca dicht (non citati nel testo) si dipanano nello stile Bandeira:
denso spesso compatto
sciacquare insieme
continuo contiguo
ermeticamente stretto
Trapelare
Lasciarlo andare
adattarsi bene
fitta oscurità
vicino all'acqua
tieni segreto
non farlo sudare
In un primo momento, la poesia sembra suggerire solo un modo di concepire la poesia come un modo di condensare il linguaggio (sigillare = condensato), evocando la ben nota concezione di Ezra Pound, così diffusa dai concretisti in mezzo a noi. In relazione a loro, Sebastião ha sempre rivelato delle affinità, ma anche differenze essenziali, e talvolta si è confuso, il che è deplorevole, con i suoi epigoni, con i quali non ha nulla a che fare, per non parlare della qualità.
Come principio di condensazione suona il primo verso, costituito dalla sequenza dei significati fondamentali di dicht, se usato come aggettivo: “Denso spesso compatto”. Ma la sequenza dell'enunciato finisce per formare un insieme molto più complesso, segnato da contraddizioni sorprendenti e inesauribili, nella tesa trama che si accumula man mano che si sommano i significati opposti del termine tedesco nei suoi vari usi nominali e verbali. Improvvisamente, le denotazioni arbitrarie di una parola nello stato del dizionario iniziano a significare qualcosa di molto diverso, non a causa della relazione che avrebbero con una possibile realtà prevista, ma a causa del modo in cui si inseriscono, in modo coerente, nel contesto della poesia, che senza eliminando i riferimenti, li rende ambigui e problematici. Le reciproche relazioni semantiche sono necessarie, e un'enorme luce è aperta dall'armonia di tensioni contraddittorie comprese nello stesso spazio contiguo, in cui si concentra l'attenzione del lettore.
E infine, proprio mentre il buio si fa luce, si mostra la tagliente ironia, inaspettata come ogni altra cosa in questa intricata rete semantica che risulta dal tessuto delle opposizioni, peraltro collocate in continuità nello spazio che è al tempo stesso chiuso e vuoto del testo. Li chiude per aprirli.
Il nucleo delle contraddizioni, centrale nella poesia e in tutto il libro, è proprio l'idea della poesia come immagine inclusiva e complessa in cui l'aperto e il chiuso convivono in tesa armonia, in cui il denso buio può diventare luce , in cui il segreto, custodito dalla trama delle parole, si lascia trasparire contraddittoriamente.
In una forma che tanto segna il limite e vuole essere asciutta e compatta, la poesia, “vicino all'acqua”, è, paradossalmente, nella poesia di Sebastião, uno spazio di liquidi, di acque misteriosamente modificate, in cui la coscienza si liquefa, e il Sé e il mondo si mescolano. Spazio permeabile di vasi comunicanti, ambiguo come gli occhi, penetrato dalla realtà del dentro e del fuori, dove, infatti, l'interno e l'esterno si confondono, la figura e il riflesso si confondono, l'ombra e la luce si intersecano in sconcertante Buio luminoso.
Come il corpo, che la malattia fa sospettare, è lo spazio di sprigionamento di liquori chiari e scuri, il luogo dell'agguato. Lì si forma e può trapelare quel fluido immaginario e segreto a cui il poeta, attraverso pieghe, ombre e preconcetti – l'inferno del linguaggio – ci conduce: quella che, in fondo, chiamiamo semplicemente poesia.
*David Arrigucci jr. È professore ordinario in pensione presso il Dipartimento di Teoria letteraria e Letteratura comparata dell'USP. Autore, tra gli altri libri, di lo scorpione intrappolato (Compagnia di lettere).
Riferimento
Sebastian Uchoa Leite. In agguato. San Paolo, Prospettiva, 96 pagine.
Originariamente pubblicato su Giornale di recensioni / Folha de S. Paulo, il 10 giugno 2000.