da MARCIO SALDI SARAIVA*
Commento al libro di Domenico De Masi.
“Cosa chiedono gli uomini alla vita e cosa vogliono ottenere da essa? La risposta non può essere dubbia. Gli uomini lottano per raggiungere la felicità; Vogliono diventare felici e rimanere felici”. Questa affermazione di Sigmund Freud coincide con le filosofie antiche, da Platone agli utilitaristi. Gli esseri umani vogliono essere felici e ognuno ha la propria idea di felicità o benessere.
In campo sociale è giusto ricercare un assetto socioeconomico, culturale e giuridico-politico che garantisca parità di accesso al benessere. È importante che ognuno abbia la possibilità di costruire il proprio percorso di autorealizzazione, anche se la psicoanalisi ci ricorda che siamo esseri desideranti e mancanti con un buco irrisolvibile.
Il sociologo italiano Domenico De Masi, in La felicità negata, riflette sulla possibilità di realizzare socialmente il desiderio di essere felici in questa vita. Forse è più ragionevole parlare di raggiungimento del benessere.
Criticando il cieco sviluppismo del capitalismo, Domenico De Masi afferma: “Non c'è progresso senza felicità, e non si può essere felici in un mondo segnato dall'iniqua distribuzione della ricchezza, del lavoro, del potere, della conoscenza, delle opportunità e delle tutele. Questa disumana disuguaglianza non avviene per caso, ma è un obiettivo intenzionale e la conseguenza definitiva di una politica economica basata sull’egoismo, sulla concorrenza e sull’infelicità. Karl Marx lo aveva già capito: una società in cui la maggioranza soffre non è felice […] la miseria sociale è l’obiettivo dell’economia politica. […] L’economia politica è guidata dall’avidità e dalla competizione” (p. 8).
Domenico De Masi, con una visione molto eurocentrica, individua tre grandi campi di interpretazione dell’attuale capitalismo globale: “L’effetto globale è un contrasto tra due estremi: gli entusiasti acritici, che vedono il progresso come un ’assalto violento contro forze sconosciute’, per sottomettere loro all'uomo», come sosteneva il Manifesto futurista; e pessimisti ipercritici, che vedono nel progresso la causa della svalutazione dell'uomo. A questi si aggiungono coloro che negano l’esistenza del progresso, lamentando l’assenza delle “mezze stagioni”. (pag. 10)
I neoliberisti sono gli entusiasti acritici, mentre i neomarxisti della Scuola di Francoforte rappresentano i pessimisti ipercritici. Per Domenico De Masi questi gruppi si contendevano, in campo ideologico occidentale, la sfida di costruire una società felice o del benessere: “In Occidente, la Scuola di Francoforte e la Scuola neoliberista di Vienna esercitarono una grande influenza. Il primo, interessato a una più equa distribuzione della ricchezza e del potere, faceva appello al collettivo e confidava nell’intervento statale. Il secondo, incentrato sulla concentrazione delle risorse e del potere nell’élite dominante, faceva appello all’individuo e minimizzava il ruolo dello Stato. La disputa tra queste due visioni è durata decenni, ma oggi il gruppo viennese (i neoliberisti) sembra essere il vincitore, con conseguenze devastanti per il benessere di milioni di persone. Il suo dominio intellettuale, ormai globale, è il risultato di una lotta tra concezioni opposte dell’individuo, della società, dell’economia e dei bisogni umani” (p. 11).
Negli anni '1970, i neoliberisti iniziarono a sconfiggere i loro avversari (marxisti, neomarxisti e socialdemocratici) in campo ideologico e socio-politico, talvolta ricorrendo a colpi di stato e dittature militari. Ma ogni progresso è ambivalente, poiché “produce sia benessere che oppressione, cioè infelicità” (p. 28). Pertanto, il neoliberismo sarà duramente messo in discussione e sconfitto in alcuni paesi nel XNUMX° secolo. Ciononostante, dopo la sua ultima incarnazione come “terza via”, riemerge con un volto nuovo, talvolta allineato al populismo di estrema destra (vedi Bolsonarismo).
La verità è che il neoliberalismo non è mai stato un alleato della democrazia, del liberalismo classico o della ricerca collettiva della felicità (o del benessere). “Da buon neoliberista, Ludwig von Mises ha accusato Stuart Mill di essere 'il più grande sostenitore del socialismo'. Con Mises, altri esponenti della Scuola di Vienna abbandonarono la ricerca della felicità e si concentrarono sulla ricerca della ricchezza, arrivando addirittura a ritenere legittimo consultare un dittatore come Pinochet” (p. 40).
In realtà, il neoliberalismo è l’ideologia del dominio borghese, soprattutto nel settore finanziario. Svolge un ruolo importante nel distruggere le possibilità di emancipazione (rivoluzionarie o riformiste) della classe operaia.
“Proprio come i lavoratori diventarono una classe proletaria con il marxismo, anche la borghesia aveva bisogno di una dottrina adatta ai loro interessi. Questa teoria fu data dalla Scuola di Vienna e venne chiamata neoliberalismo, contrario sia al liberalismo del XIX secolo sia ai sistemi pianificati che i viennesi identificavano con il socialismo e perfino con il keynesismo” (p. 48).
Per i neoliberisti, tutto ciò che non è neoliberismo è comunismo, socialismo, dittatura collettivista o “furto di Stato”. Il soprannome di “sinistra” si applica ai keynesiani, ai socialdemocratici, ai verdi e persino ai liberali classici. Affermano di essere gli unici difensori della “libertà” contro tutti gli altri. Si atteggiano a “eroi” della libera espressione e dell’“imprenditorialità”. Tuttavia, i risultati concreti del neoliberismo, nei paesi in cui hanno governato, sono disastrosi. I dati empirici smentiscono la propaganda.
Dice Domenico Masi: “Sulla base dell’esperienza degli ultimi 70 anni, è difficile difendere che il neoliberismo, con il suo sacrosanto mercato che si presume equilibrato, assicuri benessere, libertà, uguaglianza e solidarietà al maggior numero di persone : cioè assicura le precondizioni della felicità» (p. 113).
Solo una macchina ideologica violenta, alimentata da grandi quantità di denaro, può convincere le persone, soprattutto quelle povere, che i neoliberisti sono “i migliori” per gestire la cosa pubblica. Ed è quello che succede, purtroppo.
“In breve, la società del lavoro occidentale lascia il posto alla povertà anarchica in Brasile, dove prevalgono lavori informali e precari. La “brasilianizzazione” del lavoro implica che ognuno diventi capo di se stesso, ma in un contesto di totale precarietà. “Precarietà” è la parola d’ordine del lavoro postfordista”. (pag. 120)
D’altro canto, i tragici risultati sociali dell’espansione globale del capitalismo finanziarizzato genereranno, nel medio termine, o un collasso distopico (la “brasilianizzazione” del mondo?) o la ricostruzione della società su nuove basi. In questa ricostruzione, sarà necessario ripristinare il diritto al lavoro, al tempo libero creativo e alla felicità contro il caos.
Il libro di Domenico De Masi si spera scommetta sulla seconda opzione. Suggerisce cinque percorsi verso una società del benessere: rafforzamento del terzo settore, multiattività e cultura, lavoro di impegno civile, decrescita e/o tempo libero creativo, tutti basati su un reddito di base universale.
Questa società del tempo libero creativo sarebbe una forma di socialismo democratico per il 21° secolo? Un nuovo tipo di socialdemocrazia? Risultato di un processo di riforme istituzionali o frutto di una rottura rivoluzionaria? Domenico De Masi non lo dice, ma le sue idee meritano di essere lette.
*Marcio Sales Saraiva, sociologo, è dottorando in psicosociologia presso l'UFRJ.
Riferimento

Domenico De Masi. La felicità negata. San Paolo, Edizioni 70, 2022, 154 pagine. [https://amzn.to/4eWaTNe]
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