da EDUARDO VIVEIROS DE CASTRO*
Estratto dal libro appena uscito
Nessun popolo è un'isola
Qualche mese fa, i Sentinelesi, abitanti dell'omonima isola (Isola di North Sentinel) provenienti dall'arcipelago delle Andamane e Nicobare, hanno ucciso un missionario americano travestito da turista che stava cercando di entrare in contatto con loro. Questo atto di autodifesa ha portato alla ribalta mondiale l’attualità di una questione che riguarda l’idea stessa di “attualità”: quale futuro per i cosiddetti popoli primitivi – in altre parole, presumibilmente “non attuali” – che vivono isolati in luoghi difficilmente accessibili, rifiutando il più possibile ogni comunicazione con gli altri popoli?
Secondo l'organizzazione Survival International, l'Amazzonia brasiliana è la regione del pianeta con il maggior numero di comunità indigene classificate come isolate. Oggi in Brasile, come in altri paesi della regione amazzonica, si assiste a una crescente proliferazione di resoconti e immagini che descrivono popolazioni indigene in una situazione simile a quella dei Sentinelesi. La National Indian Foundation ha 114 registrazioni, 28 delle quali sono già state confermate; la maggior parte è concentrata nelle regioni di confine con altri paesi amazzonici. Praticamente tutti questi popoli si trovano in quello che ufficialmente viene chiamato “isolamento volontario”: lungi dall’ignorare l’esistenza di altre società, rifiutano qualsiasi interazione sostanziale con esse, in particolare con i “bianchi”, termine utilizzato dagli indigeni e dai bianchi in Brasile per designare i rappresentanti diretti o indiretti di questo Stato-nazione che esercita la sovranità sui territori indigeni.
L'isolamento dei Sentinelesi sulla loro isola può essere visto come un modello ridotto di un altro insieme di isole, lontane nell'Oceano Indiano; un arcipelago non più geografico, ma antropologico, formato da isole umane. Il lettore può immaginare l'America precolombiana come un immenso, complesso e diversificato continente multietnico che fu improvvisamente invaso dall'oceano europeo. L'espansione moderna dell'Europa sarebbe l'analogo, in termini di storia delle civiltà, dell'innalzamento del livello degli oceani del pianeta che ci minaccia oggi.
Dopo cinque secoli di crescente sommersione dell'antico continente antropologico, solo poche isole di umanità aborigena rimangono in superficie. Questi popoli sopravvissuti formarono una vera e propria Polinesia, nel senso etimologico del termine: un insieme di isole etniche sparse, separate le une dalle altre da enormi distese di oceano, piuttosto omogenee nella loro composizione politica, economica e culturale (stato nazionale, capitalismo e cristianesimo). Tutte queste isole hanno subito nel corso dei secoli violenti processi di erosione, perdendo molte delle condizioni favorevoli a una vita culturale intensa.
E ora tutte le isole continuano a rimpicciolirsi, mentre il livello del mare si alza sempre più rapidamente… In Amazzonia, dove l’oceano “bianco” rimaneva ancora relativamente poco profondo, oggi stiamo assistendo a uno tsunami devastante. Anche le rare grandi isole – le terre indigene del Rio Negro, il territorio indigeno Yanomami, il territorio indigeno della valle Javari, il parco indigeno dello Xingu – sono minacciate dalle inondazioni.
L’immagine dell’arcipelago suggerisce che tutti i popoli indigeni d’America dovrebbero essere considerati “isolati”. Isolati l'uno dall'altro, ovviamente; ma anche isolati o separati da se stessi, al punto che la stragrande maggioranza di loro perse la propria autonomia politica e videro gravemente scosse le fondamenta cosmologiche della propria economia. Questi popoli si trovano quindi in una situazione di “isolamento involontario”, anche lì, cosa tutt’altro che eccezionale, dove il loro contatto iniziale con i bianchi è stato più o meno volontario.
Fu infatti l'occupazione straniera e lo spopolamento dell'America indigena a creare l'arcipelago: aprendo vasti deserti demografici (epidemie, massacri, schiavitù), che fecero a pezzi le reti interetniche preesistenti fino a una rottura quasi totale, isolandone i componenti; e con il rapimento dei molteplici nodi di queste reti e il loro confinamento in villaggi missionari, poi in territori “protetti”, cioè circondati e molestati dai bianchi da ogni parte.
L’invasione europea interruppe così una dinamica indigena fortemente relativistica – caratterizzata dalla permeabilità “cromatica” e dalla labilità delle identità collettive –, congelando stati storicamente contingenti del flusso sociopolitico continentale attraverso la fissazione territoriale e l’essenzializzazione etnonimica delle collettività superstiti, trasformate, da allora in poi – dal punto di vista degli Stati invasori – in entità di un’ontologia amministrativa rigidamente “diatonica”.
I popoli in isolamento volontario sono quelli che hanno scelto, nei limiti consentiti dalla storia, l'isolamento oggettivo anziché quello soggettivo, che è la separazione da sé stessi creata dal contatto e la conseguente necessità di comporre politicamente con un'altra forma di civiltà, organizzata secondo principi incompatibili con quelli che governano le civiltà autoctone. Detto questo, la natura volontaria dell'isolamento ha poco a che fare con la spontaneità. Come sottolinea il documento dell'Organizzazione del Trattato di cooperazione amazzonica sull'argomento, "[È] ovvio che, nella stragrande maggioranza dei casi, non si tratta di un vero e proprio caso di isolamento 'volontario', considerando l'estrema vulnerabilità di queste popolazioni circondate da sfruttatori di risorse naturali, il che rende il loro 'isolamento volontario' una strategia di sopravvivenza".
Reciprocamente, come abbiamo già accennato, i gruppi che entravano in contatto con il mondo dei bianchi lo facevano spesso di propria iniziativa, spinti ora dal desiderio di ottenere strumenti e altri beni, ora dalla necessità di proteggersi dagli attacchi nemici, o, più in generale, da un caratteristico impulso “antropofagico” di cattura simbolica dell’alterità – impulso che mira, allo stesso tempo, a una trasformazione di sé attraverso questa alterità (poiché incorporata come tale).
Gestire e controllare tale trasformazione, quando l'alterità che si intendeva catturare risulta essere dotata di formidabili poteri di contro-cattura di natura completamente diversa (poiché poteri di abolizione dell'alterità), questo è il problema in cui è in gioco il futuro dei popoli nativi del continente. Che si tratti di un problema complesso e, in breve, pericoloso, non c'è niente che lo dimostri meglio della possibilità sempre imminente di una sovradeterminazione dell'impulso originario di catturare l'alterità da parte dei poteri asimmetrici di contro-cattura identificativa. È qualcosa di cui si può essere testimoni, ad esempio, tra i Waiwai della Guyana, i quali, dopo essere stati convertiti dai missionari protestanti provenienti dagli USA, hanno cominciato a intraprendere spedizioni di catechesi alla ricerca di gruppi in isolamento volontario, ridefinendo e rifondando se stessi come popolo a partire dalla conversione di questi gruppi.
Con l’assalto del capitalismo predatorio alle aree più remote dell’Amazzonia (e altrove sul pianeta), il numero di “nuovi” popoli continua ad aumentare. Questa crescente emersione di gruppi isolati – con la conseguente e sempre traumatica rottura dell’isolamento, eufemisticamente chiamata “contatto” – è dovuta all’intensa pressione che i governi nazionali e le imprese transnazionali esercitano sui loro territori, sotto forma di megaprogetti infrastrutturali (che incoraggiano l’accaparramento delle terre, l’allevamento estensivo e la monocoltura industriale, e il disboscamento illegale) e grandi imprese estrattive (petrolio e miniere).
Il decennio attuale segna quella che sembra essere la fine dell’assedio ai popoli indigeni della foresta tropicale più grande del mondo, ora trasformata nell’“ultima frontiera” dell’accumulazione di capitale primitivo e hot spot di devastazione ambientale. Tanto più che, dopo un periodo relativamente lungo in cui le politiche indigene di diversi paesi amazzonici – in contraddizione con altre politiche pubbliche di questi stessi paesi – erano guidate dal rispetto dei gruppi in isolamento volontario, le minacce a tutti i popoli indigeni (isolati o meno) create dallo “sviluppo” si stanno ora consolidando in iniziative statali apertamente etnocide.
Ciò è particolarmente vero in Brasile, dove il governo di estrema destra che ha appena preso il potere non ha perso tempo nell'iniziare a smantellare l'apparato legislativo e amministrativo volto alla protezione dell'ambiente e alla difesa delle popolazioni tradizionali, annullando, tra le altre violazioni dei diritti di queste popolazioni, la politica di non contatto con i popoli isolati (sorveglianza a distanza, demarcazione dei territori protetti), in vigore dal 1987. Il nuovo governo è interamente (questo avverbio lo distingue dai governi precedenti) al servizio degli interessi del grande capitale finanziario, estrattivo e agroindustriale, da un lato, e del forte atrio fondamentalista evangelico, dall'altro; Insieme, questi interessi – quello del neoliberismo economico e quello dell’oscurantismo ideologico – controllano il parlamento e occupano posizioni chiave nel potere esecutivo.
Il grande capitale brama le terre indigene, puntando ad espandere l'estrazione mineraria e l'agroindustria, in un contesto di crescente privatizzazione delle terre pubbliche. IL atrio Gli evangelici bramano le anime indigene, puntando a distruggere la relazione di immanenza tra umani e non umani, popolo e territorio – immanenza che costituisce le forme di vita indigene –, per universalizzare la figura eteronoma del cittadino-consumatore “brasiliano”, docile allo Stato e sottomesso al capitale. Questo colonialismo spirituale è accessorio del processo di espropriazione territoriale, ma è soprattutto un’arma strategica nella guerra condotta dallo Stato contro ogni “forma libera” di vita.
*Eduardo Viveiros de Castro è professore di antropologia al Museo Nazionale dell'UFRJ. Autore, tra gli altri libri, di Incostanze dell'anima selvaggia (Ubu).
Riferimento

Eduardo Viveiros de Castro. La foresta di cristallo: saggi di antropologia. San Paolo, edizioni n-1, 2025, 360 pagine. [https://amzn.to/3FA4j2m]
Il lancio a San Paolo avrà luogo questo sabato 15 marzo alle 03:14, nella Sala del Conservatorio in Praça das Artes – Av. São João 281.
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