La guerra delle immagini

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da RICARDO FABBRININI*

Estratto selezionato dall'autore del libro recentemente uscito “L'arte contemporanea in tre tempi”

Si può dire, generalizzando, che al centro del dibattito estetico contemporaneo c'è la diagnosi, tuttora attuale, di Jean Baudrillard, secondo cui viviamo in un momento in cui il futuro dell'immagine, nel suo rapporto con i “riferimenti forti” ” (come “realtà intrattabile”), viene deciso; cioè c'è un “dramma della percezione” nel presente, secondo l'espressione del drammaturgo Heiner Goebbels; oppure una “guerra di immagini”, come vuole Bruno Latour;[I] o, addirittura, una “biopolitica” delle immagini, nella direzione di Michel Foucault.[Ii]

Secondo Hans Belting,[Iii] lettore di Jean Baudrillard e Aby Warburg, la sfida è scoprire “i difetti e le omissioni nella vertiginosa catena di immagini”, in cui “una data immagine porta semplicemente all’immagine successiva” – il che ci porta all’idea di “ tela totale” – , un'immagine in cui qualcosa viene dall'esterno: “l'immagine vera”, “quella in cui c'è l'irruzione del “reale”, che ci è già diventato estraneo, senza che lo avessimo previsto”.[Iv] È in questa immagine eccezionale che risiede il potere di restituire la vista all’occhio saturo, reagendo così all’“iconomania contemporanea”.[V]

[...]

Questa attenzione alla percezione è centrale anche nella riflessione di Gilles Deleuze[Vi] sul cinema, dato che si interroga sullo statuto dell’immagine cinematografica nella nostra società delle immagini. Sarebbe nel “cinema autoriflessivo” di Jean-Luc Godard, e non nel “cinema riflessivo” di Ingmar Bergman, o nel cinema di denuncia politica basato sulla “rappresentazione diretta di un oggetto”, né nel cinema parodico, associato negli anni 1980 alla “moda retrò”,[Vii] che avremmo – secondo Gilles Deleuze – il dramma della percezione.

Il cinema più attuale, secondo l'autore, “si è impegnato nella sua riflessione più alta, e non ha mai smesso di approfondirla e svilupparla”;[Viii] in modo tale che troveremmo, soprattutto in Jean-Luc Godard, “formule che esprimono il seguente problema: se le immagini sono diventate cliché sia ​​all'interno che all'esterno, come possiamo estrarre da tutti questi cliché un'immagine, 'solo un'immagine'? , un’immagine mentale autonoma?”[Ix] E conclude: “Dall’insieme dei luoghi comuni deve emergere un’immagine… Con quale politica e con quali conseguenze?”,[X] dopotutto: “Qual è un’immagine che non sia un cliché? Dove finisce il cliché e inizia l’immagine?” – quella che diventa ogni giorno più difficile” (vicino, qui, alla nozione di “bellezza difficile” di Jean Galard).[Xi]

Nel suo libro su Francis Bacon, Gilles Deleuze ribadisce: “Cliché, cliché! Non solo si sono moltiplicate immagini di ogni tipo, intorno a noi e nella nostra testa, ma anche le reazioni contro i cliché generano cliché”.[Xii] Pertanto, non è “trasformando il cliché che usciremo dai cliché”; è “solo quando ce ne liberiamo, attraverso il rifiuto, che il lavoro può iniziare”.[Xiii] Il problema dello spettatore diventa allora, nel noto brano conclusivo di Immagine temporale: “cosa c'è da vedere nell'immagine” che abbiamo davanti a noi?; “e non più, cosa vedremo nella prossima immagine?”[Xiv]

Ci si può chiedere, dunque, come aspettarsi che emerga un'immagine dalla successione di simulacri sullo schermo totale che “forza il pensiero”, nel senso di Gilles Deleuze; qualcosa come l'“arrivo”, dice Jacques Derrida;[Xv] qualcosa che “accade nell'evento”, secondo la proposta di Jean-François Lyotard;[Xvi] qualcosa come “l’impensato” nell’affermazione di Michel Foucault;[Xvii] qualcosa come una “possibilità indefinita”, secondo l'espressione di Hans Thies Lehmann;[Xviii] qualcosa, infine, come “esso”, nel senso psicoanalitico di pulsione, di inconscio, dell'altro senso; qualcosa che rompe, finalmente, con l'orizzonte del probabile, che interrompe ogni organizzazione performativa, ogni convenzione o ogni contesto dominato dal convenzionalismo; perché solo così, nella sottrazione di elementi di potere, si sprigionerebbe la forza non comunicativa di un'immagine.

Di fronte alla guerra delle immagini, la sfida etica ed estetica della critica d’arte è quella di selezionare immagini enigmatiche in mezzo alla performatività dei simulacri (o dei cliché) che circolano ininterrottamente sullo schermo totale, avvertendo del rischio della dissoluzione già in atto, dell’arte. nella comunicazione. Per cogliere la forza non comunicativa di un’immagine è necessario distinguere la comunicazione, o “simulazione della comunicazione” come preferisce Jean Baudrillard,[Xix] dell'arte intesa come forma di “comunicazione… senza comunicazione”, secondo l'espressione di Jean-François Lyotard.[Xx]

Questa nozione, apparentemente contraddittoria, di “comunicazione… senza comunicazione” designa, per l’autore, “una comunicabilità “originaria”, “anteriore alla pragmatica comunicazionale”, che opera una sospensione (epokhé) o lo rende “inoperante” (désœuvrée) o “disorientati” (lasciarsi andare) questo pragmatico.[Xxi]

Questa concezione di Jean-François Lyotard si oppone, quindi, alla mancanza di distinzione tra arte e comunicazione disseminata dalla teoria cibernetica di Norbert Wiener e dalla teoria dell'informazione di Abraham Moles e Max Bense, negli anni 1950-1970, e che, oggi, è pacificamente accettato. Questi autori, è bene ricordarlo, sostenevano che la differenza tra arte e comunicazione è solo una differenza quantitativa – quindi misurabile rispetto al livello informativo (la ridondanza o il tasso di informazione dei messaggi: da 0 a 1) –, e non una differenza qualitativa. differenza, se non ontologica, tra forma artistica e merce culturale.

Questa indistinzione che oggi viene riproposta, in un’altra configurazione teorica, si è diffusa al punto da diventare la doxa dominante. Se però questa distinzione non viene preservata, l’arte finirà per essere sussunta nella cultura. massa-media e rete digitale, come dimostra la sintetica formulazione di Jean-Luc Godard in Vi saluto Sarajevo: «In un certo senso la paura è figlia di Dio, redenta venerdì sera. Non è bello, viene deriso, maledetto e rinnegato da tutti. Ma non fraintendetevi, lui si prende cura di ogni agonia mortale, intercede per l'umanità. Perché c'è una regola e un'eccezione. La cultura è la regola. E l'arte, l'eccezione. Tutti dicono le regole: sigarette, magliette, computer, tv, turismo, guerra. Nessuno parla dell'eccezione. Non è detto, è scritto: Flaubert, Dostoevskij. È composto: Gershwin, Mozart. È dipinto: Cézanne, Vermeer [opera d'arte]. Si gira: Antonioni, Vigo. Oppure si vive, e diventa arte di vivere [poetica del gesto]: Srebenica, Mostar, Sarajevo. La regola vuole la morte dell’eccezione”.[Xxii]

Georges Didi-Huberman si chiede se questa massima di Jean-Luc Godard (“C'è una regola e un'eccezione. La cultura è la regola. E l'arte, l'eccezione”), che lo ha guidato nel molestato, lanciato nel 1960, il Addio alla lingua, del 2014, non ha acquisito di per sé carattere normativo, in quanto avrebbe convertito l'eccezione in una nuova regola.[Xxiii] Em Addio alla lingua, regalmente fedele all'eccezione, a nostro avviso Jean-Luc Godard esamina il potere poetico delle immagini 3D, nemmeno un'intervista nei film blockbuster Stati Uniti.

In questo saggio visivo non abbiamo i consueti effetti speciali dei film di intrattenimento, ma un inventario delle possibilità poetiche aperte dal video digitale, come la sovrapposizione di colori brillanti, che si traduce in un esplosione di colori, un effetto evocativo analogo a quello ottenuto dai postimpressionisti o fulvo; o, ancora, le distorsioni nelle figure risultanti dal rapporto tra il piano (la bidimensionalità della tela) e l'effetto di profondità nell'immagine digitale 3D, rimandando, in quest'ultimo caso, alla pratica dell'anamorfosi in pittura .

Queste distorsioni, risultanti dalla collisione tra piano e profondità, permettono al “film” di Godard di avvicinarsi a un'estetica dell'imperfezione, non nel senso di valorizzare a bassa tecnologia, come vedremo in Wilhelm Kentridge, ma a causa della limitazione dell'effetto di verosimiglianza dell'immagine digitale 3D – esplorato dal cineasta, tra l'altro, con una chiara intenzione ironica.

Prima Addio alla lingua, che è cinema sulla vita (perché aperto al referente: morale, storia, politica, ecc.), e anche cinema sul cinema, data la sua autoreferenzialità, l'osservatore deve concentrarsi non solo su ciò che c'è da vedere ogni immagine, dipinto o piano considerato nella sua singolarità, come richiedeva Gilles Deleuze; ma anche la sua composizione basata sull'assemblaggio accelerato di immagini, parole e suoni che, disposti come “dualità disgiuntive” (cioè come conflitto, esitazione, oscillazione o paradosso), ne attivano la riflessione, poiché aprono le immagini (e il presente) all’“impensato”, nel termine ribadito da Godard in Storia(e) del cinema.[Xxiv]

Attraverso “il pensiero critico che giudica e sceglie, che produce differenze, che seleziona immagini” sarebbe possibile, secondo Jean Baudrillard,[Xxv] opponendosi anche all'eccezione alla regola, “liberando il senso”; tuttavia «le masse non scelgono, non producono differenze, ma indifferenziazioni»: esse «mantengono il fascino del mezzo (come profetizzava McLuhan) che preferiscono all'esigenza critica del messaggio». La regola menzionata da Godard corrisponde, qui, in Baudrillard, a “forme asintattiche”, intercambiabili, come è tipico delle forme merceologiche o delle forme pubblicitarie; e l'eccezione corrisponderebbe alle “forme sintattiche” (l'idioletto: il codice singolare di ogni opera); cioè le “forme che articolano il significato”, che sarebbero incommensurabili, mentre non sono scambiabili, a differenza dei beni, che possono essere misurati secondo un valore astratto.

Non si può quindi presupporre l’esistenza di una società della comunicazione in senso stretto, nel senso di democratizzazione dell’accesso all’informazione, o di una razionalità comunicativa, nella direzione di Jürgen Habermas, perché, secondo Jean Baudrillard,[Xxvi] la “massa resiste scandalosamente all’imperativo della comunicazione”, così concepita, al punto che la sua “unica affezione massiccia” è il “consumo vorace” – “vedere, decifrare, apprendere non la tocca” –, in modo tale che “i discorsi gli elementi articolati finiscono per ridursi ad un'unica dimensione in cui tutti i segni, i media e la realtà stessa perdono il loro significato” (venendo sostituito dalla “simulazione del significato”).[Xxvii]

Di fronte a questo effetto deterrente della comunicazione, o alla sua violenza implosiva, ci si può chiedere però – prendendo le distanze, qui, provvisoriamente, da Jean Baudrillard – come sarebbe possibile resistere alla conversione dell’arte in immagini meramente performative.

Dire che la cultura è diventata la regola implica affermare, in breve, che essa ha finito per limitarsi “a strumento di barbarie totalitaria, poiché attualmente è confinata nell’ambito mercantile e prostituzionale della tolleranza o dell’indifferenziazione generalizzata”, per usare le parole di Georges Didi-Huberman;[Xxviii] in altre parole, che la cultura, così concepita, non è più ciò che ci protegge dalla barbarie e che, quindi, “non dovrebbe essere protetta da noi” di fronte alla sua ricaduta nell’orrore.

Il rapporto tra cultura e arte, in Jean-Luc Godard, è analogo, è bene notarlo, all’opposizione tra luce e ombra, in Didi-Huberman, dato che quest’ultima si riferisce al “violento contrasto tra l’eccezione che riceve o irradia la luce del desiderio” e il “governo di una realtà fatta di colpa, un mondo di terrore reso concreto dal raggio curioso dei proiettori e dallo spaventoso latrato dei cani da guardia notturni”,[Xxix] nella caratterizzazione della società fascista di Pier Paolo Pasolini, che è possibile estendere, a nostro avviso, alla società neoliberista dell'ipervisibilità, in direzione di Baudrillard. Questa eccezione poiché “la gioia innocente funzionerebbe come un cenno nella notte chiusa”, dopo tutto, tutta l'arte, dice Didi-Huberman, è “lampo irregolare, ma lampo vivo o fiamma del desiderio”; è un “momento eccezionale in cui l'essere umano diventa luminescente, danzante, erratico, intoccabile e resistente”, “sotto il nostro sguardo stupito”.[Xxx]

Va notato, prima di presentare altre immagini di resistenza, che è necessario, nonostante le difficoltà, aguzzare la percezione per cogliere la singolarità di tali immagini. Sarebbe necessario, ad esempio, acuire la sensibilità verso ciò che cambia nelle immagini, verso ciò che Roland Barthes chiamava “neutro” – “una merce sempre più rara, se non un vero lusso nel presente”.[Xxxi] Questa “estetica del neutro”, proposta da Roland Barthes, si oppone quindi alla già citata idea di neutralizzazione delle immagini, in Jean Baudrillard.

È necessario rendersi conto che ci sono immagini che sono “spazi completamente e come esaustivamente sfumati”; in altre parole, che siano “colorati”; che “cambiano sottilmente aspetti, magari significato, o configurazione, a seconda dell’inclinazione dello sguardo dell’osservatore”.[Xxxii] Questa ricerca di sfumature nell'immagine, che qui viene proposta come forma di resistenza alle immagini della società della simulazione, non significa una rivendicazione di sofisticazione intellettuale, nel senso di una stilizzazione del pensiero o di un affinamento dandy della sensibilità, ma semplicemente un tentativo di evitare che lo sguardo diventi ostaggio del fascino fatale provocato dai segni ad alta definizione del mondo digitale.

La percezione delle sfumature di un'immagine implica la temporanea interruzione delle imposizioni di un linguaggio visivo assunto come anonimo, dogmatico o, semplicemente, naturale, perché certificato nelle infinite reiterazioni dello schermo totale. La percezione delle sfumature dell’immagine, delle sue inflessioni sintattiche e, di conseguenza, semantiche, denunciando così la “arroganza del linguaggio” (il “fascismo del linguaggio”, in Roland Barthes, corrisponde, qui, al “fascismo del simulacro” , in Jean Baudrillard) richiede attesa e lentezza, il ralenti o rinvio, in un mondo governato dai media elettronici e dall’informatica che creano un “senso di simultaneità e immediatezza” tipico del capitalismo finanziario, che mette in discussione ogni visione a lungo termine, a favore della circolazione accelerata dei capitali su scala globale .

Questa percezione nascosta, qui proposta, può sembrare fantasiosa in un mondo colonizzato dalla sfera della tecnica e della scienza, cioè dalla operazione, per l'efficacia della procedura; dopo tutto, “Divertimento, narcisismo, competitività, successo, performance, realizzazione, performance”[Xxxiii] Queste sono le parole d'ordine, come sappiamo. È proprio, però, nella percezione segnata dal ritardo, dalle esitazioni, dal tempo sprecato e sprecato, dalla pazienza nello svelare il segreto di un'immagine, di un volto che in essa si lascia solo intravedere, che avremmo la negazione della temporalità dell'immagine, produzione di simulacri e consumi capitalisti (voracità e fretta) e, di conseguenza, “edonismo ansioso” che governa la vita nell'“ipermodernità”, secondo Gilles Lipovetsky.[Xxxiv] Insomma, alla domanda “cosa si aspettano le immagini da noi?” si può rispondere, ovvero tecnica del ritardo: la gelosa e lenta percezione delle sue sfumature.

[...]

Nell’immagine-enigma, al contrario, c’è una zona di opacità, o indiscernibilità, che innesca nello spettatore una sorta di “ricerca dello scisma”,[Xxxv] dato che circola, senza sosta, tra i studium e punto; tra il rappresentativo e l'indicale, tra il valore espositivo e il valore culturale, tra il dato e il segreto, poiché tali termini non sono esclusivi. Nel carattere indicale di questa “immagine scrupolosa”,[Xxxvi] della “difficile bellezza”, c’è proprio il passaggio da un termine all’altro, lasciandoci così intravedere l’intrattabile realtà. È l'immagine, infine, che, interrompendo la remissione autoreferenziale dei simulacri, consente un reinvestimento “nel referenziale e nel reale”, senza che ciò implichi un ritorno alla rappresentazione.[Xxxvii]

Tuttavia, questo discorso nel campo delle arti di un “ritorno del reale” in mezzo a un “mondo irreferenziale”, avverte lo stesso Baudrillard, potrebbe essere una nuova mossa nel “gioco della simulazione”: “Mentre la minaccia storica arrivava per lui dal reale, il potere gioca con la deterrenza e la simulazione, disintegrando tutte le contraddizioni nella forza di produrre segni equivalenti. Oggi, quando la minaccia viene dalla simulazione (quella di diventare volatili nel gioco dei segni) il potere gioca con la realtà. Giocare con la crisi; gioca rifabbricando questioni artificiali, sociali, economiche e politiche. Per lui è questione di vita o di morte. Ma è troppo tardi."[Xxxviii]

Questa fatalità (“Ma è troppo tardi”) deve essere compresa, tuttavia, sulla base della strategia discorsiva dell’autore, che contrappone il “nichilismo ironico” al “nichilismo della neutralizzazione” caratteristico del sistema egemonico. Il suo “nichilismo attivo della radicalità” è quello dell’“anticipazione drammatica”, di quello che “porta questo stesso sistema attuale” al limite dell’insopportabile: “La violenza teorica, non la verità”, è del resto – conclude Baudrillard – “ la risorsa che attualmente ci resta”, anche se siamo nell’”era delle teorie senza conseguenze”.[Xxxix]

Nel giudizio: “Ma è troppo tardi”, di Jean Baudrillard, fa eco al requiem di Pier Paolo Pasolini del 1975, ripreso da Didi-Huberman nel 2009, secondo il quale “la lucciola è morta, ha perso i suoi gesti e la sua luce nella storia politica” del nostro oscuro contemporaneo, che condanna a morte la loro innocenza”.[Xl]

Ciò che Pasolini e Baudrillard assumono come spettacolarità, nel regime fascista, nel primo caso, e nel regime capitalistico neoliberale di socialità fittizia, nel secondo, utilizzando rispettivamente le figure dei proiettori luminosi e dello schermo totale, è la stessa “realizzazione inferno al quale nessun altro sfugge, e al quale ormai siamo tutti condannati”: “Colpevoli o innocenti, non importa” a questo punto, per questi autori, perché siamo tutti ugualmente “condannati in ogni caso”.[Xli]

A proposito di questa “tesi storica” della scomparsa delle lucciole di Pasolini – che qui estendiamo alla nozione di fatalità di Baudrillard – Didi-Huberman[Xlii] ritiene che, anche se di fatto la “viviamo” ogni giorno, la sua danza luminescente, “questo momento di grazia”, cioè “ciò che è di più fugace e di più fragile”, resiste ancora “al mondo del terrore” o orrore contemporaneo.

Anche ammettendo che il tempo presente sia una situazione di “apocalisse latente”, dato che nulla sembra essere in conflitto, poiché il crollo “non manca di devastare i corpi e gli spiriti di ogni persona”, nessuno può esaurirsi , sostiene Didi-Huberman, le “sovradeterminazioni e indeterminazioni” di “stratagemmi apocalittici”.[Xliii]

In altri termini, nell’“immanenza del mondo storico”, dove “il nemico non smette mai di vincere”, come vuole Didi-Huberman, l’immagine-enigma opera come indice di sopravvivenza.[Xliv] L’immagine che sopravvive è quella che critica l’immagine egemonica, ovvero la “macchina generatrice di immagini” dei mass media e della rete digitale (o, della realtà virtuale e dell’intelligenza artificiale nella “datasfera” di Grandi tecnologie) che è “praticamente tautologico”.[Xlv]

Dal punto di vista della regola, la diversità delle immagini che circolano sullo schermo totale può sembrare immensa, o addirittura incommensurabile, come suppone la visione idealizzata della rete tipica del senso comune, quando in realtà essa è fortemente limitata, o addirittura non -esistente; poiché dal punto di vista dell'eccezione, l'unicità di ogni immagine superstite è indice dell'infinita potenzialità delle immagini-enigma (a venire).

Non è necessario, però, attribuire a questa immagine superstite, intesa come potenza residua di una contro-immagine (la “forma pensiva”: quella che restituisce il nostro sguardo perché “in essa non c’è punto che non guardi noi”), un valore di redenzione o di salvezza, soprattutto perché, come ha sottolineato lo stesso Didi-Huberman, la distruzione, anche se continua, “non è mai assoluta”. [Xlvi]

Presupporre che la macchina visiva compia il suo lavoro senza lasciare residui o possibilità di resistenza significherebbe lasciarsi accecare a tal punto dalla forza dei proiettori o dello schermo totale da non poterne vedere i lampi o le luci. punto chiaro che affermano “belle comunità luminose”: “Anche se sono vicine al suolo, anche se emettono una luce molto debole, anche se si muovono lentamente, le lucciole non rappresentano, in senso stretto, una tale costellazione”[Xlvii] che opera come indice di possibile alterità?

*Ricardo Fabbrini È professore presso il Dipartimento di Filosofia dell'USP. Autore, tra gli altri libri, di L'arte contemporanea in tre periodi (Authentic). [https://amzn.to/4a35odf]

Riferimento


Ricardo Fabbrini. L'arte contemporanea in tre periodi. Belo Horizonte, Autêntica, raccolta Saggi, 2024, 174 pagine. [https://amzn.to/3xorYyW]

Bibliografia


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note:


[I] Latour (2008).

[Ii] Foucault (2008, p. 304).

[Iii] Cinturare (2011, p. 18-23).

[Iv] Cintura (2011, p. 26).

[V] Cintura (2011, p. 23).

[Vi] Deleuze (1985, p.264).

[Vii] Baudrillard (1991, p.59).

[Viii] Deleuze (1985, p.264).

[Ix] Deleuze (1985, p.264).

[X] Deleuze (1985, p.263).

[Xi] Deleuze (1985, p.263).

[Xii] Deleuze (2007, p.93).

[Xiii] Deleuze (2007, p.263).

[Xiv] Deleuze (1985, p.323).

[Xv] Derrida (2003, p.76).

[Xvi] Lyotard (1987).

[Xvii] Foucault (1981).

[Xviii] Lehmann (2011).

[Xix] Baudrillard (1991, p.55).

[Xx] Lyotard (1993, pag. 258).

[Xxi] Lyotard (1993, pag. 112).

[Xxii] Godard e Miéville (2006, [sp]).

[Xxiii] Didi-Huberman (2015).

[Xxiv] Augusto (2015).

[Xxv] Baudrillard (1985, p.130).

[Xxvi] Baudrillard (1985, pp. 14-15, 33).

[Xxvii] Baudrillard (1991, p.92).

[Xxviii] Didi-Huberman (2011, p. 41).

[Xxix] Didi-Huberman (2011, p. 21).

[Xxx] Didi-Huberman (2011, p. 23).

[Xxxi] Barthes (2003, p. 27).

[Xxxii] Barthes (2003, p. 109).

[Xxxiii] Gagnebin (1999, p.88).

[Xxxiv] Lipovetsky (2004, p.55).

[Xxxv] Lacan (2008, p. 71).

[xxxv] Baudrillard (1991, p. 33).

[Xxxvi] Galard (2012).

[Xxxvii] Galard (2012, pag. 32).

[Xxxviii] Galard (2012, pag. 33).

[Xxxix] Galard (2012, pag. 195-201).

[Xl] Pasolini (2020, pp. 162-169).

[Xli] Didi-Huberman (2011, p. 39).

[Xlii] Didi-Huberman (2011, p. 25).

[Xliii] Didi-Huberman (2011, p. 75).

[Xliv] Didi-Huberman (2011, p. 78).

[Xlv] Groys (2015, pag. 21). Vedi anche Beiguelman (2021).

[Xlvi] Didi-Huberman (2011, p. 118). Vedi anche Didi-Huberman (1998, p. 169-199).

[Xlvii] Didi-Huberman (2011, p. 60).


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