da TADEU VALADARES*
Chi potrà sopravvivere, a Gaza, a questo momento di natura legale che si conta negli anni, così lontano dal momento dell’urgenza umanitaria?
"Toutefois, le seul moyen de parvenir à un tel accord est d´ériger un mur de fer, à savoir, garantire l´esistenza in Eretz-Israël au moyen d´une force telle, qu´elle ne pourra être ébranlée par aucune influence arabe . In due termini diversi: la seconda volta to parvenir à un accord dans l´avenir est de renocer entèrement à toute tentative de trouver un accord aujourd´hui"
(Vladimir Z. Jabotinsky, Il muro di ferro, p. 39).
La guerra contro la popolazione massacrata di Gaza potrebbe durare molto più a lungo di quanto possiamo immaginare. Ma nonostante questa estensione indeterminata nel tempo, si tratta di una guerra israeliana perduta in anticipo come diretta conseguenza di quanto deciso dal governo Benjamin Netanyahu il 7 ottobre. Il ricorso immediato alla violenza punitiva caratterizzata da brutale sproporzionalità ha segnato la reazione israeliana alla sorprendente incursione armata delle forze anticoloniali operanti da Gaza. Per questo motivo, in breve tempo gli sviluppi dell'operazione illimitata hanno minato l'iniziale sostegno dato a Israele da gran parte dell'opinione pubblica occidentale.
Con il passare dei giorni, e nonostante tutti gli sforzi delle autorità governative per giustificare l’ingiustificabile, Israele viene sconfitto, soprattutto se si osserva il vettore che ha caratterizzato il cambiamento dell’opinione pubblica globale. Con velocità e intensità inaspettate, alle reazioni di condanna logicamente previste dei paesi islamici in generale, e del mondo arabo in particolare, si sono unite la maggior parte degli stati e importanti frazioni di società che fanno parte del Sud del mondo.
A completare il quadro avverso ai sionisti, l'opinione pubblica del mondo occidentale era divisa: i settori contrari alla barbara campagna militare delle forze israeliane cominciavano infatti a crescere significativamente sia nel Regno Unito che nell'Europa continentale, sia negli Stati Uniti e Canada. E ciò che l’opinione pubblica e i movimenti sociali segnalano con fondato ardore critico, in una certa misura viene tradotto, con un altro linguaggio, in ambito politico e diplomatico, soprattutto nei grandi forum multilaterali di New York e Ginevra, cuore pulsante dell’ONU. sistema.
Nonostante questa inversione di tendenza, non risulta nemmeno – al di là delle ben pubblicizzate buone intenzioni del governo di Joe Biden – che si considerino misure in grado di costringere Israele ad accettare un cessate il fuoco che, per essere sostenibile, non è uno stratagemma momentaneo, dovrebbe essere accompagnato da un ritiro, per quanto tattico, delle forze israeliane nella Striscia di Gaza. Un simile cambio di prospettiva richiederebbe, in ultima analisi, una cruciale revisione delle posizioni delle due parti in confronto diretto, che si tradurrebbe in dinamiche che potrebbero portare ad una soluzione, almeno teoricamente duratura, del conflitto armato che ha già provocato vittime, tra morti, feriti e dispersi, oltre 110mila persone, in maggioranza donne, bambini, anziani e giovani. Per la maggior parte, quasi tutti, civili non combattenti.
Il superamento dello stato di guerra dichiarato da Israele contro la popolazione di Gaza è, ovviamente, qualcosa di completamente diverso da una maggiore o minore pausa nelle operazioni militari in cui sono impegnate da cinque mesi la potenza occupante e le forze ribelli. Ciò, tuttavia, non potrà realizzarsi finché non emergeranno pressioni gigantesche e costanti da parte delle strade mobilitate – in particolare negli Stati Uniti, ma anche nei paesi che compongono l’Unione Europea e, insieme agli Stati Uniti, fanno parte della NATO –, Vietnam, non Georgia,'nella mia mente'.
Questo processo di mobilitazione popolare ha già mostrato la sua forza, ma non ha raggiunto neanche lontanamente nessuno dei suoi obiettivi, tutti finalizzati al raggiungimento di una pace duratura. Qualcosa di essenziale per comprendere questo quadro diffuso: mentre, in ciascuno dei paesi del cosiddetto mondo nordatlantico, una maggioranza significativa delle rispettive società non riesce a modificare in modo decisivo gli attuali orientamenti dei propri governi, e inoltre, anche se semplicemente derivazione, le posizioni del binomio NATO-Unione Europea, resterà praticamente impossibile fermare definitivamente il massacro della popolazione palestinese a Gaza.
Certo, la Corte internazionale di giustizia, tra qualche anno, molto probabilmente confermerà ciò che per lei e per ora resta limitato alla sfera della plausibilità. Alla luce di questa realtà giuridica di fatto, si pone una domanda ineludibile: chi potrà sopravvivere, a Gaza, a questo momento di carattere giuridico che si conta negli anni, così lontano dal tempo umanitario nel suo carattere di assoluta urgenza? Mentre la Corte si prende il suo tempo per decidere se la denuncia sollevata dal Sudafrica è reale, più che plausibile, il genocidio rimarrà operativamente libero.
Proprio come la copertura parziale della guerra come spettacolo pulito, qualcosa che piace alle nostre società, tutti questi, penso a Guy Debord, continueranno a occupare lo spazio dei media mainstream, dipendenti dallo spettacolo immobilizzante che nella quotidianità la vita assorbe – se non assolve – il male, completamente aperto a Gaza. Esercizio ampio, movimento perennemente teso alla sua banalizzazione.
Intrappolato nel cerchio creato cento anni fa da Vladimir Jabotinsky – la metafora del muro di ferro – il sionismo revisionista arrivò finalmente al potere nel 1977 con Menachem Begin. In altre parole, 54 anni di sviluppo dell’idea del muro minerale. Sionismo apparentemente revisionista, che continua a predominare con Benjamin Netanyahu, la sua espressione più recente. Un sionismo che è sostanzialmente indistinguibile dall’altra linea, quella stabilita dal fratello nemico Ben Gurion, perché entrambe le varianti respingono con assoluta franchezza ogni ipotesi di superamento della questione palestinese a parte l’impossibile sottomissione permanente del popolo palestinese a Gaza, a Gerusalemme Est, in tutta la Cisgiordania occupata e – come cittadini di seconda classe – gli arabi che vivevano nell’Israele prima del 1967.
In altre parole, l’attuale governo di unità nazionale non ha modo, con decisione interna e autonoma, di fermare quella che alla fine si manifesta come una crisi a lungo termine di natura strutturale. Crisi di esaurimento di un'epoca, non di un semplice momento. Una crisi che porta con sé, sotto travestimenti sempre più diafani, un’evidente decadenza politica, una famigerata desolazione morale, una totale incoerenza etica e un’apparente fragilità istituzionale.
In altre parole: Israele è condannato a rimanere una fortezza murata che è allo stesso tempo inespugnabile ed espansionistica, assediante e assediata, militarmente forte ma con una psicologia di massa sempre più fragile. In definitiva, il muro proposto da Vladimir Jabotinsky non può più, nella sua forma attuale, svolgere nemmeno parzialmente la sua funzione originaria.
Una volta che il governo ha deciso di mantenere sotto il suo giogo o, in alternativa, di incorporare i territori occupati nel 1967, lo Stato sionista ha da allora dato forma al Grande Israele, la cui mappa Benjamin Netanyahu ha presentato all’ONU, mesi fa, con il titolo illuminante di “Il Nuovo Medio Oriente'. In esso la Palestina non esiste. È chiaro che la mappa può diventare realtà solo con l’uso massiccio della violenza militare, l’aumento dell’espulsione della popolazione nativa, la pulizia etnica ricorrente e, ora, con stupore di tutti, la commissione del peggiore dei crimini, il genocidio.
Genocidio, questo, è plausibile per il giurista, ma evidente per chi giurista non è. Il lungo processo che inizia con il nakba sono l'inquadratura e lo schermo che contestualizzano e permettono di comprendere allo stesso tempo la questione palestinese e il suo correlato, l'impasse, il vecchio mondo senza porta al quale uno dei personaggi di O Tempo eo Vento, un mondo israeliano immune ai segnali emessi dalla “realtà esterna”, la vecchia la realtà. Questo è il mondo in cui vivono lo stato e la società israeliani. Questo è esattamente lo stato della situazione. Uno Stato che ha origine in un lontano passato che definisce il presente e ipoteca il futuro dell’Israele ebraico e democratico, una vera contraddizione in termini.
Pertanto, nel breve e medio termine, in termini di progresso che non sia un falso movimento, la questione palestinese rimane quasi interamente dipendente dalla volontà degli Stati Uniti di mettere da parte il proprio ruolo di principale complice nel (plausibile) massacro genocida del popolazione di Gaza. Per raggiungere questo obiettivo, in una logica impeccabilmente idealistica e debole, il governo di Washington dovrebbe agire in totale conformità con i valori democratici liberali che pretende di incarnare, qualcosa di molto lontano dall’ordine del sistema internazionale basato su regole, affrontando esso stesso la problematica transizione di egemonia che si delinea da tempo. Non è nelle carte. Neppure nelle lettere che compongono l'epistolario idealista, direbbe Fradique Mendes.
Ciò che è più che evidente in queste lettere è ciò che Benjamin Netanyahu segnala ogni volta che respinge le proposte quasi eteree di Joe Biden. La risposta americana ai successivi insulti israeliani è una lezione sull’abisso realistico. Finora gli Stati Uniti si sono limitati a censurare e punire Israele sotto forma di pochi coloni o poco più. In altre parole, ricorrere a forme di pressione tanto periferiche quanto inefficaci. Inoltre, siamo informati che alcune espressioni volgari sono state utilizzate frequentemente. Il mondo gira e la Lusitana gira. Secondo alcuni storici, Franklin Delano Roosevelt affermò ripetutamente che “Somoza può essere un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana…”.
Nel bel mezzo della produzione del secondo nakba come una tragedia e una catastrofe più che esaurientemente annunciate, qualcosa è certo se si analizza la dinamica della più recente aggressione contro la popolazione di Gaza: il popolo palestinese sopravviverà a questa quinta guerra, per quanto diminuito possa essere in termini demografici immediati, per quanto terribilmente traumatizzati possano essere, possano rimanere coloro che sopravvivono ai massacri.
Credo che il popolo palestinese nel suo insieme diventerà ancora più resiliente, più determinato a resistere e più capace di farlo. Baso il mio ragionamento su un modo di pensare: do un peso determinante al tempo generazionale, quello della storia a lungo termine. Ciò è tanto più valido, credo, in quanto l'immediato è sinonimo di desolazione quotidiana. Da qui la mia certezza che i palestinesi – con la loro accresciuta volontà – continueranno ad affrontare la persistente sfida imposta loro dal colonialismo nelle sue due facce successive: quella britannica, inaugurata da Balfour nel 1917, tipicamente imperialista-coloniale; e quella israeliana, quella del sionismo fondato sul colonialismo apartheid dei coloni come pensato da Ilan Pappe.
Ironia della storia: anche questo è stato pensato, ma come percorso di redenzione del popolo ebraico, da personaggi storicamente decisivi, da Ben Gurion e Golda Meir a Benjamin Netanyahu, passando per Jabotinsky, Shamir, Begin, Sharon, Netanyahu e altri anelli intermedi .
Poiché la vedo in questo modo, credo che la vittoria palestinese in questa guerra di liberazione nazionale non possa essere immediata, né realizzabile a medio termine. Mi azzardo a fare delle ipotesi: la vittoria, qualunque sia la sua forma, impossibile da stabilire oggi, emergerà con forza decisiva solo tra una o due generazioni. Questo è un altro momento, il momento dell'inevitabile.
Non dimentichiamo ciò che Rashid Khalid sottolinea precisamente nella sua analisi di questa guerra centenaria: la lotta armata palestinese non è iniziata nel 1947/1948. Il suo primo e terribile momento fu la grande rivolta araba degli anni ’30, la cui repressione uccise circa il 10% della popolazione nativa, allora sottoposta ad un doppio giogo, quello britannico, derivato dal Mandato ottenuto nella Società delle Nazioni nel 1922, e quello delle milizie sioniste, che erano già abbastanza ben organizzate e che agivano in stretta alleanza con le forze britanniche. La rivolta di massa fu preceduta da quelle che forse potrebbero essere intese come scaramucce preliminari: i ripetuti piccoli scontri che, prima della grande ribellione, scoppiarono nel momento in cui divenne chiaro agli indigeni che il progetto sionista si concentrava sulla creazione della Palestina storica e di uno Stato. i cui confini fino ad oggi non sono stati stabiliti.
Sì, contrariamente ai desideri del mio cuore. Sì, mi trovo costretto ad attenermi al corso reale del mondo. Per me, il momento storico della vittoria palestinese nella lotta per l’autodeterminazione rimane nascosto oltre l’orizzonte, ma il suo splendore è già evidente. Finché questo risultato – la cui forma nessuno può prevedere nemmeno approssimativamente – non si concretizzerà, l’attuale equilibrio catastrofico persisterà.
Resterà anche l’essenziale, una mia chiara certezza: quando diventa del tutto impossibile sconfiggere o sterminare un popolo, la sua profonda sofferenza è il segno più grande che la vittoria è vicina.
Tadeu Valadares è un ambasciatore in pensione.
la terra è rotonda esiste grazie ai nostri lettori e sostenitori.
Aiutaci a portare avanti questa idea.
CONTRIBUIRE