L'immaginazione del paradosso

Immagine: João Nitsche
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da JOÃO ADOLFO HANSEN

Commento all'intervista rilasciata da Guimarães Rosa a Günter Lorenz nel gennaio 1965

Le interviste riguardano non solo cose dette, effetti sull'enunciazione, ma anche modi di dire, regolazione pragmatica dell'enunciazione. Questo testo si configura come una scena dell'articolazione dei discorsi di Lorenz e Rosa, attenendosi ad alcuni presupposti dei discorsi in gioco. Nell'intervista il lettore legge il confronto, a volte la contrapposizione, di due macchine discorsive con determinazioni diverse.

Partiamo subito con il discorso del critico Günter Lorenz, che avanza come un discorso che distribuisce i significati di ciò che dice e sente in due serie escludenti, fissandoli in un sistema di interpretazione logica, che guida le domande e la traduzione/interpretazione delle risposte di Pink. Discorso che presuppone e opera con la contraddizione, il metalinguaggio di Lorenz non ammette che due opposti contraddittori possano essere veri o validi contemporaneamente. Ciò accade, ovviamente, non per inadeguatezza, ma per la sua situazione di mediatore – molto fine, va detto – tra João Guimarães Rosa e il pubblico; perciò, con l'astuzia di un intervistatore e una certa ostinazione di critico, nella sua enunciazione

Lorenz cerca di circondare il suo oggetto estremamente scivoloso, esigendogli un metalinguaggio che prenda posizioni esplicite di fronte a una determinazione esterna (la discussione sulla politica al Congresso internazionale di letteratura di Genova, nel 1965) o interna al lavoro dell'intervistato (la lingua /rapporto di lavoro, metodo di lavoro ecc.). Con umorismo, ma anche ironia, gli interventi di Rosa compiono un'analisi del linguaggio e degli eventi - non solo quelli delle circostanze dell'intervista e del Congresso, ma anche letterari e biografici - attraverso paradossi, che affermano due significati opposti che sono contemporaneamente valido. .

Abile modo di schivare la griglia concettuale del critico, quest'altro discorso, affabulatore/favolista, pone l'interlocutore di fronte ad alternative che provocano un cortocircuito nelle categorie logiche del suo discorso di contraddizione, richiedendo continue soste per compiere metalinguaggio di metalinguaggio (rileggendo l'effetto dell'impazienza, quasi dell'irritazione, di Lorenz, quando non riesce a seguire uno pseudo-paradosso che Rosa (dis)assembla, in cui converte l'opera nell'autore, nello stesso momento in cui dice che è necessario evitare qualsiasi intimità o soggettivismo per parlare del lavoro).

Parlando attraverso i paradossi – e insistendo sul loro valore in opposizione alla logica nei suoi libri –, Rosa insiste sul fatto che il suo discorso, come pratica ed effetto, mira a spostare continuamente i limiti espliciti dei linguaggi stabiliti e, subordinando sempre ciò che dice al modo in cui dice, mostra che opera con decisioni e non con adeguatezza di discorso a verità già costituite. È certamente per questo che, dopo aver letto l'intera intervista, ci si può ancora interrogare sulla reale contrapposizione che si mimetizza nell'andirivieni delle due strategie discorsive, soprattutto di Rosa, che produce un vuoto umoristico in cui le domande del critico vengono dimenticate.

Un'ipotesi è quella di pensare a Rosa come un critico letterario – in questo caso critico della critica – che dimostri nel suo gioco linguistico l'insufficienza/irritazione dell'apparato binario (del “politico/apolitico”, “logico/illogico”, “ reale/magico”, “vita/opera” ecc.) utilizzato dalla critica che non esce dal quadro della rappresentazione. A causa di due diverse immaginazioni di linguaggio e significato, siamo certamente di fronte anche a due diverse concezioni del significato di “politico”. (Considerato strategicamente come il principale di questo testo, il paradosso che permea l'intera intervista consiste nel fatto che Rosa rifiuta la politica e contestualmente afferma la responsabilità politica dello scrittore – come si legge, ad esempio, quando dice di essere dalla parte di Asturie e non dalla parte delle Asturie Borges).

Non importa se sia idealista attraverso l'uso di categorie che rimandano il suo discorso al metafisico, assorbendolo in un luogo atopico fuori dal tempo, l'insistenza di Rosa a parlare di linguaggio è chiara - in questo senso, il suo finto orrore per l'intimità e l'affermazione del suo desiderio di scrivere un dizionario che sarebbe la sua autobiografia da pubblicare nel suo centenario va pensata come tracce furtive della sua poetica e, implicitamente, del suo rapporto politico con la lingua e il linguaggio.

Valorizzare il dizionario come linguaggio virtuale della poesia implica, in questo caso, una sorta di attività compendiale temporaneamente immanente agli oggetti designati, in cui il linguaggio non viene lavorato come adeguatezza, similitudine o riflessione, ma come forza, poiché gli oggetti di i discorsi non sono predeterminati e prevalgono come un'infinita virtualità di senso: Rosa chiama il processo alchimia e, citando Novalis, algebra magica. Binariamente, si potrebbe pensare al formalismo, qui, in opposizione a qualsiasi contenuto realista.

Ma Rosa non crede in un'autonomia del linguistico, in quanto non confonde il materiale simbolico con gli oggetti collettivi in ​​esso articolati – leggi cosa dice sulla sincerità nell'uso del linguaggio o sulla responsabilità dello scrittore o, ancora, sul linguaggio della metafisica. E, siccome stiamo ancora scrivendo in binario, va detto che anche Rosa non accetta la scrittura letteraria messa strumentalmente al servizio degli standard: “Zola… veniva solo da San Paolo”, dice come esempio di dissociazione forma/contenuto.

Cosa si intravede, allora, nel suo rifiuto del facile formalismo e dello strumentalismo? In breve, l'affermazione di un'opera che Lorenz traduce come contraddizione: negazione della logica, difesa dell'irrazionale – operata da un intellettuale. Non vedendo alcuna contraddizione in ciò che dice, poiché non parla attraverso il discorso della contraddizione, dice che “un genio è un uomo che non sa pensare logicamente, ma prudentemente”. Qui, con il suo pudore, Rosa ribadisce il presupposto del suo discorso: “logica” equivale a prudenza divenuta scientifica, come pietrificazione di schemi che non producono più idee (in questo senso, il suo lavoro con il paradosso potrebbe anche essere inteso come rifiuto del dogmatismo, un po' paradossalmente).

Ma è la loro non accettazione di un linguaggio “palloncino di carta” dell'industria culturale – espressione che richiama il Comune di un altro grande solitario dell'invenzione – che può meglio spiegare la sua ripugnanza per il logico: ciò corrisponde a significati già ufficializzati con benedizione ecclesiastica, filosofica e scientifica. Come contrappunto al rifiuto, Rosa afferma un'opera di corrosione/mescolanza del linguaggio che dissolve la mediazione della rappresentazione e la tende verso un'origine che, senza paradosso, è futuro e virtualità dell'enunciazione (e realizzazione, se pensiamo a il suo lavoro, che è quello che conta): il linguaggio come medium da cui nasce e si realizza l'estensione/tensione di un lavoro “reazionario” con la parola.

Attribuendo alla parola il suo “significato originario”, la sua produzione travalica i confini prestabiliti della designazione/significato linguistico, attuando un evento puro come invenzione di un altro che la categorizzazione metafisica può candidamente pensare come un'anima o un altro mito catalogabile – ma che, attraverso l'opera del paradosso e della compensazione (liberazione dalle “impurità della lingua parlata”, uso di varianti dialettali non ancora codificate letterariamente, ricorso al portoghese arcaico, uso del dialetto che è la lingua della scienza moderna, ecc.) è un formidabile macchina moderna per produrre differenze, singolarità. Si tratta di lavorare con una lingua in fiera, in cui convergono e dialogano la molteplicità dei modelli di enunciazione collettiva – il portoghese brasiliano, una lingua non ancora statica, un mix di forme portoghesi, indiane e africane, e i vari apporti di altre lingue.

Il metodo: (dis)assemblare tali schemi nella combinatoria dell'enunciato, purificare, trasformare il linguaggio in linguaggio, sciogliere o liberare i linguaggi dal linguaggio, umsorgen. Pensando alla “brasilianità” – che è la “lingua dell'indicibile” – e dicendo anche che il suo personaggio Riobaldo è probabilmente proprio il Brasile, Rosa intuisce una politica linguistica che porta necessariamente alla confluenza di linguaggi di partito: il forse impressionante, per il suo lettore , è che la festa delle lingue trova il suo contrappunto e il suo ritmo nella boscaglia, in questo “sertão” folle e storto e per nulla metafisico, segnato proprio dall'assenza di voce.

Purtroppo – forse – Rosa non lo teorizza a sufficienza, perché quando parla di lui la sua categorizzazione è metafisica – quindi, è cieco al radicalismo radicale del suo linguaggio, terzo margine. E, in questo modo, come vuole essere breve questo testo, si riprende il paradosso dell'inizio: Rosa è un politico? Certamente no, se “politico” è pensato come impegno con l'opera e/o la propaganda di una determinata prassi – e dovrebbe essere chiaro che qui non si tiene conto dell'impegno del cuore, anche se fosse occasione di uno scritto sul teatro delle donne. Ma Rosa è intensamente politico quando, paradossalmente, fa parlare ciò che non ha ancora avuto voce e prepara silenziosamente la celebrazione delle lingue della boscaglia; la metafisica, in questo caso – e suo malgrado uomo antiquato rispetto al suo lavoro – è proprio la metafora di questo vuoto.

*Giovanni Adolfo Hansen è un professore senior in pensione presso l'USP. Autore, tra gli altri libri, di Nitidezze cinquecentesche – Opera raccolta, volume 1 (Edusp).

Originariamente pubblicato in Rivista Arte – Gli anni '60. San Paolo: Kairós, mag/ago. 1979.

 

Riferimento


Gunter Lorenz. Dialogo con l'America Latina: una panoramica di una letteratura del futuro.

San Paolo, EPU, 1973.

 

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