da EDUARDO SOARES NEVES SILVA e perché LUIZ PHILIPE DE CAUX*
Prefazione e introduzione del libro di recente pubblicazione di Luiz Philipe de Caux
Prefazione [Eduardo Soares Neves Silva]
Non è nuovo che il termine rivedere si è posta – forse contro la “sua” volontà, se un atto di autoriflessione fosse volontà – al centro del dibattito che giustappone, in modo il più delle volte precario, un vastissimo elenco di teorie, di generazioni, modelli, ambiti o tradizioni della teoria critica frankfurtiana (variazioni terminologiche di enormi conseguenze) al campo ancor più eterogeneo di modi di pensare che prendono a riferimento Kant, Hegel o Marx, un arco di ampiezza indecisa che comprende da Foucault a Brandom, da Spivak a Bhaskar, da Badiou a Nancy.
Il libro di Luigi Filippo de Caux, L'immanenza della critica: Studio sui significati della critica nella tradizione francofortese e post-francofortese, si concentra su questo dibattito con un occhio all'uso rigoroso del termine rivedere come referente di teorie la cui autocomprensione rimanda al momento fondante dell'autoproclamata teoria critica della società, che ha Horkheimer e Adorno tra i suoi fautori e ha le sue posizioni o ridescrizioni in Habermas, Honneth e gente successiva. Prendo atto, e quindi ribadisco quanto ho appena scritto, che il senso di quanto stabilito in questo campo fa già parte del problema affrontato nella tesi. Come nominare il collettivo delle autocomprensioni singolari che portano con sé sia il compito dell'autoriflessione sia quello della differenziazione per sovrapposizione, un discreto e contenuto Sollevamento?
Dal momento in cui Habermas, sempre nel 1973, postulò la differenza tra ricostruzione e autocritica, o almeno dalla seminale storiografia di Jay nello stesso anno, sono stati proposti diversi modi per distinguere sia i significati di critica in questi approcci teorici, sia esso i gradi di parentela o distanza tra la diversità dei proponenti. Molti di questi sforzi sono direttamente condizionati da due posizioni che sono state intese, ciascuna a suo tempo, come distinzioni legate, in termini di giustificazione, alla diagnosi dei deficit.
In Habermas, l'esplicitazione incoerente e carente delle basi normative della critica da parte di Adorno e Horkheimer può essere vista come una ragione sufficiente per sostituire il compito della teoria: dovrebbe portare alla luce criteri normativi anticipati negli assetti istituzionali e sociali già esistenti, piuttosto che di meramente incriminato nella determinata negazione di una totalizzazione tanto falsa quanto effettiva. In Honneth, l'attenzione va da un deficit all'altro: invece di quello normativo, ce n'è anche uno sociologico. Così, la riduzione del sociale all'imperativo del dominio nelle condizioni capitaliste non solo impedisce ad Adorno e Horkheimer di presentare le capacità interpretative dei soggetti come esseri morali, ma denota anche un amalgama strutturale-funzionalista cieco all'agire specifico che ha luogo in la dinamica del riconoscimento.
A sua volta, il percorso di separazione “concretista” operato da Habermas tra i piani della riproduzione materiale e della produzione simbolica è invischiato in un ostacolo sociologico, cieco alla sopravvenienza del conflitto sociale su ogni interazione, fattore chiave del riconoscimento come grammatica. Più che sviluppare quanto ho appena riassunto, mi interessa notare che ogni autocomprensione segnata simultaneamente dalla coppia diagnosi/deficit e dall'atto di perdono singolare o collettivo sfocerà in quella differenziazione per sovrapposizione, cioè l'invenzione di la tradizione vuole che ci sarà sempre un cambio di passo, adotta l'espressione che adotti: generazione, modelli, circoli, tradizioni. La particolarità, in questo caso, è che la teoria critica della società sostituisce questo rischio, in ogni sua variante, sulla base della risposta alla domanda: “che cos'è la critica?”.
Ci sono rischi che dobbiamo correre, ci sono rischi da evitare e ce ne sono rari che richiedono un modo diverso di vedere le cose. Quando è iniziata la ricerca che è sfociata in questo libro, sempre come lavoro di dottorato svolto da Luiz Philipe de Caux sotto la mia guida, ciò che è apparso subito chiaro al suo autore è che non manca una teoria critica come teoria della critica. L'autoreferenzialità nella trattazione della questione fondamentale che accomuna tanti modi di pensare – vale a dire l'orientamento all'autoriflessione, il comportamento pratico nei confronti della teoria – è dunque alla base dell'infinita serie di dibattiti che, ironicamente , costituiscono una variante metafilosofica della trattazione di una questione riguardante la realizzazione della filosofia.
Ma come affrontare la questione dei sensi della critica nella tradizione francofortese senza cadere negli stessi dilemmi? La via d'uscita trovata da de Caux è quella di spostare l'attenzione: invece del significato del termine critica, che all'improvviso suggerisce una teoria della critica, la questione riguarda i significati assunti dalla critica, cioè l'apposizione al termine. Questo spostamento, segnato da un'interpretazione molto coerente del tardo Adorno, incontra una critica "immanente" positiva, una critica immanente negativa e una critica immanente "in generale", distinzioni meticolosamente sviluppate dall'autore, con grandi conseguenze per la nostra posizione, quella di persone che si occupano di teoria critica. Cioè, il modo aperto di vedere ci include come parte del problema, parte dell'impasse, parte di una possibile soluzione. Questo corso attraversa il libro e, d'ora in poi, vi invito a leggerlo.
Come ultima osservazione, osservo che se si tratta di concepire l'atto di una critica immanente negativa o, nei termini proposti da de Caux, indicare alla dialettica i limiti del suo nesso di immanenza e, con ciò, comprendere se stessa come negazione dell'identità, negazione dell'immanenza, allora la domanda si ripete: se questa negazione richiede il passaggio all'oggetto, come conclude l'autore, possiamo chiederci: quale oggetto?
Mi sembra che ci siano due tendenze contemporanee in risposta a quest'ultima domanda, non quella che si pone Luiz Philipe de Caux, ma quella che si pone perché, tra tante persone, anch'io possa farla. La prima di queste tendenze trova il suo oggetto nello stesso luogo – in alcuni casi, lo stesso oggetto – lasciato da Marx. Una tradizione di critica, soprattutto di metodo, si delinea dalle tracce che vanno da Adorno a Marx, e da questo a vari marxismi eterodossi, e da queste alle teorie della crisi, e da questa alla teoria del valore, e da lì alle analisi della riproduzione della forma della vita umana di fronte alla logica della decomposizione che segna il nostro momento nella breve, ma infinita esistenza del capitalismo. Un'altra tendenza, molto più incipiente, prende lo stesso oggetto, ma con un altro metodo. Con un occhio al problema del significato della critica negativa immanente, c'è chi vede un metodo materialista che è quello di Marx, ma anche non lo è. Un metodo immanente rivolto a ciò che è residualmente oggetto di possibile critica, un oggetto minimo, quasi indiscernibile nel vortice che prende come punto di arrivo il contemporaneo.
Tale metodo, che de Caux identifica correttamente, è ultimamente il metodo di Adorno, sempre il metodo di Benjamin. Altrove ho caratterizzato questo punto di convergenza tra i primi tratti di Benjamin e la sua fedeltà a se stesso dal punto di vista del problema dell'immersione nell'oggetto. In un libro con così tanti concetti, argomenti ed enigmi, essendo questo uno di quelli in cui Luiz Philipe de Caux concorda con quello che penso, beh, questo è quello che io chiamo un incontro felice.
Introduzione [Luigi Filippo de Caux]
Revisionando, nell'anno della morte di Adorno, una raccolta di articoli di Horkheimer e l'allora nuovo libro di Habermas, conoscenza e interesse, entrambi pubblicati l'anno precedente (quindi un momento notevole per la costituzione retrospettiva della teoria critica di Francoforte come Tradição di pensiero), Rüdiger Bubner ha diagnosticato una sorta di impasse insita nel concetto stesso di teoria critica. Da un lato, è nel suo stesso concetto che non può smettere di essere critico verso se stesso, ha bisogno di includere “l'autocritica della teoria critica”; d'altra parte, è anche per essa una determinazione fondamentale quella di non poter, rivolta solo a se stessa, svuotarsi di contenuto, in un “dogmatismo della critica pura in quanto tale”.
Il gesto critico per eccellenza è quello di rivolgere la teoria verso se stessa, eppure non può, in questo, perdere di vista l'oggetto. Vale la pena dare la parola a Bubner: “L'impulso critico, che conserva in forma modificata l'antica pretesa della filosofia alla vera razionalità e si propone di realizzarla almeno negativamente insieme a tutti i fenomeni ideologici che non corrispondono più a quella pretesa, non può in nessun caso fermarsi davanti a se stesso e ammettere, in aperta eccezione al proprio caso, una riduzione allo stato di innocenza di una mera teoria di una determinata disciplina accanto ad altre; giacché proprio la teoria critica ha per contenuto essenziale la riprovazione, in ogni autocomprensione così isolata e ristretta dalla teoria, di un concetto accorciato di razionalità, e, con ciò, insieme della funzione di occultamento ideologico e di quella di l'ostruzione della libertà umana. Il concetto critico di teoria è in grado di convincere solo se non separa critica e teoria da nessuna parte, anche al suo interno. Perché la solidificazione non è solo tangibile nelle teorie considerate dalla critica dell'ideologia, ma anche l'infinita procedura di riflessione critica in relazione a tali teorie può diventare dogmatica. Il processo di riflessione può diventare autonomo in modo tale che spiegazioni teoriche di questo tipo si spostino ai margini come commenti esterni, mentre c'è una protezione contro le esperienze effettivamente compiute, anche se la teoria critica rivendica proprio la prassi.[I]
Se questo è un rischio insito nella teoria critica, non si tratta, ovviamente, di cercare una sorta di via di mezzo tra la Scilla della mancanza di riflessione (cioè della “teoria tradizionale”) e la Cariddi dell'io autonomo. -riflessione: la teoria critica non vuole essere una teoria riflessiva il mio no troppo. Recuperando in parte la considerazione di Bubner, Marc Sommer propone la seguente determinazione per la teoria critica, in una formulazione tanto semplice quanto corretta: “L'aggettivo rivedere significa, nella teoria critica, l'autoriflessione, la critica che la teoria fa di se stessa.[Ii]
Se l'autoriflessività è costitutiva della teoria critica, non ammette la demarcazione di limiti oltre i quali ogni riflessione è dannoso eccesso. Eppure rischia sempre di confondersi, soprattutto quando diventa una tradizione istituzionalizzata, con un'auto-tematizzazione che dimentica a cosa serve il tematizzato. Questo rischio attraversa, fino ad oggi, la storia della cosiddetta teoria critica della società francofortese, intendendo quel filo di continuità – di qualsiasi natura esso sia – che in qualche modo collega i teorici che lavorano e hanno lavorato con l'Istituto di Ricerca Sociale. Ma anche l'indicazione dell'impasse non è altro che un movimento di autoriflessione della teoria. Può dirsi riuscito se sa distinguere l'autoriflessione che conserva e migliora il rapporto della teoria con il suo contenuto da quella falsa autoriflessione che, in realtà, non è altro che una forma di autoreferenzialità che svuota la teoria .
Che cosa significhi critica, per la teoria critica, autoriflessione della teoria, questo è quanto già indicava Horkheimer con la sua formula che la teoria critica è critica della teoria tradizionale. Ora, ciò di cui Bubner mette in guardia è proprio che, quando il processo di riflessione teorica diventa autonomo, la riflessione si abolisce e quella che era teoria critica diventa una “disciplina specifica accanto ad altre”: una teoria tradizionale. Se ciò accade, continuando a proporsi istituzionalmente come segnaposto della critica filosofica della società, questa teoria diventa, come teoria tradizionale, la teoria privilegiata della critica. Perché allora si tratta di correggere, attraverso la riflessione, l'autonomizzazione della riflessione. La riflessione autonomizzata non è un eccesso di riflessione, ma essa stessa una riflessione interrotta.
Questo libro è dedicato all'esame e alla critica del modo in cui, all'interno della citata tradizione francofortese, viene trattata riflessivamente una specifica determinazione della critica: la sua determinazione come critica immanente. In sostanza, mette a confronto due grandi modelli autoproclamati di critica immanente. All'inizio mi associo alla discussione più contemporanea sulla determinazione della critica basata su tre autori che ritengo rappresentativi di questo scenario. Come Adorno si riferiva a Husserl nel libro a lui dedicato, va detto che confrontarsi con questo gruppo di autori “è l'occasione, non la meta”.[Iii] Le lacune e le contraddizioni di queste teorie per così dire “minori”, che probabilmente tendono a trovare scarso contraccolpo, spiegano qualcosa di questo “destino” della critica.
Il primo capitolo interpreta il contesto di discussione di questi tre filosofi, Celikates, Stahl e Jaeggi, ciascuno autore di un recente libro sulla determinazione della critica, come un punto di esaurimento di un percorso specifico di riflessione autonoma della teoria critica, un punto nel che perde ogni contatto con il contenuto della critica. La sua analisi è quindi l'occasione per proseguire retrospettivamente quel percorso di riflessione autonoma. Seguendo questo filo di cui si scopre l'estremità, esploro nel secondo capitolo come Axel Honneth (di cui si possono considerare epigoni, anche quando lo criticano in misura maggiore o minore), abbia reintrodotto e sintetizzato, in un unico gesto, l'idea che la teoria critica sia una tradizione strutturata come una sequenza di livelli di riflessione su se stessa, da un lato, e, dall'altro, l'affermazione che la critica ha bisogno e può essere immanente al suo oggetto. In un certo senso, dunque, i risultati critici conseguiti nel primo capitolo estendono e condizionano alcune operazioni filosofiche fondanti della nozione honnethiana di critica immanente.
Il primo capitolo avanza un'indicazione che sarà seguita nei successivi. L'analisi delle teorie critiche di questi tre autori scopre in esse una teoria presupposta dell'oggetto della critica. Indicano, quindi, la necessità di un'inversione nel modo di porre la questione: non partire dalla definizione di cosa sia la critica immanente, ma piuttosto di cosa sia l'immanenza della critica. In effetti, questa nuova posizione del problema è come dedotta da quella vecchia. Si mostra come il modo coerente di affrontare ciò che il problema precedente lascia in ombra. Ora, ciò che si mostra nel terzo capitolo è che essa corrisponde al modo in cui Adorno aveva originariamente pensato alla questione – e originariamente anche perché è lui il primo a tematizzare il concetto di critica immanente della società in quanto tale.
Quella filosofia è "il tuo tempo catturato nei pensieri",[Iv] che ha un “nucleo temporale”,[V] questo non significa che la filosofia egemonica di un tempo porti la sua verità. Può giustamente portare la tua falsità. Postulare il contrario significherebbe credere ingenuamente nel suo progresso. “Neppure la filosofia è immune da ricadute – sia per uno scientismo di poche luci, sia per negazione della ragione – in questo tipo di regressione che, senza dubbio, non è migliore della fede nel progresso, maliziosamente deriso”.[Vi]
Cerco di mostrare in questo libro, infatti, che ci sono due grandi concezioni autoproclamate della critica immanente, una positivo (rappresentato nella sua forma più coerente da Honneth) e a negativo (di Adorno), ma anche che quest'ultima, respinta da Honneth proprio come il primo e più elementare “livello di riflessione” della teoria critica, può essere letta piuttosto come una critica immanente della stessa nozione di critica positiva – non come una critica non riflessa teoria, quindi, ma piuttosto come il più alto grado di riflessione.
*Eduardo Soares Neves Silva Professore presso il Dipartimento di Filosofia dell'Università Federale del Minas Gerais (UFMG).
*Luigi Filippo de Caux Professore presso il Dipartimento di Filosofia dell'Università Federale del Rio Grande do Norte (UFRN).
Riferimento
Luigi Filippo de Caux. L'immanenza della critica: i significati della critica nella tradizione francofortese e post-francoforte. San Paolo, Edizioni Loyola, 2021, 480 pagine.
note:
[I] Bubner, Rudiger. Era ist Kritische Theorie? Filosofia Rundschau, 16 (3/4), 1969, pp. 215.
[Ii] Estate, Marc Nicolas. Era ist kritische Theorie? Prolegomena zu einer negativen Dialektik. Zeitschrift per la teoria critica, 21. Jg., H. 40/41, 2015, pag. 171.
[Iii] AG 5, pag. 9/ CMT, pag. 29.
[Iv] HW 7, pag. 26.
[V] DA, pag. 13/DE, pag. 9.
[Vi] AG 10.2, pag. 636/PS, pag. 59.