da MATEUS ARAÚJO*
Lo sforzo di ridefinire i fondamenti della rappresentazione cinematografica del mondo.
Guardando o rivedendo il set dei film di Godard saltano fuori e diventano evidenti la coerenza e l'organicità del suo progetto estetico. La sua traiettoria rivela lo sforzo più tenace, coerente e influente di tutto il cinema moderno per ridefinire i fondamenti della rappresentazione cinematografica del mondo, di cui non abbandona mai l'orizzonte. Un mondo in trasformazione accelerata, che il suo lavoro testimonia e commenta allo stesso tempo.
La ricerca estetica e l'incessante rinnovamento delle forme nel suo cinema hanno sempre cercato di rappresentare questo mondo in modo maggiore e migliore rispetto alla gamma di forme disponibili nel cinema che lo ha preceduto. E hanno cercato di rappresentarlo non come uno specchio mimetico, ma come un magazzino o un «museo del mondo», i cui pezzi raccoglie di film in film, di fronte alla città contemporanea, nel immagini prodotti dalla comunicazione di massa, nei fenomeni storici più drammatici del secolo, nella vita ordinaria sempre più soggetta all'impero delle merci, nelle relazioni e nelle situazioni lavorative osservate da vicino.
Raccogliere pezzi di mondo in questo modo presuppone una scelta strategica degli aspetti da privilegiare nel suo paesaggio visibile (e udibile), ma anche un miglioramento costante dei mezzi espressivi capaci di coglierli e catturarli in modo soddisfacente. Tale miglioramento include un gesto costante di autoriflessione (tematizzazione dell'apparato cinematografico, messa in scena del lavoro del regista, un esercizio di autocritica nella stessa realizzazione dei film) e talvolta mobilita la creazione di un personaggio del cineasta, la cui evoluzione nei suoi film sembra costituire, di per sé, una via di accesso privilegiata al suo modo di concepire la propria funzione sociale.
Oltre ai personaggi moralmente dubbi che assume in alcune parti dei suoi primi film e alle figure del malinconico idiota che rappresenta nei film degli anni '1980, il cineasta appare incarnando la coscienza o la memoria del cinema sui tavoli di montaggio, negli studi pieni di schermi, nella libreria, ecc. E il pensiero del cinema appare in diversi film come una conversazione paritaria tra voci maschili e femminili, o come una conversazione disordinata, senza protocolli stabili (Un film con gli altri, 1968), o anche come monologo malinconico, che dà il tono a gran parte della sua successiva filmografia.
Per riassumere molto, direi che questo sforzo godardiano di reinventare la rappresentazione del mondo nei suoi film ha combinato negli anni, in dosi variabili, due momenti, o movimenti, o dimensioni: una dimensione distruttiva e una costruttiva. Stabilisce una dialettica sui generis tra la decostruzione della rappresentazione del mondo promossa dal cinema narrativo classico (con il suo sistema di generi, le sue convenzioni e i suoi orizzonti di attesa) e la costruzione di una nuova modalità di rappresentazione, in cui la narrazione è sempre più attraversata dal pensiero. La sua decostruzione avviene col mancato rispetto delle convenzioni dei generi cinematografici, con la violenza fatta al decoro, con la frustrazione dell'orizzonte di aspettative previsto dai generi che i film prendono in prestito, mescolano o parassitano.
Il corollario di questa distruzione è l'adozione di una vera strategia ingannevole, che si approfondisce dalle esperienze del gruppo Dziga Vertov, e segna buona parte della successiva filmografia di Godard, sfociando in conflitti, equivoci e rifiuti da parte dei registi di cui ha sovvertito gli ordini. - i casi più recenti sono stati Re Lear (1987), Il rapporto Darty (1989) e il vecchio posto (1998). La sua reinvenzione della rappresentazione del mondo integra il pensiero con la narrazione. Dalla metà degli anni Sessanta, la logica che governa il flusso di immagini e suoni nei suoi film è stata più simile all'argomentazione che alla narrazione, più alla prova e al pensiero che alla narrazione. Vediamo nelle note che seguono come è avvenuta questa costituzione del pensiero nel cinema di Godard, come ha preso forma di argomentazione e quindi di saggio lungo il suo percorso[I].
1.
Tutti ricordano i film narrativi degli anni Sessanta in cui il pensiero si insinuava in parentesi filosofiche che sospendevano l'azione per mostrare protagoniste femminili che dialogano con noti intellettuali, in duo di interlocutori ai quali il cineasta delegava l'esercizio argomentativo. Tali parentesi sono apparse in situazioni mondane di vita comune o ordinaria, in qualsiasi spazio di socialità – caffè, sale da pranzo, cabine ferroviarie –, non necessariamente associate al lavoro intellettuale. E la figurazione del pensiero consisteva nel filmare l'enunciazione, da parte di pensatori socialmente riconosciuti e dei loro interlocutori, di qualche ragionamento intellettuale. Consisteva nel mostrare qualcuno che esprimeva un pensiero davanti alla telecamera. In una parola, quello che vedevamo lì era il pensiero nel film, non ancora il pensiero del film, o il film stesso come atto di pensiero.
No 11o tabelle di vivi la tua vita (1962), Brice Parain stava filosofeggiando per caso con Nana (Anna Karina), che lo aveva avvicinato a un tavolino da caffè, sul linguaggio, il suo rapporto con il pensiero, l'esistenza, la menzogna, l'errore e l'amore. In questo colloquio di pochi minuti, rispondendo alle domande di Nana, il pensatore invoca successivamente Platone, la filosofia francese del Seicento (Forse Cartesio?), Kant, Hegel e Leibniz, per sostenere che pensare e parlare sono indistinguibili, che pensare richiede un certo ascetismo, certa rinuncia alla vita comune per ritornarvi più profondamente, che l'errore e la menzogna appartengono alla ricerca della verità, ecc. [Fig. 1]. Il riferimento di Parain a questa serie di filosofi canonici è preceduto dall'invocazione iniziale di un passaggio del romanzo Vingt ans après (1845) di Alexandre Dumas[Ii], anticipando un gesto che riapparirà in altri momenti del cinema di Godard: il suo rifiuto di porre la filosofia su un piano più alto della letteratura, come se il pensiero letterario avesse meno dignità del pensiero filosofico.

In una scena a cena con gli amici Una femme mariée (1964, 36'20” - 38'40”), annunciato dal manifesto «L'Intelligence», l'intellettuale e critico cinematografico Roger Leenhardt evoca una vecchia citazione di un amico filosofo[Iii] per definire la sua concezione dell'intelligenza [Fig. due]. Prima di riferirsi a un verso di Apollinaire che la sua interlocutrice Charlotte gli ha fatto pensare, Leenhardt discute l'intelligenza in un campo strettamente intellettuale, tipico della teoria della conoscenza: «L'intelligence, c'est comprendre avant d'affermer. C'est, dans une idée, de chercher à aller plus loin... de chercher lalimit, de chercher son contraire... Di conseguenza, c'est de comprendre les autres, et, entre soi et autrui, entre le 'pour' et le ' contre', da trouver petit à petit un petit chemin»[Iv].
In una lunga scena verso la fine di La cinese (1967), l'intellettuale anticolonialista e militante Francis Jeanson dialoga in treno con Véronique (Anne Wiazemsky) e, tra riferimenti al teatro e all'azione culturale che intendeva sviluppare, mobilita questioni care alla filosofia politica (come la problema della legittimità della rappresentanza nelle azioni politiche) quando si opponeva alla posizione volontaristica e terroristica del giovane amico, che intendeva far esplodere bombe nell'università per forzarne la chiusura. I due interlocutori appaiono sullo stesso piano quando discutono di politica [Fig. 3].
Se negli esempi visti finora il pensiero sembrava delegato ad alcuni personaggi e limitato ad alcune parentesi di film narrativi[V], inizia a invadere la narrazione con la voce del regista stesso in diversi momenti di Deux ou trois chooses que je sais d'elle (1967) per conquistare da allora il primato in diversi suoi film, in un'inflessione saggistica che segnerà sempre più il suo lavoro. Tra le altre sequenze di Deux ou trois chooses notabili in proposito, ne ricordo solo uno, ambientato ancora una volta in un caffè (26'10” – 30'44”), che permette un rivelatore parallelo con il già citato di Vivre sa ven.
Proprio come Nana nel film del 1962, la protagonista Juliette (Marina Vlady) a un certo punto si reca in un caffè, dove si svolge la nuova scena, questa volta con personaggi più numerosi e un decoupage più complesso, che evidenzia un cambiamento nel messa in scena Godardiano del pensiero. Invece che delegata ai personaggi che vi compaiono, questa è innescata dal regista stesso, il cui monologo sussurrato irrompe in 6 momenti della scena, alternandosi ai suoni ambientali del caffè (voci, tintinnio di bicchieri, distributore di birra alla spina, rumori della arcade nel bar o di macchine per strada, ecc.) per un lavoro di mix molto creativo.
Nel suo monologo, Godard si interroga sulla verità, sulla natura dell'oggetto (che permette la comunicazione tra soggetti e quindi la vita sociale), le relazioni sociali tra individui, il mondo attuale con i suoi progressi e le sue impasse, i rapporti tra linguaggio, coscienza e mondo. In questo susseguirsi di domande, il suo ragionamento ricorre ancora, senza gerarchizzarle, a formulazioni letterarie e filosofiche, richiamando tra l'altro il Baudelaire del poema «Au lecteur» (nella formula «mon semblable, mon frère», ripetuto 3 volte), il sartre de L'être et le néant (di cui mobilita il lessico quando parla di colpevolezza, essere e nulla) e il Wittgenstein di Tractatus logico-philosophicus (nella proposizione che «leslimites de mon langage sont celles de mon monde»)[Vi].
L'articolazione tra le parole pronunciate dal regista e gli altri elementi visivi e sonori della scena addensa la costruzione del pensiero, che non si limita più al suo substrato discorsivo verbale, e integra una dimensione propriamente audiovisiva, come avverrà in buona parte dei successivi saggi cinematografici di Godard. Durante il monologo, il passaggio da un argomento all'altro è interamente mediato dalle inquadrature della tazzina da caffè, oggetto che permette il passaggio da un soggetto all'altro nel decoupage della scena [Fig. 4 a 6], e che poi sembra riferirsi al rapporto del soggetto con il mondo in discussione [Fig. 7], assumendo l'aspetto cosmico di una galassia verso la fine della scena, quando le bolle d'aria si raggruppano e formano dei disegni al suo interno [Fig. 8 e 9].



Assunto dal regista, e diffuso in vari momenti di Deux ou trois chooses, il suo primo film marcatamente saggistico, da allora in poi il pensiero prende il sopravvento sulla narrazione in molti altri, in cui tende a migrare, per così dire, dalla sfera del mondo rappresentato verso uno spazio altro, proprio dell'autore che vi si avvicina, un spazio simbolico e circoscritto in cui esercita il suo lavoro di interrogare e apprendere il mondo. Questo comincia ad apparire già nel segmento Camera-Oeil, il suo contributo al film collettivo Loin du Vietnam (1967), in cui riflette dietro una telecamera posta sul terrazzo del suo appartamento parigino sul suo rapporto con il Vietnam, alla luce del rifiuto del vietcong nell'accettare la vostra visita di solidarietà. Lo spazio proprio della sua attività di cineasta, qui rappresentato dal maneggiare la macchina da presa, appare subito, proprio all'inizio del segmento [Fig. 10-12].

Poi, Godard costruisce nel suo monologo politico un pensiero che questa volta non si limita a coesistere con una scena preesistente, come accadde in Deux ou trois chooses. Ora, è proprio il suo ragionamento che fa scattare il flusso di immagini e suoni nel film, con cui finisce per confondersi. Dopo aver descritto le riprese che farebbe se fosse un cameraman televisivo, Godard racconta di non essere stato autorizzato da Hanoi a girare nel Paese, e cerca di estrarre le conseguenze di questo veto: parlando del Vietnam nei suoi film, riflettendo su come tradurre la sua solidarietà con i vietnamiti del nord.
Cercando una tale traduzione, si rende conto che invece di invadere nuovamente il Vietnam con una presunta generosità, la cosa migliore è lasciarsi invadere da esso, e trovare altrove il correlato della lotta per il Vietnam, per «creare due, tre , molti Vietnam», come diceva Che Guevara, o «creare un Vietnam dentro di noi», secondo la sua stessa formulazione. In Guinea, questo sarebbe stato fatto contro l'occupante portoghese. A Chicago, per i neri. In Sud America, per l'America Latina e contro i neocolonialismi che la attaccano. In Francia, dai lavoratori della Rhodiaceta, per rafforzare i rapporti tra le lotte dei cineasti e quelle operaie in genere, che tendono ad essere molto slegate tra loro, a scapito di entrambi.
Se non c'è una situazione rivoluzionaria in Francia, il compito sarebbe quello di far eco al grido di coloro che la stanno vivendo davvero, tra cui il Vietnam è il più grande simbolo di resistenza. Questo ragionamento estremamente lucido fa scattare immagini e suoni del Vietnam [Fig. 13 e 16], da altri popoli [Fig. 14], di operai francesi [Fig. 15], delle operazioni militari americane, ecc., in un flusso non più distinguibile dal pensiero enunciato dal regista. Siamo passati così da un pensiero no film per un pensiero vero do film.

Questa particolare sfera di pensiero nel film riappare in Le Gai Savoir, in cui i personaggi di Jean-Pierre Léaud e Juliet Berto occupano lo spazio molto emblematico degli studi vuoti dell'ORTF (il cuore della televisione francese) durante i turni di notte. Lì, esaminano e discutono immagini e suoni dell'attuale realtà francese che si sono proposti di raccogliere, la voce sussurrata del regista interagisce con loro per formare un trio di analisti in azione. Alla fine di questo vero e proprio esercizio di epistemologia mediale, Godard conclude sussurrando che «ce film n'a pas voulu, ne peut pas vouloir explicar le cinéma ni même constituer son objet, mais, plus modestement, donner quelques moyens eficaces d'y parvenire. Ce film n'est pas le film qu'il faut faire, mais si l'on a un film à faire, il passe nécessairement par quelques-uns des chemins parcourus ici».
Questo gesto di autocritica diventa una delle operazioni argomentative più salienti di certi film di Godard del decennio 1968-78, in cui la sfera propria del pensiero si installa, se non visivamente nell'immagine, almeno nella costruzione. Dopo Gai Savor, l'autocritica diventa un principio di composizione di molti di loro, Pravda (1969) a Francia Tour Détour: deux enfants (1978), in corso Vent d'Est (1969), Lutte in Italia (1970), Tutto bene (1972) e Numero Deux (1975). Con varianti che qui non entrano nei dettagli, alcuni di questi film sono organizzati non dall'avanzata di un intrigo, ma da giri di discussioni, un blocco che assolve il compito di criticare un altro che lo ha preceduto.
È quello che fai Pravda nel suo approccio, diviso in 4 parti, della realtà sociale di Praga nel 1969. Ognuna delle ultime tre parti si occupa di criticare e rettificare ciò che la parte precedente è riuscita a costruire, perfezionando i metodi di costruzione delle immagini e dei suoni. Alla fine della prima parte (8'-10'), ad esempio, i presentatori affermano che il film si era limitato a mostrare impressioni di viaggio, ricordi della concreta realtà ceca, a un livello di informazione insufficiente. Bisognerebbe andare oltre la conoscenza sensibile per accedere alla conoscenza razionale di quella realtà, per passare dal sentire al conoscere. Nella seconda parte, poi, bisognerebbe iniziare il montaggio del film e smontare le contraddizioni del revisionismo: organizzare le immagini ei suoni in modo diverso, per ottenere un'analisi concreta della situazione concreta in Cecoslovacchia.
È quello che fai anche tu Vent d'Est, con una struttura bipartita, una voce femminile che critica severamente nella seconda parte (49′-59′) le insufficienze del falso metodo di approccio alle lotte sociali utilizzato nella prima (slegato dalle masse, basato su slogan e manifesto stile, estranea alle vere lotte, carente di ricerca, tributaria della sociologia borghese e del vero cinema, affine alla televisione borghese e ai suoi alleati revisionisti) e formulando il compito del cinema materialista come lotta contro il concetto borghese di rappresentazione, dopo aver messo in scena un fallito tentativo di dialogo con il cinema rivoluzionario del Terzo Mondo, di cui Glauber Rocha appariva come emblema[Vii].
È ciò che fa ancora, all'altro capo di questo gruppo di opere, ogni episodio della serie Francia Giro Détour, suddiviso in un blocco principale in cui i cineasti dialogano con la coppia di bambini protagonisti, e un epilogo in cui un'altra coppia, nel ruolo di giornalisti, critica il primo blocco, prevede miglioramenti, propone altri metodi di approccio ai temi in questione.
Questi e alcuni altri film saggistici (Lettera a Jane, 1972, Ghiaccio e altri, 1974, I bambini giocano alla Russie, 1993 ecc.) portano lontano, nella loro specifica agenzia di immagini e suoni, un vigoroso esercizio di pensiero audiovisivo di Godard e dei suoi collaboratori. Possono assumere la forma di generi discorsivi molto diversi, come la lettera, lo schizzo, l'autoritratto, l'evocazione, l'elegia, ma tutti tendono a minimizzare o ad abbandonare una volta per tutte la trama e i personaggi per organizzarsi come un flusso pieno di pensiero, un'argomentazione o, forse più precisamente, una riflessione attraverso immagini e suoni[Viii].
Molti di loro portano anche una rappresentazione sensibile, una sorta di scenografia di queste operazioni di pensiero audiovisivo. Gli esempi sono molti, e mostrano il pensiero del regista in azione, nelle sale di montaggio, nei film, nei monitor video, nei dispositivi di missaggio, ecc. Ciò si verifica, tra l'altro, in Numero Deux [Fico. 17-18], Cambia immagine (1982) [fig. 19], Testi di Freddy Buache (1982) [fig. 20-21], Sceneggiatura del film Passion (1982) [fig. 22-24], Petites note a proposito del film 'Je vous salue, Marie' (1985) [fig. 25].



La vena saggistica del cinema di Godard, in cui l'esercizio e la rappresentazione del pensiero acquistano il primato sulla narrazione, continua a manifestarsi nei suoi ultimi film, come nel notevole JLG/JLG – Autoritratto di dicembre (1994) e in una serie di brevi e fittissimi saggi che seguirono il Storia/e del cinema (1988-98), come Il Vecchio Posto (1998), Da l'origine du XXIe siècle (2000), Dans le noir du temps (2002) e Libertà e patria (2002). Di quest'ultimo, alcuni addirittura tematizzano il pensiero anticipandone la scomparsa, riferendosi alla polisemia del verbo pensare, riprendendone una delle sue figure filosofiche più emblematiche, ecc.
Il Vecchio Posto si presenta dapprima come saggio, nella scheda «An Anne Marie Miéville Jean Luc Godard Essay», e si definisce poco dopo nelle due schede «vingt-trois exercices / de pensée artistique», per poi riflettere, molto più tardi, su l'azione del «pensatore avec les mains» (30′). Dans le noir du temps lega dieci blocchi sugli ultimi dieci minuti di una serie di cose, la terza delle quali si concentra su «Les dix dernières minutes de la pensée» (2'47”- 4'03”) e riprende in ancora, sulle immagini di persone che gettano libri nella spazzatura, un commento su Penso Cartesiano: «Dans le 'je think, donc je suis', le 'Je' du 'Je suis' n'est plus le même que le 'Je' du 'Je pense'. Libertà e patria ricorda, già nel 20″, che «du mot pensée il n'y a pas à attendre qu'il soit employee de manière homogène, plutôt le contraire».
Un po' prima, JLG/JLG ha consacrato la scenografia cinematografica del pensiero, sulla scia di alcuni dei film precedenti qui già citati, in scene del cineasta alle prese con schermi, cineprese o operazioni di montaggio manuale [Fig. 26-27]. Ma questa scenografia coesisteva con un'altra, più vicina a un modello di pensiero letterario. Infatti il messa in scena più nitida ed enfatica nel film dell'opera del pensiero di Godard, in un passaggio in cui lo vediamo elaborare un ragionamento con andirivieni, esitazioni e correzioni (6'45”–10'45”), lo mostra nella posizione di un scrittore, seduto alla scrivania con carta e matita in mano [Fig. 28], ricorrendo a un libro di Aragon per concludere con una poesia di Il rubacuori i suoi ragionamenti seri e malinconici sulla cultura e l'arte, la regola e l'eccezione.

Secondo tale ragionamento, c'è la cultura, che appartiene alla regola, e c'è l'arte, che appartiene all'eccezione. Tutti dicono la regola: sigarette, computer, magliette, televisione, turismo, guerra. E nessuno dice l'eccezione. Questo non si dice, si scrive (Puchkin, Flaubert, Dostoevskij), si compone (Gershwin, Mozart), si dipinge (Cézanne, Vermeer), si filma (Antonioni, Vigo), si vive, e poi diventa l'arte di vivere (Srebrenica, Mostar, Sarajevo). È regola volere la morte dell'eccezione, ed è quindi regola nell'Europa della cultura organizzare la morte dell'arte di vivere che ancora fioriva sotto i nostri piedi. In una formula leggermente diversa, questo argomento era già apparso un anno prima in un brillante film di due minuti, Ti saluto, Sarajevo (1993), affermato in ancora, risolutamente, dalla sua voce roca e cavernosa, sopra il filmato di una foto di Ron Haviv della Guerra dei Balcani che mostra tre soldati in piedi accanto a tre vittime civili che giacciono a terra, presumibilmente abbattute da loro.
Tornando ora a una variante dello stesso testo, Godard ha letteralmente promosso a messa in scena dell'elaborazione del suo pensiero, che si era già costituito altrove – ma decise di farlo come scrittore. Nessuna attrezzatura cinematografica, nessuna delle immagini tecniche che hanno dato il tono alla maggior parte dei suoi film precedenti, e nemmeno altre scene in questo autoritratto. UN messa in scena del pensatore come regista convive così con quello del pensatore come scrittore, che sembra privilegiato nel momento più limpido di presentazione della sua opera di pensiero.
In un curioso paradosso, tale convivialità e tale privilegio sono ancora più evidenti nell'opera di Godard, in cui l'esercizio cinematografico del pensiero raggiunge il suo massimo grado di elaborazione e complessità: la monumentale serie di Storia/e del cinema (1988-98), culmine del suo saggismo filmico. Lì, un piano inscrive la parola 'pensiero' sull'immagine di Godard con apparecchiature video sullo sfondo [Fig. 29], la scheda «Cogito ergo video» [Fig. 30] propone una variante del Penso cartesiano associato all'operazione del vedere (che diversi suoi film hanno difeso a scapito delle operazioni di lettura o scrittura, più direttamente associate alla scrittura) e alcune inquadrature disseminate nella serie continuano a portare immagini di film e film [Fig. 31-32].

Tuttavia, proprio nel momento in cui l'intero film si costituisce come un flusso di pensiero, e di massima densità, il messa in scena della sua elaborazione propende nettamente verso la caratterizzazione di Godard come uomo di lettere, insistendo nel mostrarlo nello spazio della sua biblioteca, consultando e sfogliando libri o percuotendo la macchina da scrivere. In quasi tutti gli otto episodi, con rare eccezioni, lo spazio che predomina quando il regista appare di persona non è il montaggio o la sala di montaggio, ma la biblioteca [Fig. 33 a 36]. A volte l'immagine della biblioteca si sovrappone addirittura come un fantasma al volto del regista o ai film suoi e altrui [Fig. 35-36]. E a rafforzare questa tendenza, l'ultimo episodio riesce a incorporare, al suono di un monologo imprecante di Artaud, quella già citata inquadratura di JLG/JLG in cui Godard mette in scena la sua opera di pensiero non sulla macchina da presa, sul tavolo di montaggio o sulla moviola , ma seduto alla scrivania con carta e matita [Fig. 28]. Riprendere questo progetto sembra un modo per duplicare il privilegio concesso nel film del 1994 all'autoritratto dell'artista come letterato.

Il privilegio scenografico della biblioteca rispetto al montaggio o alla sala di montaggio trova rinforzo e conferma nell'assimilazione di Godard a Borges, suggellata alla fine della serie, nel minuto finale del suo episodio 4-b. Chiudendo l'invocazione di un gruppo di scrittori (Arthur Rimbaud, Georges Bataille, Maurice Blanchot, Emily Dickinson), Godard racconta in questo finale di 35 secondi (36'06'-36'40') il brano di Coleridge citato da Borges nel suo saggio «Il fiore di Coleridge» incluso in Altre Inquisizioni (1952). Il blocco inizia con l'immagine di un fiore giallo, su cui è incisa l'espressione “Usine de rêves” [Fig. 37], che definiva il cinema, in modo tale da sovrapporre in una stessa immagine gli universi della letteratura e del cinema. Subito dopo compare la carta «Jorge Luis Borges» [Fig. 38], esplicitando il riferimento al suo testo, e poco dopo un ritratto di Godard con occhiali scuri, che ammicca alternato al fiore [Fig. 39] e finisce per succedergli [Fig. 40], in evidente parallelismo con quanto avvenuto pochi secondi prima con il nome dello scrittore argentino.

Lo schema fiore/Borges/flor/Godard suggella così l'assimilazione dei due artisti, così come la sovrapposizione fiore/«Usine de rêves» aveva già assimilato le due arti. Tra la prima immagine del fiore e l'immagine finale che sovrappone il ritratto del regista a un dipinto che mostrava un pittore che camminava da solo in un paesaggio (paradiso?), dice Godard in ancora nella sua lingua il testo che Borges attribuisce a Coleridge: «si un homme, si un homme, si un homme traversait le paradis en songe, qu'il reçut une fleur comme preuve de son passage et qu'à son réveil il trouvât cette fleur dans ses mains, que dire alors?»[Ix]. Completando però, in conclusione, la formulazione di Borges, chiude l'episodio e l'intera serie con le parole "J'étais cet homme", come ad attribuire in definitiva il tuo personaggio la funzione di custode della memoria del sogno edenico (o della fabbrica dei sogni) del cinema, così come Borges sembra aver attribuito alla sua la funzione di custode della memoria di tutta la letteratura.
2.
Se prendiamo la serie di Storia(i) come culmine di questo percorso che ho qui descritto in modo molto succinto, anche se non costituisce ad oggi l'ultimo lavoro ed è stato seguito da diversi altri film di grande densità artistica, è significativo che si concluda con l'assimilazione del cinematografo di Godard pensiero alla de Borges, rappresentante di un pensiero letterario che, in lei, convive con quello di filosofi, storici ecc. vivi la tua vita (1962). Nell'itinerario di Godard, il cinema sarebbe diventato così sempre più chiaramente un dispositivo del pensiero, assimilabile però ad altri nella comune lotta alla decifrazione del mondo in cui ci è dato di vivere.
*Matteo Araújo Professore di Teoria e Storia del Cinema presso ECA-USP. Tra gli altri, ha curato (con Eugenio Puppo) il volume collettivo Godard intero o il mondo a pezzi (San Paolo: CCBB / Heco Produções, 2015).
Pubblicato in un dossier speciale su Godard dalla rivista elettronica internazionale La furia umana (n.33, 2018), con testi di Raymond Bellour, Jacques Aumont, Michael Witt, Murray Pomerance e David Oubiña, tra molti altri. Cfr. il link http://www.lafuriaumana.it/index.php/66-archive/lfu-33/768-a-mise-en-scene-do-pensamento-em-godar
note:
[I] Prenderemo qui il pensiero in senso forte, di apprensione e conoscenza del mondo, non in senso banale, di ciò che semplicemente passa per la testa come contenuto mentale.
[Ii] Scelto non dal filosofo, ma dallo stesso Godard, secondo Alain Bergala, Godard au travail – Les années 60 (Cahiers du Cinéma, Parigi 2006, p.113-5).
[Iii] Che deduciamo essere Emmanuel Mounier (1902-50), fondatore della rivista cattolica di sinistra Esprit, e importante influenza intellettuale sia per Leenhardt che per André Bazin
[Iv] Cfr. la trascrizione del brano nel decoupage di Une Femme Marie em L'Avant Scene, n.46, marzo 1965, p.17.
[V] Con differenze di grado, Il cinese mi sembra un po' meno narrativo dei due precedenti.
[Vi] Si vedano, rispettivamente, Charles Baudelaire, Les Fleurs du malin Opere complete, Robert LafFond, Parigi 1980, p.3-4; Jean Paul Sartre, L'être et le néant, Gallimard, Parigi 1943; Ludovico Wittgenstein, Tractatus logico-filosofico, prop. 5.6, trad. Pierre Klossowski, Gallimard, Parigi 1961, p.141.
[Vii]Per una discussione dettagliata della scena con Glauber Rocha come tale tentativo, vedere i miei saggi "Godard, Glauber e il vento dell'est: allegoria di un (dis)incontro” (divenire, UFMG, vol. 4, n. 1, gen/giu 2007, p.36-63) e “Jean-Luc Godard e Glauber Rocha: un dialogo a metà strada”, in Eugênio Puppo e Mateus Araújo (Org.), Godard intero o il mondo a pezzi. San Paolo, CCBB / Heco Produções, 2015, p. 29-44.
[Viii] In diverse angolazioni e periodizzazioni, preoccupato soprattutto del posto e dello statuto del video nell'itinerario di Godard, Philippe Dubois ha affrontato questa dimensione del lavoro del regista in un testo fecondo, "Les esseis vidéo de Jean-Luc Godard: la vidéo pense ce que le cinema cree" (in La questione video, tra cinema e arte contemporanea, Giallo Ora 2011, p.243-260).
[Ix] Il testo di Borges diceva: «Se un uomo attraversa in sogno il Paradiso, e fa morire un fiore come prova che c'era stato, e se si sveglia si troverà quel fiore in mano... e allora?» (Opere complete II, Emecé, Barcelona 1989, p.19), il testo originale di Coleridge recitava «Se un uomo potesse passare attraverso il Paradiso in sogno, e vedersi presentare un fiore come pegno che la sua anima era stata davvero lì, e se avesse trovato quel fiore in questa mano quando si svegliò - Sì! e cosa poi? (Anima Poetae dai taccuini inediti di Samuel Taylor Coleridge, 1895).