La mistica del colpo di stato

Immagine: Quentin Chansaulme
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da RICARDO EVANDRO S. MARTINS*

È necessario pensare a una diversa concezione del diritto e della giustizia, che rompa con la tradizione golpista che ha costituito la storia repubblicana brasiliana

Walter Benjamin e Carl Schmitt

In uno dei volumi del suo progetto investigativo che compirà 30 anni, precisamente nel volume sulla sospensione del diritto, il Iustitium: stato d'eccezione (2003), il filosofo italiano Giorgio Agamben difende una tesi paradigmatica: che il famoso libro Teologia politica (1922), del giurista tedesco Carl Schmitt, fu una risposta all'altrettanto famoso saggio Per una critica della violenza (1921), del filosofo ebreo tedesco Walter Benjamin.

Secondo Giorgio Agamben, la risposta di Schmitt a Benjamin fu un tentativo di portare nel campo della teoria giuridica, del mondo giuridico e delle sue norme, l'idea benjaminiana della possibilità che esista una violenza pura, svincolata dal diritto, una violenza irruttiva, che genererebbe anomia e che sarebbe capace di demolire l’ordinamento giuridico costituito.

Nel testo di Walter Benjamin si distingue tra la violenza che depone la legge e la violenza che la mantiene. La violenza che depone è, secondo il filosofo ebreo tedesco, pura, senza linguaggio, senza norme. È violenza anomica, come può essere, ad esempio, l’azione rivoluzionaria. E, per questo motivo, secondo l'interpretazione di Giorgio Agamben, tale violenza può essere confusa con un altro atto: il colpo di stato.

È interessante notare come possa esserci un’apparente ambiguità tra queste due situazioni di fatto: rivoluzione e colpo di stato. Questi due eventi politici possono sembrare simili a causa delle loro caratteristiche non legali e presumibilmente dirompenti della struttura legale. In teoria, colpo di stato e rivoluzione sarebbero atti del mondo dei fatti, che però violano i limiti del mondo normativo del diritto, delle norme giuridiche costituite. E, forse, non a caso, la suddetta apparente somiglianza tra la violenza di questi atti ha sostenuto l’ideologia propagandistica dell’ultima dittatura civile-militare brasiliana, quando chiamò il colpo di stato del 1964 la “Rivoluzione del 1964”.

Questo tema non è semplice, soprattutto quando rivisitiamo il saggio di Walter Benjamin, Per una critica della violenza (1921). Perché da questo testo benjaminiano è possibile trovare le differenze che occorre fare tra “colpo di stato” e “rivoluzione”. Per Walter Benjamin si distinguono tre tipi di potere: (i) il potere capace di “costituire” un ordinamento giuridico (potere costituente), quello che valida una Costituzione nazionale; (ii) il potere capace di “mantenere” tale ordinamento giuridico (potere costituito), quello che riforma le leggi all'interno di un ordinamento costituzionale; e (iii) il potere capace di “deporre” l'ordine costituito, potere che per Benjamin, in una possibile lettura del suo testo, potrebbe essere l'atto rivoluzionario stesso.

Nella rivoluzione la violenza è pura, detta anche “violenza divina”. Si tratta di una forza senza linguaggio, senza intermediazioni normative, e che farebbe un'irruzione radicale nel tempo e nello stato delle cose, opponendosi alla “violenza mitica”, tipica del potere costituito, responsabile del mantenimento dell'ordine giuridico costituito. Almeno come cerca di dimostrare Agamben, fu a causa di queste differenze apportate da Walter Benjamin che Carl Schmitt pubblicò il suo Teologia politica (1922).

Secondo il filosofo italiano, Carl Schmitt era preoccupato da questa violenza pura, “divina”, perché non sarebbe traducibile nel linguaggio giuridico e nemmeno in alcun linguaggio umano. Schmitt cercò allora di inserire nel lessico del linguaggio giuridico un tema così dirompente come l’atto rivoluzionario. Ma l'obiettivo di Carl Schmitt non era semplicemente quello di ridurre le possibilità di pensare i poteri fondativi del diritto alla dualità potere costituente/potere costituito – cioè tra la costituzione di un ordine normativo e la sua capacità autoriformativa da parte del potere legislativo .

Schmitt non poteva accettare un tipo di potere che rompesse questa dualità. Schmitt aveva, contro Benjamin, una teoria reazionaria e antirivoluzionaria. Egli voleva portare la forza della violenza rivoluzionaria nel linguaggio giuridico comune, ma per farne un’altra cosa: lo stato di eccezione, che non “deporrà” la legge, il suo ordinamento giuridico costituito, ma lo “sospenderà”, al fine di garantire un certo ordine sociale – o, come nel caso della dittatura civile-militare brasiliana del 1964, garantire la “sicurezza nazionale” – e il ripristino della sua applicabilità.

Contro Benjamin Schmitt non avrebbe mai potuto accettare la difesa di un atto politico-fattuale che apparisse troppo irrazionale per la logica umana, per il linguaggio della teoria giuridica. Come sostiene Agamben, l'obiettivo di Schmitt era quello di teorizzare la possibilità di un potere, né costituente né costituito, né di deposizione, come farebbe un atto rivoluzionario, ma un potere di sospensione della legge, che creerebbe un'eccezione statale alle leggi regolari. legge. Schmitt si preoccupava di teorizzare un potere capace di sospendere l’ordine giuridico costituito con la sua “violenza sovrana”. La violenza che, è bene ricordarlo, rivela il sovrano: colui che è capace, secondo la famosa frase di Schmitt in Teologia politica (1922), per decidere sullo stato di eccezione. 

Sulla base di Agamben, possiamo dire, quindi, che Schmitt ha compiuto questo sforzo teorico con un obiettivo: neutralizzare la violenza rivoluzionaria o la violenza di quella che è considerata una crisi politica o istituzionale, inserendo una situazione di fatto nella situazione di diritto. Con ciò, Schmitt teorizza il seguente ragionamento: il decreto dello stato di eccezione coglie l’imminente “pericolo” del disordine sociale dei movimenti rivoluzionari, o, in alternativa, di un eventuale disordine pubblico causato da calamità o crisi istituzionale – o almeno cosa si propaga come “pericolo imminente”, “reale” o meno –, attraverso una norma prevista dalla stessa Costituzione, con potere di sospensione dell'ordinamento stesso. E lo scopo di ciò è giustificato – con intenzioni autentiche o meno – per ristabilire un tale ordine sociale, per riorganizzare, in teoria, la pace sociale nel mondo dei fatti politici, in modo che, in questo modo, l’ordine giuridico possa ritornare dalla sua sospensione e riprendono la normale validità.

In questo testo non riesco a sviluppare meglio la necessaria distinzione tra la violenza rivoluzionaria, che depone, e la violenza dello stato di eccezione, che sospende la legge, cioè non riesco a sviluppare ulteriormente la differenza tra rivoluzione e colpo di stato. Ma, per ora, posso dire che forse lo stato di eccezione è un quarto tipo di potere o almeno un altro artificio del potere costituito, nel tentativo ostinato di mantenere l’ordinamento giuridico, anche se solo attraverso la sua paradossale sospensione.

Lo stato di eccezione è in questo senso “strano” come lo è l’atto rivoluzionario, ma non perché la sua violenza sia priva di linguaggio, ma perché la sua violenza fa qualcosa di paradossale e di borderline politicamente e linguisticamente. Lo stato di eccezione dichiarato da un colpo di stato crea la situazione paradossale di fare di questa eccezione la regola stessa (Benjamin), generando effetti permanenti, anche se l'ordine sociale è stato normalizzato, anche se il “pericolo imminente” è una frode creata dalla propaganda di estrema destra – come la classica minaccia del “fantasma del comunismo”.

Forse è più interessante rispondere alle domande riguardanti natura, fondamento e modalità di funzionamento del linguaggio che ha il potere, come un “miracolo” (Kierkeergard), di superare la normalità delle regole che regolano gli organismi politici. In Brasile, viste le ultime notizie sull'incriminazione di militari, agenti di polizia civile, politici e perfino dell'ex presidente della Repubblica Jair Bolsonaro, con l'accusa di tentato colpo di stato – fatti preceduti dal caso del cosiddetto “ bozza del colpo di stato” , rinvenuta nell'abitazione dell'ex ministro della Giustizia Anderson Torres – mi chiedo allora: quale miracolo, quale magia nascosta opererebbe in questo intervento giuridico di fatto e apparente sull'ordinamento giuridico da parte dello Stato di eccezione? Che esperienza è questa con il potere e la sua violenza, capace di sconvolgere l’ordine costituito? Di quale potere “mistico” è questo, capace, attraverso un atto violento di “colpo di stato civile-militare”, di sospendere la costituzionalità democratica, e tuttavia presentarsi come valido, influenzando il mondo concreto attraverso una forma giuridica pretenziosamente legittima? Qual è, infine, questa forza che attraversa il linguaggio, incide sulla politica e sulla nostra vita di fronte alla Legge?

La mistica della truffa

Il tema dello stato di eccezione introduce nella discussione politica un lessico teologico: violenza divina, violenza mitica e miracolo. E se non bastasse il paradosso insito nell'idea del potere di sospendere il proprio diritto tramite decreto, lo stato di eccezione porta con sé, al suo interno, tanti altri concetti antitetici, paradossali, borderline, che sfidano la logica, il discorso, le procedure, la nostra lingua ordinaria.

Tutto lo sforzo neokantiano di Hans Kelsen, con il suo Teoria pura del diritto (1934), di sviluppare una scienza giuridica, che presuppone la divisione invalicabile tra, da un lato, il mondo dei fatti, dell'essere, delle cose, della politica, della storia, e, dall'altro, il mondo del diritto , delle norme giuridiche, dei valori, del dovrebbe-essere, della normatività, finisce per essere messo in discussione dall'idea di un dispositivo giuridico che mira proprio a regolare lo stato di necessità della realtà sociale e politica, vale a dire: lo stato di eccezione.

Già molto prima di Kelsen, sant'Agostino aveva messo in guardia sui problemi legati alla tensione tra il mondo dei fatti e quello del diritto attraverso la massima che “non si legifera sulla necessità”. In altre parole, il Dottore della Chiesa aveva messo in guardia dal fatto che lo stato di necessità non si adatta all’applicazione di una norma giuridica, poiché le calamità – come la povertà, lo stato di pericolo o, anche, il pericolo contro la collettività ordine, come la minaccia rivoluzionaria, ecc. – fa un'eccezione alle regole. Agostino si chiedeva, infine, come esista un abisso logico tra lo stato delle cose nel mondo dei fatti e il linguaggio legislativo, normativo.

E proprio per cercare di far fronte a questo abisso che Schmitt teorizzò l’“eccezione sovrana”, concretizzatasi nella decisione di istituire per via costituzionale uno stato di eccezione – sia esso mediante lo “stato d’assedio” o lo “stato di difesa”, come previsto dall’art. termini utilizzati nella Costituzione brasiliana del 1988. Basta ricordare il passaggio in Teologia politica (1922) di Carl Schmitt, in cui uno degli obiettivi della decisione sullo stato di eccezione è quello di creare una situazione di fatto, in cui le norme giuridiche possano essere nuovamente applicate, cioè diventino nuovamente efficaci, quando una situazione in cui l'attuale l’ordine giuridico è messo a rischio.

E, in questo stesso tentativo di affrontare l’abisso tra il mondo del diritto e il mondo cosiddetto reale, dei fatti, si può riscontrare un altro paradosso dello stato di eccezione. È così che lo stato di eccezione sospende le norme giuridiche e la loro regolare applicabilità, per cercare, allo stesso tempo, di raggiungere la loro applicabilità nel cosiddetto mondo “reale” dei fatti. Si produce, con ciò, una zona di indistinzione tra ordinamento giuridico e anomia – assenza di norme –, per cui, contraddittoriamente, questa stessa anomia può essere colta dalla normalizzazione dello stato di eccezione e, una volta che l'ordine reale Se viene ristabilito, “pace sociale” o “sicurezza nazionale”, il normale ordinamento giuridico potrebbe, in teoria, ritornare. Questo è ciò che Agamben, nel suo Iustitium: stato di eccezione (2003), afferma: “Lo stato di eccezione separa quindi la norma dalla sua applicazione per renderne possibile l'applicazione. Introduce nella legge una zona di anomia per rendere possibile l’effettiva normalizzazione della realtà”. 

Ma c’è un’altra dimensione, ancora più fondamentale, in questo “abisso logico” tra il mondo del diritto e il cosiddetto mondo reale. Una dimensione anteriore alla separazione tra essere e dover essere, fatticità e normatività, necessità e legalità: la separazione tra cose e linguaggio. Ed è in questo intervallo di divisione che troviamo quella che ho chiamato la “mistica” del colpo di stato.

Nella prima parte del suo discorso di apertura al colloquio organizzato da Durcilla Cornell, alla Cardozo Law School, nel 1989, testo organizzato nell'edizione brasiliana sotto il titolo Forza della legge (1989), Jacques Derrida sostiene che ciò che sta alla base del diritto e della giustizia non è altro che un “colpo di forza” di natura “mistica”. Per il filosofo francese: “l’operazione di fondare, inaugurare, giustificare il diritto, fare la legge, consisterebbe in un colpo di forza, in una violenza performativa e quindi interpretativa che, di per sé, non è né giusta né ingiusta, e che nessuna giustizia, nessun diritto previo e prefondativo, nessun fondamento preesistente, per definizione, non potrebbe nemmeno garantire né contraddire o invalidare".

Per Jacques Derrida, ciò che sta alla base del diritto è mistico perché è una performance, un atto performativo, il cui discorso non solo dice o dichiara in astratto, ma realizza anche qualcosa. Non se ne parla, ma Derrida si riferisce alla nozione sviluppata dal filosofo analitico JL Ausitn, quando parlava di come il dire possa essere anche un fare, in quanto “performance”. In questo senso, il “colpo di forza” che sottende la legge, quindi, non è una costituzione linguistica astratta, meramente collocata nel mondo fittizio dei simboli, tra sintassi e semantica, ma è qualcosa del mondo delle cose, degli usi, nella dimensione pragmatica del linguaggio.

Ma questo non spiega il significato della “mistica” che nasconde la performance specifica del “colpo di forza” che dichiara e fa, nello stesso gesto, la legge e i suoi decreti. Perché il fondamento fondativo del diritto non ci è accessibile. Come ha affermato Derrida, un simile “colpo di forza” non ha alcun fondamento antecedente nell’orizzonte dei significati della giustizia e del diritto. Secondo il filosofo francese, nel suo Forza della legge (1989): “Il discorso trova lì il suo limite: in se stesso, nella propria potenza performativa. Questo è quello che propongo di chiamare, spostando un po' la struttura e generalizzando, il mistico. C’è un silenzio murato nella struttura violenta dell’atto costitutivo”. Questa idea che esista un misticismo su ciò che sta alla base del diritto e dei suoi atti giuridici era già presente in Pascal e, prima di lui, in Montaigne. E Derrida trova in essi “(…) le premesse di una filosofia critica moderna, ovvero una critica dell’ideologia giuridica, una desedimentazione delle sovrastrutture del diritto che nascondono e riflettono, allo stesso tempo, gli interessi economici e politici delle forze dominanti nella società”.

Ciò che Pascal e Montaigne aiutano negli studi critici del diritto, in questo modo, è rivelare che la forza è ciò che fonda il diritto e le nostre nozioni di giustizia. In modo più semplice, poiché Derrida, Pascal e Montaigne ci hanno rivelato, molto prima della Teoria Critica, che il diritto si fonda su se stesso, sul proprio “colpo di forza”, che compie un fare-dire senza fondamento trascendente, e, quindi, , incapaci di essere valutati come giusti o ingiusti, legali o legali.

 Ed è questo il senso di uno stato d’eccezione, come quello scarabocchiato dall’ex ministro della Giustizia Anderson Torres, con la sua “bozza del decreto golpista” ritrovata in casa sua, in quest’anno 2024: produrre uno stato di cose in cui una forza che stabilisce la legge si svolge in uno spettacolo contraddittorio e mistico; è “contraddittorio” perché produce un atto giuridico illecito, con pura potenzialità effettiva, ma privo di validità; ed è “mistico” perché nasconde, ancora una volta, ciò che sta alla base della forza fondatrice del diritto.

Questo è ciò che Agamben chiamava allora con l’espressione “forza diLegge”, scritto così, con una X, o un trattino, sopra la parola “Legge”. Secondo il filosofo italiano, nel suo Iustitium: stato di eccezione (2003): “lo stato di eccezione è uno spazio anomico in cui è in gioco una forza della legge senza legge (…) è certamente qualcosa come un elemento mistico, o meglio, un finzione attraverso il quale la legge cerca di attribuire la propria anomia”.

È molto importante notare il motivo di questa soprascritta nella parola “Legge”. Perché non dovremmo parlare semplicemente di “forza”? Perché la “Legge” continua nella frase, con una linea in alto, rendendola “forza di-Legge"? Forse vogliamo dimostrare proprio questo: che la forza non viene senza legge; l'esercizio di questa forza avviene nel momento in cui viene detto fatto, sospendendo le norme giuridiche, ma, allo stesso tempo, nello stesso gesto, nello stesso atto performativo, quando viene dichiarato lo stato di eccezione, la legge non esce mai del tutto dalla sua orizzonte di significato e di attuazione, anche se incostituzionale, nullo, invalido, ingiusto e illegittimo.

La frase “forza diLegge”, che rappresenta il decreto dello stato di eccezione e gli atti eccezionali che ne derivano, ha cancellato il termine “Legge” per garantire il paradosso dell’eccezione sovrana: la legge è sospesa, ma al suo posto viene applicato qualcosa di apparentemente legale. E, nel suo senso opposto, la “forza di-Legge” può verificarsi: la legge può essere valida, gli atti giuridici non vengono sospesi, ma finiscono, dal punto di vista pratico, per essere sospesi per la perdita della validità, della loro efficacia. Lo stato di eccezione rivela allora, quanto meno, il proprio carattere paradossale: la legge può essere valida, senza validità, oppure può essere in vigore, senza validità. La “forza”, quindi, non resta mai sola, ma, allo stesso modo, la Legge non viene del tutto annullata o sospesa. La Legge si presenta, almeno come la finzione che essa stessa è – come ha affermato lo stesso Kelsen, nella sua opera postuma Teoria generale delle norme (1979).

Così, in un paradosso irrisolto, lo stato di eccezione si fonda su una “forza diLegge”, e il suo decreto golpista rivela il suo sintagma contraddittorio. La legge si applica, disapplicando, e disapplica, applicando. Lo stato di eccezione è il suo massimo stato di fatto: un insieme di atti illeciti, ma con apparenza giuridica, e un insieme di atti giuridici, ma senza sistematica osservanza, cioè senza validità, per mancanza di efficacia strutturale, intenzionalmente forgiato.

E la “bozza del decreto golpista” ritrovata nella residenza dell'ex ministro della Giustizia del governo di Jair Messias Bolsonaro, se fosse entrata in vigore, e se il colpo di stato fosse stato pianificato dalla squadra speciale del Se l’esercito brasiliano, i cosiddetti “bambini neri”, avesse avuto successo, assassinando l’attuale presidente Lula, il suo vicepresidente, nonché il ministro della Corte Suprema, Alexandre de Moraes, allora ci sarebbe stato un perfetto esempio di “ forza di-Legge”: un atto incostituzionale, e quindi invalido, ma che si applicherebbe come se fosse legale, continuando i tanti atti omissivi del governo Bolsonaro durante la pandemia e che si sono rivelati anche nella sua eccezione permanente, come quando il suo dovere di garantire la dignità umana degli Yanomami è stata violata per omissione.

Come puoi vedere, qui vengono attaccati i limiti del nostro linguaggio logico. Se si vuole quindi comprendere la natura di questa forza e il suo colpo, fondamento del diritto, è necessario giocare con le parole affinché queste si avvicinino il più possibile a questa esperienza linguistico-politico-giuridica di confine, così come è fatto, ad esempio, con la frase “força-de-Legge”, nel tentativo di esprimere i paradossi dello stato di eccezione e dei suoi atti commissivi e omissivi apparentemente legali.

Nello stato di eccezione, causa ed effetto si mescolano, agiscono e potenza sono insormontabili separati – nello stesso tempo si presentano in qualche modo insieme, in un paradosso insolubile. Questa è la mistica dell'autorità legale: un diritto che nasce da qualcosa di non-legale e che porta con sé la potenzialità della sua irrealizzazione, dell'effettiva inazione della legge; contenendo dentro di sé il suo abisso, la sua mancanza di fondamento, questo an-archè inerente e regolante il “colpo di forza” del potere della Legge sul mondo dei fatti, costituendo un atto linguistico che opererebbe, allo stesso tempo, tra il mondo fattuale e quello giuridico, tra il mondo dell'essere e quello mondo del dovere, tra il mondo delle cose come sono e il mondo normativo.

Tuttavia, ancora nulla ci viene rivelato nella sua interezza. Ciò che viene mostrato è, paradossalmente, ciò che è nascosto. La mistica propria del diritto si presenta al nostro linguaggio ordinario sotto forma di vuoto, di nulla, di anomia, o anche sotto forma di ineffabile. A questo proposito, senza dare ulteriori spiegazioni, nel tuo Forza della legge (1989) Derrida afferma che: “Porterei quindi l'uso della parola 'mistico' ad un significato che oserei dire wittgensteiniano”.

Consapevole di non poter ancora rispondere con migliore chiarezza al problema che ho proposto, continuo a concludere questo intervento, ricordando Ludwig Wittgenstein, nel suo Tractatus Logico-Philosophicus (1921), a cui allude il testo di Derrida. Forse, la mistica del colpo di stato può almeno essere qualcosa che possiamo vedere perché “si mostra”, anche se non possiamo dirlo, perché, come diceva Wittgenstein, nella proposizione n. 6.522: “C'è certamente l'ineffabile. Questo si manifesta, è il Mistico”.

Resta, allora, da cercare di comprendere il significato di “mistico” e i possibili usi del linguaggio giuridico che non si limitino al proprio lessico, o al suo gioco, basato sul potere violento dello stato di eccezione. E questo potrebbe forse essere un modo per resistere al silenzio imposto dalla natura nascosta della violenza fondatrice del diritto, per far sì che, magari, con un uso più creativo del linguaggio giuridico-politico, da un altro “gioco linguistico” – ricordando ora, qui , da un tardo Wittgenstein che influenzò Austin –, un gioco diverso da quello del diritto permeato da dinamiche giudicative, predicative e punitive, aprendo così la strada a un'altra nozione di “violenza” e di “colpo forza fondatrice del diritto.

Forse si potrebbe pensare a una nozione di “violenza legale” già lontana dalla repressione, alla quale siamo abituati per gli effetti dello stato di eccezione permanente in cui praticamente tutti viviamo e soffriamo – chi meno, chi meno, chi meno, chi meno altri di più, assurdamente di più –, e nessun decreto di colpo di stato, nessun verbale, nessuna azione di colpo di stato da parte di alcuna élite dell’esercito. Chissà se potremmo pensare a un'altra nozione di forza giuridica, a un altro uso della legge, e attraverso una nuova e migliore nozione di giustizia, con i suoi mezzi, ma senza fini; uno che riveli l’intrinseca vacuità del potere e della legge, ma senza falsificarla con un sostituto precario, autoritario e impopolare. Infine, pensando a una diversa nozione di diritto e giustizia, che rompa con la tradizione golpista che ha costituito, ad esempio, la storia repubblicana brasiliana, fondata da un colpo di stato militare e costruita, e tuttora governata, su ciò che resta della sua storia di colonizzazione e schiavitù. impero nel paese.

*Ricardo Evandro S. Martins Professore presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università Federale del Pará (UFPA).


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