da GIORGIO AGAMBE*
Estratto dal libro “Cos'è la filosofia?"
1.
La filosofia può aver luogo oggi solo come riforma della musica. Se chiamiamo musica l'esperienza della Musa, cioè quella dell'origine e del luogo della parola, allora in una certa società e in un certo tempo la musica esprime e governa il rapporto degli uomini con l'evento della parola. Questo avvenimento attuale – cioè l'arcievento che costituisce l'uomo come essere parlante – non può essere detto all'interno del linguaggio: può solo essere evocato e richiamato musaicamente o musicalmente. In Grecia, le muse hanno espresso questa articolazione originaria dell'evento della parola, che, quando accade, è destinato e condiviso in nove forme o modalità, senza che il parlante possa risalire al di là di esse. Questa impossibilità di accedere al luogo originario della parola è la musica. In esso si esprime qualcosa che nel linguaggio non si può dire. Come risulta immediatamente evidente quando si suona o si ascolta la musica, il canto celebra o lamenta soprattutto un'impossibilità di dire, l'impossibilità – dolorosa o gioiosa, innistica o elegiaca – di accedere all'evento della parola che costituisce l'uomo come uomo.
L'inno alle Muse, che appare come un proemio a teogonia di Esiodo, mostra che i poeti erano consapevoli del problema che pone l'inizio del canto in un contesto musicale. La doppia struttura del proemio, che ripete due volte l'esordio (v. I: “Cominciamo dalle Muse eliconiche”; “Cominciamo dalle Muse”), non è dovuta unicamente, come perspicacemente suggeriva Paul Friedländer, alla necessità di introdurre l'episodio inedito dell'incontro del poeta con le Muse in una struttura innica tradizionale in cui ciò non era assolutamente previsto. C'è, per questa inaspettata ripetizione, un altro e più significativo motivo, che riguarda la stessa presa di parola da parte del poeta, o, più specificamente, la posizione dell'istanza enunciativa in un contesto in cui non è chiaro se tale istanza appartenga al poeta o alle Muse. Decisivi sono i versetti 22-25, nei quali, come gli studiosi non hanno mancato di notare, il discorso passa bruscamente da una narrazione in terza persona a un'istanza enunciativa che contiene il shifter “eu” (dapprima all'accusativo – με – e poi, nelle righe successive, al dativo – μοι):
“Loro (le Muse) una volta (ποτε) insegnarono a Esiodo una bellissima canzone
mentre pascolava il gregge ai piedi del divino Elicona:
questo discorso prima di tutto (πρώπστα) a me (με) rivolto alle dee […]”
Si tratta, secondo ogni evidenza, di inserire l'io del poeta come soggetto dell'enunciazione in un contesto in cui l'inizio del canto appartiene indiscutibilmente alle Muse, ma è pronunciato dal poeta: Moυσάων ἀρχώμεθα, “Cominciamo con le Muse” – o, meglio, se si tiene conto della forma media e non attiva del verbo: “Dalle Muse è il principio, dalle Muse iniziamo e siamo iniziati”; le Muse, infatti, dicono all'unisono «cosa fu, cosa sarà e cosa fu» e il canto «sgorga dolce e instancabile dalle loro bocche» (v. 38-40).
Il contrasto tra l'origine musaica della parola e l'istanza soggettiva dell'enunciazione è molto più forte, mentre nel resto dell'inno (e dell'intero carme, salvo la ripresa enunciativa del poeta ai v. 963-965: tu adesso…”) racconta in forma narrativa la nascita delle Muse della Titanessa Mnemosyne, che trascorse nove notti consecutive con Zeus, ne elenca i nomi – che, in quella fase, non corrispondevano ancora a un genere letterario specifico (“Clio e Euterpe e Talia e Melpomene/ Tersicore ed Erato e Polimnia e Urania/ e Calliope, illustre fra tutte”) – e descrive il suo rapporto con gli aedi (v. 94-97: “Per le Muse sì, e per il lungimirante Apollo / sono gli aedos e i clavicembalisti […]/ beati che le Muse amano/ dalla sua bocca sgorga un dolce canto”.
L'origine della parola è musaicamente – cioè musicalmente – determinata e il soggetto parlante – il poeta – deve fare i conti con la problematicità dell'inizio stesso. Anche se la Musa ha perso il significato cultuale che aveva nel mondo antico, il livello della poesia dipende ancora oggi dal modo in cui il poeta riesce a dare forma musicale alla difficoltà di prendere la parola – come riesce a farne propria una parola che non gli appartiene e alla quale si limita a prestare la sua voce.
2.
La Musa canta, dona all'uomo il canto, perché simboleggia l'impossibilità dell'essere parlante di appropriarsi pienamente del linguaggio di cui ha fatto la sua dimora vitale. Questa stranezza segna la distanza che separa l'angolo umano da quello degli altri esseri viventi. C'è la musica, l'uomo non si limita a parlare e, anzi, sente il bisogno di cantare, perché il linguaggio non è la sua voce, perché vive nel linguaggio senza poterne fare la sua voce. Cantando, l'uomo celebra e commemora la voce che non ha più e che, come il mito delle cicale in Fedro, poteva ritrovare solo se cessava di essere uomo e diventava animale (“Quando nacquero le Muse e sorse il canto, alcuni uomini furono presi da un tale piacere che, cantando, non si curarono più di mangiare e bere e morirono senza darne conto: da costoro discese la stirpe delle cicale […]”, 259b-c).
Per questo la musica corrisponde necessariamente, prima ancora che alle parole, a toni emotivi: equilibrati, coraggiosi e fermi nel modo dorico, lamentosi e languidi in quelli ionici e lidi (Risposta. 398e - 399a). Ed è singolare che anche nel capolavoro della filosofia del Novecento, essere e tempo, l'originaria apertura dell'uomo al mondo non avviene attraverso la conoscenza razionale e il linguaggio, ma soprattutto in a Umore, in un tono emozionale che il termine stesso rimanda alla sfera acustica (Stimme è la voce). La Musa – la musica – segna lo sdoppiamento tra l'uomo e il suo linguaggio, tra voce e logos. L'apertura primaria al mondo non è logica, è musicale.
א Di qui l'ostinazione con cui Platone e Aristotele, ma anche teorici della musica come Daman e gli stessi legislatori, affermano la necessità di non separare musica e parole. "Ciò che nel canto è il linguaggio", sostiene Socrate Repubblica (398d), “non differisce affatto dalla lingua sconosciuta (μὴ ᾀδομένου λόγου) e deve conformarsi agli stessi modelli”; e subito dopo enuncia con fermezza il teorema secondo il quale “armonia e ritmo devono seguire il discorso (ἀκολουθεν τ λόγοῳ)” (ibidem). La stessa formulazione, “ciò che nel canto è il linguaggio”, implica però che vi sia in esso qualcosa di irriducibile alle parole, così come l'insistenza nel sancirne l'inscindibilità rivela la consapevolezza che la musica è eminentemente separabile. Proprio perché la musica segna l'estraneità del luogo originario della parola, è perfettamente comprensibile che possa tendere ad esasperare la propria autonomia rispetto al linguaggio; eppure, per le stesse ragioni, è altrettanto comprensibile la preoccupazione che il nesso che li teneva insieme non sia del tutto reciso.
Tra la fine del V secolo e i primi decenni del IV secolo in Grecia si verificò infatti una vera e propria rivoluzione negli stili musicali, legati ai nomi di Melanipedes, Cynesias, Phrynis e, soprattutto, Timoteo di Mileto. La frattura tra sistema linguistico e sistema musicale divenne progressivamente insanabile, finché nel III secolo la musica finì per prevalere decisamente sulla parola. Ma, già nei drammi di Euripide, un osservatore attento come Aristofane poteva percepirlo, facendone una parodia su le rane, che il rapporto di subordinazione della melodia al suo supporto metrico nel verso era già sovvertito. Nella parodia di Aristofane, la moltiplicazione delle note in relazione alle sillabe è espressa icasticamente trasformando il verbo εἱλίσσω (ritornare) in εἱειειειλίσσω. In ogni caso, nonostante la tenace resistenza dei filosofi, nelle sue opere sulla musica Aristossene, che fu anche discepolo di Aristotele e criticò i cambiamenti introdotti dalla nuova musica, non utilizza più l'unità fonematica del piede metrico come base di canto, ma un'unità puramente musicale, che chiama "prima volta" (χρόνος πρτος) ed è indipendente dalla sillaba.
Se, sul piano della storia della musica, le critiche dei filosofi (che si ripeteranno anche molti secoli dopo nella riscoperta della monodia classica da parte della Camerata Fiorentina e di Vincenzo Galilei e nella perentoria prescrizione di Carlos Borromeo: “cantum ita temperari, ut verba intelligerentur”) non poteva che sembrare eccessivamente conservatore, ciò che ci interessa qui sono più le ragioni profonde della loro opposizione, di cui essi stessi non sempre erano consapevoli. Se la musica, come sembra accadere oggi, rompe il suo necessario rapporto con la parola, ciò significa, da un lato, che perde coscienza della sua natura musaica (cioè del suo essere situata nel luogo originario della parola) e, d'altra parte, che il parlante dimentica che il suo essere, sempre musicalmente già disposto, ha costitutivamente a che fare con l'impossibilità di accedere al luogo musaico della parola. homo canens e homo loques si dividono le strade e perdono la memoria del rapporto che li legava alla Musa.
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*Giorgio Agamben diresse il Collège international de philosophie di Parigi. Autore, tra gli altri libri, di Il potere del pensiero: saggi e conferenze (autentico).
Riferimento
Giorgio Agamben. Cos'è la filosofia? Traduzione: Andrea Santurbano e Patricia Peterle. San Paolo, Boitempo, 2022, 204 pagine (https://amzn.to/3qup6NI).
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