la negazione della morte

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da MARILIA PACHECO FIORILLO*

La civiltà è un meccanismo di difesa sofisticato e magniloquente contro la consapevolezza della nostra mortalità: un vasto trucco per sopravvivere.

“(…) Muori senza lasciare i tristi resti della carne, / La maschera di cera esangue, / Circondata di fiori, / Che marciranno – felici! – in un giorno, / Bagnato di lacrime / Nato meno dal desiderio che dallo stupore della morte. (Manuel Bandeira, “Morte assoluta”).

1.

la negazione della morte è il titolo di un libro che vinse il Premio Pulitzer nel 1974. Il suo autore, Ernest Becker (1924-1974), fu un pioniere dell'interdisciplinarietà, quando ancora era vista con disagio dalle università, come una sorta di incendiarie lese-specialità per nicchie di conoscenza. Antropologo, psicologo, studioso di religioni, fedele amico della collaborazione tra le scienze umane, Becker fu anche un intellettuale modello: uno studioso capace di scrivere con chiarezza e colloquialità, avverso alle lusinghe e generoso nei rapporti con i colleghi, al punto da essere espulso da una delle università dove insegnava per essersi schierato con Thomas Szasz (dell'allora antipsichiatria eretica), contro la nomenklatura accademica.

Becker non è di moda, ma si guadagnerebbe molto recuperando il suo lavoro. Cercheremo, alla maniera beckeriana (decoupage e fusione, senza falsi vincoli, delle sue scoperte) di evidenziare una delle sue idee fondamentali, che è così urgente. La civiltà, dice, è un meccanismo di difesa sofisticato e magniloquente contro la consapevolezza della nostra mortalità: un vasto trucco per sopravvivere. Becker svilupperà la connessione tra questa paura e la consapevolezza della finitezza con la psicologia profonda dell'eroismo, i suoi dilemmi, errori e genesi della malattia mentale.

In breve: nella nostra smania di superare il dilemma della morte, abbiamo elaborato una sorta di progetto di immortalità eroica, che ci assicurasse l'eternità di “se stesso'' simbolico oltre l'annichilimento biologico. Ma non è di questo netto dualismo cartesiano (corpo e anima che risuonano in due orologi sincronizzati) che ci occuperemo nello specifico, ma delle scelte che ne derivano. O sprofondiamo nella convinzione che le nostre vite avranno uno scopo più alto, impegnati in qualche senso imperscrutabile dell'universo (beh, ci si chiede sempre se all'universo frega qualcosa di noi) o usiamo lo stratagemma per scongiurare il terrore della morte ignorando il problema, “rassicurandoci con il banale”. Il rischio sia con le scelte eroiche che con quelle di evasione è che entrambe siano naturalmente inclini al conflitto. Quando un progetto di immortalità (grandi cause che generalmente flirtano con la distruzione, in nome di utopie) si confronta con l'altro, cieco di fronte al qui e dopo (''non c'è pericolo, la clorochina salva; la mascherina è una sciocchezza; l'isolamento è freschezza'') la battaglia è persa. I progetti di immortalità -per affermazione o rifiuto/procrastinazione- sono, per Becker, l'innesco di guerre, banditismo, genocidio. Sono la scorciatoia, paradossalmente, per morti inutili. Una carezza di ansia, innocua e letale.

Nel tuo libro (La negazione della morte, traduzione di Otávio Alves Velho, editore Nova Fronteira, RJ, 1976), tali dispositivi di negazione della morte sono un sintomo di profondo terrore di fronte alla finitezza, a volte mascherata da arroganza, a volte da indifferenza. Becker dialoga con innumerevoli autori: i filosofi Sören Kierkegaard, Ortega Y Gasset, il pragmatico William James, gli psicologi Alfred Adler, Medard-Boss (Daseinsnanalysis), Freud, molto Freud, ma soprattutto Otto Rank (che fu psicoterapeuta per Henry Miller e Anaïs Nin), a cui dedica particolare apprezzamento. Becker, sorprendentemente, non vuole discutere. Vuole fraternizzare, impegnarsi in dialoghi che molti considererebbero empi, ma che il suo intuito e la sua erudizione illuminano, sulla via della comprensione.

La sua prima epigrafe non è casuale:

Non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere. (Non ridendo, non piagnucolando, non imprecando, ma comprendendo.) Spinoza

La paura della morte fa di tutto per esorcizzarla. Non è sempre stato così.  Memento mori ('Ricordati che sei mortale'), era il modo in cui i frati medievali si salutavano nei corridoi delle abbazie. Ma la morte contemporanea è diversa. Né ci riferiamo al fenomeno del genocidio, un abominio sempre più frequente ovunque. Anche una sola morte è sempre scandalo, disperazione, specie quando il lutto non è consentito (come nella pandemia da coronavirus, morte esponenziale), sgomento e rabbia, legittimi e perfettamente spiegabili.

Noi, eredi della tradizione giudaico-cristiana, come siamo impreparati all'unica certezza! L'argomento è tabù, nessuno ci dice niente e quando scoppia una crisi sanitaria oscilliamo tra disperazione e apatia. Ogni giorno, ogni ora, sfinito e perseguitato dalla vicinanza di un'estinzione inaspettata, casuale, casuale. Che contrasto con le altre culture!

Qualche decennio fa, per caso, abbiamo assistito, in Indonesia, a un funerale affollato (dovevano essere persone importanti). Era pura festa. Hanno riso, chiacchierato, mangiato, bevuto, ballato. Celebre. Sospettosi, andiamo a caccia di qualcuno che sta piangendo, contrito o almeno serio. Abbiamo fallito: il funerale è stato, visceralmente, una baldoria.

Ma non siamo capaci di questa gioiosa impresa culturale degli indù, o dei buddisti (lo storico Buddha Gautama, dicono i sutra, morì in vecchiaia, sdraiato e calmo e circondato dai suoi discepoli; il Cristo del cristianesimo soffrì sulla croce, asfissiato in agonia.)

Così l'angoscia della morte, motore della vita, è vissuta nella nostra cultura in modo cupo. Con la gravità di Settimo Sigillo di Ingmar Bergman: non solo il cavaliere crociato viene sconfitto dal Mietitore, in innumerevoli partite a scacchi, ma finisce per guidare involontariamente un corteo di persone incontro alla morte. Solenne e cupo, il film di Bergman è ambientato al tempo della peste nera.

Un'altra versione, più ironica, della folle fuga dall'impossibile viene dall'Islam: l'aneddoto di Samarra: “Un mercante di Baghdad mandò il suo servitore al mercato. Poco dopo tornò, pallido e tremante: “Maestro, poco fa, mentre ero al mercato, sono stato spinto da una donna in mezzo alla folla; quando mi voltai, vidi che era la Morte (..) Prestami il tuo cavallo e io cavalcherò via da questa città ed eviterò il mio destino. Andrò a Samarra, e là la Morte non mi troverà». Il mercante gli prestò il cavallo, ma poco dopo, nello stesso mercato, trovò la morte. Andò a prendere soddisfazione: perché hai minacciato il mio servo? Non era una minaccia, rispose lei, era solo una sorpresa. Sono rimasto stupito di vederlo a Baghdad, dato che stasera avevo un appuntamento con lui a Samarra”.

2.

Pensare a lei tutto il tempo sarebbe insopportabile. Per questo Becker ricorda che “le religioni come l'induismo e il buddismo eseguivano l'ingegnoso trucco di fingere di non voler rinascere, che è una specie di magia negativa: affermare di non volere ciò che si desidera di più. Così l'odiata Musa, chissà, si confonde o ritarda”.

Non rinascere è una cosa buona, meno dolorosa della bilancia del Giudizio Universale. O, nelle parole di William James (in Le varietà dell'esperienza religiosa disse che se la convinzione di poter attraversare un lago ghiacciato senza rompere il sottile strato di ghiaccio ispira ad attraversarlo, questo è sufficiente; non c'è motivo di investire contro le convinzioni). James ha definito la morte come "il verme che era al centro delle pretese di felicità dell'uomo"; se c'è un insulto, non è al verme, ma alla folle pretesa della ricerca obbligatoria della felicità, uno dei comandamenti del postmoderno.

La paura della morte, oltre a non risparmiare nessuno, mette a nudo il nostro egoismo senza guanti. Che non è "perfidia", ma solo l'ineluttabile tendenza dell'organismo, "attraverso innumerevoli epoche di evoluzione, a proteggere la propria integrità". Autoconservazione. Il biologo Richard Dawkins ha portato questa massima all'estremo nella sua il gene egoista (Il gene egoista, Oxford University Press, 1976): “Non siamo noi quelli che vogliono prosperare come specie e riprodursi; sono i geni che lottano per lasciare la prole, sono i geni che usano noi, come ospiti, per perpetuarsi”. Convincente e sensato. Sarebbe esecrabile se Dawkins non sottolineasse che l'altruismo (creato dalla cultura, non dalla natura) deve e può essere insegnato. È possibile, è plausibile, è immensamente desiderabile, per questa tradizione anglosassone, che l'uomo si civilizzi e sconfigga la massima aristotelica citata da Becker: "La fortuna è quando il ragazzo accanto a te viene colpito dalla freccia"

3.

L'anarco-cristiano Leo Tolstoy ha detto che “Le famiglie felici sono tutte uguali; le famiglie infelici sono infelici ciascuna a modo suo”. Si tratta di donne infelici che vale la pena scrivere, comporre, dipingere: di amori infelici, incontri infelici, tempi infelici. Il resto è una brutta caricatura: Tristano e Isotta in partenza per il viaggio di nozze a Bayreuth? Abelardo ed Heloisa condividono la capanna con figli, nipoti e le sacre scritture? Romeo che si lamenta della cucina inesperta di Giulietta? Lolita a un drive-in con il suo patrigno, festeggia il suo quarantesimo compleanno?

È quello di Tolstoj, infatti, il ritratto più commovente di un'esistenza che svanisce: "La morte di Ivan Il'ic", romanzo breve del 1886, è il capolavoro dei capolavori dell'autore di Guerra e Pace.

Nelle innumerevoli variazioni sul tema della morte si inseriscono diversi movimenti. L'omicidio sacrificale: Ifigenia in Áulide, di Euripide. Agamennone sacrifica sua figlia per meglio saccheggiare Troia. O la bella morte, personificata da Achille, nel pieno della giovinezza, della bellezza, del vigore, areté.  Idem la rassegnata attesa e speranza, in balia di qualche volontà maggiore; promessa di vita eterna, caratteristica delle religioni monoteiste. Per alcune confessioni, nuova vita sboccerà in boschetti popolati di angeli, per altri, in harem di Huri, vergini promesse a uomini giusti. C'è anche la morte-martirio, che si sovrappone leggermente al precedente, il caso del martirio dei cristiani cattolici ufficializzato da Costantino, che Plinio il Giovane chiamava isteria collettiva, al punto che essi compensarono, «con la loro stessa confessione spontanea, la mancanza di un accusatore”” (…) e saltano “piacevolmente nel fuoco acceso per consumarli”. uomini infelici- scrisse all'imperatore Traiano– che sei così stufo delle tue vite, è così difficile trovare corde e precipizi?”

La malevolenza verso il cattolicesimo e le estasi del martirio sono l'opposto dell'accettare la morte con compostezza (non rassegnazione, ma pudica alterigia), a testimonianza della brevità della vita, con Amor Faticome facevano gli stoici. Lo stoico e imperatore Marco Aurelio scrisse: “com'è bella l'anima preparata all'immediata separazione dal corpo, o per spegnersi, o per disperdersi o sopravvivere! Questa preparazione, però, venga dal proprio giudizio e non da un semplice settarismo, come quello dei cristiani, una preparazione ragionata, seria e, per essere convincenti, non teatrale. (Meditazioni, Libro XI, Marco Aurelio, traduzione di Jaime Bruna, Cultrix, senza data).

Non dimentichiamo il suicidio, gesto paria in tutte le religioni, accolto da alcuni filosofi ed elevato al sublime dai poeti.

Morire è un'arte, come tutto il resto. In questo sono eccezionale.
Lo faccio sembrare un inferno. Lo faccio sembrare reale.
Diciamo che ho una vocazione
.

(Lady Lazarus, Silvia Plath, 1962)

Che tema immenso e travagliato, l'altezza di una cattedrale gotica e l'estensione delle più belle moschee. Un arabesco che racchiude, come una noce, tanti pensatori, artisti, inventori. Tutto può starci dentro, incluso ridere della grande paúra della morte, i pazienti immaginari, le buffonate di questa Signora. O Auto compassionevole, di Ariano Suassuna, è un esempio lampante di questa possibilità. E le favole? Sono utenti e timer di avvelenare ragazze bianche, pungere le dita altrui sui fusi del telaio, divorare nonne.

4.

Semplicemente non si adatta alla presa in giro, alla sordidità, alla boçalità. Per fortuna gli esempi sono brevi quanto l'intelligenza che li ha prodotti: è il "E allora?" Erede di “Viva ela, abbasso la vita”.

*Marilia Pacheco Fiorillo è professore in pensione presso la USP School of Communications and Arts (ECA-USP).

 

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