La passione secondo GH

Immagine: divulgazione
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da IVANA BENTES*

Considerazioni sul film di Luiz Fernando Carvalho, nelle sale

Cosa facciamo e pensiamo quando siamo “soli”, come esprimiamo questo mondo mentale popolato da “vaste emozioni e pensieri imperfetti”? Mentre le esperienze diventano un flusso di parole e discorsi e questi possono diventare un corpo, performance e immagini: cinema?

GH, personaggio di Clarice Lispector che assume il corpo e la voce di Maria Fernanda Cândido, è il protagonista confinato di un libro pubblicato nel 1964 e ora transcreato per il cinema da Luiz Fernando Carvalho.

Nel libro e nel film forse è meno importante il “motivo” che innesca questo “stare soli” individuale e/o collettivo, raccontato con ferocia: la cameriera che decide di andarsene, l'incontro viscerale con uno scarafaggio, la fine di una passione, o, potremmo aggiungere: una pandemia devastante o semplicemente il caso o la banalità quotidiana in persona. La cosa decisiva è che “esso” tracimi in un evento, nel senso di ciò che rompe i nostri automatismi corporei e psichici, e produce qualcosa di troppo terribile, di troppo bello, di troppo angosciante.

Quando ho iniziato a guardare il film, la mia prima preoccupazione è stata cercare di intravedere come questo accordo regista-attrice, questa unione instabile di un testo-monologo e di un corpo in scena, potesse esprimere la visceralità del linguaggio di Clarice Lispector, una straordinaria e travolgente scrittore, che specula costantemente sulla propria incapacità di dire qualcosa e, allo stesso tempo, scommette sul dire infinito della vita fatta linguaggio.

“La vita non è riconoscibile. La vita non è vivibile”, che ci porta allo spostamento infinito della produzione di significati, e a una scommessa, senza garanzie, sul linguaggio di fronte a un buco esistenziale, ma anche di fronte alla pienezza di tutto ciò che è vivo.

Continuavo a chiedermi: come potrebbe qualcuno filmare la scena dello scarafaggio che già sfida le regole della rappresentazione e del “riconoscibile”, sfida le regole della letteratura e costituisce un'epifania all'interno del lavoro di Clarice. Una scena che è una sorta di culmine della consapevolezza da parte della narratrice-scultrice GH dei limiti delle proprie parole di fronte allo straripamento della vita.

Guardando il film, con il suo linguaggio paradossalmente minimalista e sontuoso, mi sembra che Luiz Fernando Carvalho si collochi nello stesso luogo instabile, al limite, ormai del cinema stesso, e invochi e utilizzi tutto il suo arsenale estetico, la sua cinefilia, destrezza narrativa, tecnologia e maestria, tutta la sua erudizione per mettere in pausa il suo incontro/confronto con Clarice Lispector.

Si tratta di affrontare i limiti del linguaggio cinematografico stesso, di affrontare il testo e le parole di Clarice Lispector, di affrontare il corpo e il volto in performance di Maria Fernanda Cândido, estrai il massimo dalla colonna sonora e dalle immagini, in a tour de force tra il rischio reale di fallimento e il delirio di onnipotenza. Una narrazione che è allo stesso tempo instabile, assertiva e magniloquente.

Il film guarda al patetico, nel senso di pathos e passione. La passione secondo GH, enunciata dall'autore e che sovverte il luogo comune sulla passione e sulla sofferenza.

Filmare Clarice Lispector e questo testo in particolare significa emulare lo stesso tipo di angoscia e di sfida di GH di fronte allo scarafaggio, di fronte all'atto inizialmente ripugnante che diventa purgazione e redenzione: mangiare lo scarafaggio e assaporare la materia di vita, spogliarsi delle convenzioni, sciogliere la propria identità e cercare “il coraggio di fare quello che sto per fare: dire. E rischio l'enorme sorpresa che proverò per la povertà di quanto detto. Lo dirò appena e devo aggiungere, non è questo, non è quello!”

La sfida del film è questa: costruire un monologo-narrativo fluido, fare un performance che esige una consegna scenica totale da parte dell'attrice, frammentando la narrazione, per ricucirla cercando di connetterci e creare intimità, un rapporto di prossimità e straniamento con l'onnipresente volto-corpo di Maria Fernanda Cândido in azione, sulla scena, un corpo eseguendo il live.

Campane, violini, evocazioni di sabati e riti, suoni di spari, inni religiosi, deserti. La colonna sonora del film infatti “riempie” con le sue stratificazioni sonore, conduce e racconta un oltre-testo, con frammenti di un fiume sonoro che attraversa Penderecki, Morton Feldman, Mahler, Bach, Eakins, Górecki, Rabih Abou- Khalil Schick, Deuter, Gubaidulina, Arvo Part, Adams, Ligeti, Franck, Schubert, Kancheli, Billie Holiday, Chopin, Cage ecc. Solo grazie all'orecchio di Arthur Omar, per il quale “il cinema è musica”, ho potuto seguire il turbinio sonoro del film e i suoi rimandi fatti da un mixaggio complesso.

Una massa sonora che trascina lo spettatore quando magari rinuncia a vedere o ad ascoltare. Straordinario montaggio di immagini e mixaggio di suoni, che emulano un'entrata e un'uscita di stati mentali, passando da immagini oggettive e soggettive con una macchina da presa che è anche un personaggio.

Un soggetto fatto di vita

Ma nel film non ci sono immagini letterali, tutto quello che vediamo ci sfugge. Compresa l'immagine più problematica, quella che non poteva nemmeno essere filmata: quella dello scarafaggio.

Luiz Fernando Carvalho ci salva in parte dalla ripugnanza e dal disgusto anticipati da ogni spettatore-lettore di Lispector, presentando lo scarafaggio con la giusta vicinanza e la necessaria distanza: in close, isolato in un'immagine che ricorda un film scientifico, come se fosse realizzato da un entomologo. Lo scarafaggio con le sue piccole pinne in super close che entrano e tremano sullo schermo, fino a raggiungere il “viso” e gli occhi dell'insetto che ci guardano, una vita che ci guarda nella sua suprema indifferenza da scarafaggio, ormai divenuta soggetto, soggettivata.

Una sorta di decisione cinematografica che pone il volto sontuoso e parlante di GH, il volto nero e muto di Janair e la “faccia” dello scarafaggio in una connessione inquietante, a prima vista ripugnante, ma che il libro e l'inquadratura del regista sostengono e su cui si sviluppano in modo radicalmente commovente ad un altro registro: una fusione reale e metaforica di questi volti della vita viva, nuda.

Ho capito bene o ho delle allucinazioni quando mi rendo conto che l'immagine di Janair e dello scarafaggio sono “equivalenti”? Il “non detto”, percepito e vissuto, è forse ciò che c'è di più potente e inquietante nelle operazioni cinematografiche e linguistiche.

Passando dal sontuoso bianco e nero al colore, dallo schermo quadrato alla sequenza in cinemascope, alla fine, parla della ricerca del regista di sperimentare con la materia del film, del gusto per la sua materialità cinematografica.

Politica dell'essere

Una donna dell'alta borghesia, artista, scultrice, che si ritrova costretta a mettere in ordine la sua casa e la sua testa, nel bel mezzo di un processo di autoanalisi. Una donna che entra nella zona lavanderia e nella stanza della cameriera come un continente ostile e misterioso da esplorare.

In Clarice Lispector passiamo sempre dalla banalità quotidiana in prima persona a un evento che destabilizza tutto, che rompe tutti i nostri sistemi di difesa. Il film ricerca cinematograficamente questa esperienza, questa narrazione di decostruzione dei cliché psichici e sociali. Come afferma Gilles Deleuze L'immagine-tempo (Brasiliense): “[…] se la banalità quotidiana è così importante è perché, sottoposta a schemi sensomotori automatici e già costruiti, è ancor più capace, alla minima perturbazione dell’equilibrio tra eccitazione e risposta […] , di sfuggendo improvvisamente alle leggi di questo schematismo e rivelandosi in una nudità, crudezza e brutalità visiva e sonora che lo rendono insormontabile, dandogli l'apparenza di un sogno o di un incubo”.

Sia nel libro che nel film emerge un'alterità scomoda e inquietante che fa crollare l'ordine mentale di GH: la figura della cameriera, nel film, incarnata dall'attrice nera Samira Nancassa, originaria della Guinea-Bissau, che vive a San Paolo, è uno dei fattori scatenanti della crisi.

Lei è Janair, un personaggio la cui invisibilità è resa esplicita nel libro. Questo volto nero che vediamo in pochissime scene del film, ma che produce un immediato effetto spettrale e inquietante nella narrazione. Il volto della cameriera nera, immagine di nobiltà e bellezza, produce rumore e disagio quando appare lampeggia, interrompendo la narrazione di GH come qualcosa di sconsiderato, qualcosa che richiede attenzione, qualcosa che mette a rischio ciò che vediamo e sentiamo.

La cameriera nera, che abbandona il suo capo bianco nel libro e nel film, instaura un conflitto sociale ed esistenziale senza dire una parola. Dover riordinare la stanza della cameriera e imbattersi nelle sue tracce di soggettività è qualcosa di sconvolgente per GH. C'è vita e linguaggio in quella stanza, quella donna “oscura e invisibile” viene vista per la prima volta, prima con indifferenza, poi con. odio:

C'erano anni in cui ero giudicato solo dai miei coetanei e dal mio ambiente, che era insomma fatto di me e per me. Janair è stata la prima persona veramente esterna del cui sguardo avevo preso coscienza.

Ecco, forse la cosa più scioccante per la sensibilità contemporanea è l'analogia non esplicita, ma espressa, nel libro e nel film, tra l'incontro di GH con questa vita nera, questa donna disumanizzata dall'indifferenza e che nasce, e il secondo incontro Destabilizzante GH, con lo scarafaggio, lì nella stanza della cameriera.

Una reazione che va dal disgusto, nausea e paura al riconoscimento e all'epifania di fronte alla vita nella sua esuberanza e irriducibilità: “E adesso ho capito che lo scarafaggio e Janair erano i veri abitanti della stanza”. Non solo “abitanti”, l'analogia, dapprima degradante, si trasforma in un processo di confronto, problema e riconoscimento delle vite “marroni” (il colore dei vestiti di Janair che la rendono invisibile secondo GH), il marrone della corteccia e della le ali dello scarafaggio.

GH si rende conto della propria indifferenza nei confronti delle donne nere. Qui possiamo fare una lettura politica contemporanea del candore di GH, dei suoi privilegi e drammi esistenziali, del suo razzismo naturalizzato, della sua difficoltà nel vedere questa donna nera che diventa un soggetto e destabilizza l'immagine di se stessa.

“Ti vedo” dice il volto nero e maestoso, anch'esso ripreso close, di Janair. Personaggio che spiega le questioni razziali e i rapporti di sottomissione tra le due donne, bianca e nera, capo e dipendente.

Questa è una possibile lettura di Clarice Lispector. Sì, le tracce ci sono tutte, ma non sarebbe una riduzione troppo comoda? L'autrice pratica la politica in un altro modo, più ampio, in modo viscerale, raccontando se stessa, denunciando i propri limiti, creando una politica dell'essere.

Infatti non possiamo sfuggire a questi scontri e la stanza della domestica è associata alla sporcizia, alla disorganizzazione e alla paura. Le elucubrazioni metafisiche ed esistenziali di GH non sono al di fuori di questo luogo da cui parla. Clarice Lispector nomina questo posto innumerevoli volte La passione secondo GH, e Luiz Fernando Carvalho non nasconde questo “chi parla” e “da dove parla”, con tutti i limiti e le distorsioni del personaggio e dello scrittore.

Ma questa donna bianca, nel suo appartamento elegante, con una vita agiata, è anche capace di percepire se stessa e di combattere una battaglia con tutto ciò che la costituisce, questa è la domanda che dobbiamo affrontare oggi in tutte le lotte decoloniali e in tutte le lotte contemporanee. . È la stessa operazione di Clarice Lispector e GH: percepire i privilegi, i vizi (“come il sale e lo zucchero”), percepire l'inferno e affrontare il problema e la gioia di vivere.

La grande domanda di GH è la stessa domanda nietzscheana: “come fa qualcuno a diventare quello che è?” Non per affermare o giustificare pregiudizi, razzismo, visioni limitate del mondo, ma per aprirci a un cataclisma, a una spaccatura, a una deriva che ci libera.

Il film opera al di fuori di questa zona di comfort, che è il linguaggio che decodifica e inquadra rapidamente tutto, i cliché che affliggono il pensiero e la politica oggi.

Il Brasile in cui entriamo dalla stanza della cameriera ci arriva in modo sensoriale, con domande vomitate in mille parole, ma non “spiegate”. Il testo di Clarice Lispector, travolgente, non si presta ad affermazioni, riduzioni o prese di posizione manichee da “cancellare”.

E se vogliamo essere decoloniali, possiamo dire che il testo di Clarice Lispector parla di una donna bianca che si spoglia della sua colonialità e della sua classe e gruppo sociale, che si spoglia del suo razzismo naturalizzato, della sua eleganza, del suo buon gusto, del suo ambiente artistico, della sua indifferenza alla serva, la sua repulsione verso tutto ciò che rimanda all'“oscuro” e allo “sporco”.

GH è una donna che parla della liberazione che arriva con la fine di una relazione, con la decisione di abortire, con la percezione di una vita nuda confinata nella stanza di una servitù; una donna che realizza tutti i privilegi e le comodità dei codici sociali e cerca una rottura radicale, un confronto esistenziale e una dissoluzione.

Nella stanza di Janair

Una chiave viene consegnata a GH dalla cameriera nera in partenza, che lascia l'elegante casa. All'ingresso della stanza di servizio, la stanza della cameriera, vediamo incollata una piccola bandiera brasiliana.

La stanza spogliata contrasta con l'intero sontuoso appartamento, decorato con opere d'arte. La stanza è una prigione: un armadio e un materasso logoro arrotolato su una struttura del letto/culla. Siamo dentro Grande casa e quartieri degli schiavi ancora una volta, una narrazione aggiornata negli appartamenti dei ceti medio-alti e nelle forme di assoggettamento dei servizi domestici. Allo stesso tempo, GH capisce che dall'interno della stanza della cameriera veniva vista nei suoi privilegi, nella sua vita indifferente, nel suo candore.

Il film parla dello sguardo: chi guarda, da dove guarda, chi mi vede, come mi vedo, cosa vedo quando guardo la cameriera, lo scarafaggio, cosa vedo quando mi guardo.

Di fronte ai limiti di ogni rappresentazione, la scrittura di Clarice Lispector e il film si trasformano in rituali di estasi mistica e di dissoluzione del sé nella questione stessa della vita. Un'operazione tra inferno, redenzione e gioia. “Il mondo non mi spaventerebbe se diventassi il mondo. Se fossi il mondo, non avrò paura. Se noi siamo il mondo, siamo mossi da un delicato radar che ci guida”.

“Mi stavo mangiando”

L'immagine ripetuta della materia bianca che esce lentamente dallo scarafaggio schiacciato, “come da un tubo”, le soffici lumache bianche si ripetono a mezzaluna per tutta la narrazione, fino a culminare in una delle sequenze centrali del film in cui GH si precipita nel buio verso lo scarafaggio e urla.

La narrazione evoca segni e suoni da film horror: suspense nella musica, montaggio super accelerato e “non si vede niente”, ma vediamo il suo volto “schiaffeggiato” da un'istanza invisibile, scagliato contro un muro bianco, andando in convulsioni, frustato dalla telecamera.

La scena evoca il montaggio vertiginoso della scena del bagno in Psicosi, di Alfred Hitchcock. Non vediamo l'atto che culmina nella nausea, nel vomito e poi nel giubilo. Non c’è bisogno di mostrare GH che mangia lo scarafaggio, ma subiamo tutti gli effetti della sua decisione: “Tienimi la mano, perché mi sento come se me ne andassi. Sto andando di nuovo verso la vita divina più primordiale, sto andando verso una vita infernale e cruda. Non lasciarmi vedere perché sono vicino a vedere il nocciolo della vita.

Ascoltiamo dall'attrice il manifesto esistenzialista di Clarice Lispector, che va da Sartre a Camus, dalla nausea all'“insensatezza”, dall'assurdo all'estasi di fronte alla vita. “Urla”, mi sono ordinato!” A un certo punto, la narrazione del film evoca anche, con il suo flusso sonoro e le sue immagini convulse, un'orgia demoniaca, elementi di un sabato a cui talvolta allude il libro.

Riguardo a questo tipo di sabba, è comunque interessante notare un documento, recuperato nella mostra Constelação Clarice, presso l'Istituto Moreira Salles di San Paolo tra ottobre 2021 e febbraio 2022, a cura di Eucanaã Ferraz e Veronica Stigger, che certifica la partecipazione di Clarice Lispector al Primo Congresso Mondiale sulla Stregoneria a Bogotá-Colombia, nell'agosto 1975, quando fu invitata a presentare la storia “L'uovo e la gallina”. Se c'è stregoneria in Clarice Lispector, lei si avvicina sempre di più a questo significato radicale, alla conoscenza delle cose e alla maledizione patriarcale che cade sulle donne e sui loro corpi autonomi.

Non abbiamo difficoltà ad associare la letteratura di Clarice Lispector al pensiero e all'esperienza femminile e femminista, con le sue casalinghe trascendentali e donne della classe media che praticano una politica dell'essere che trascende i cliché del linguaggio politico. I loro corpi parlano di una caccia alle streghe immemorabile, di rapimento dell'autonomia di donne trattate come serve del diavolo per la loro saggezza, gestione della vita, indipendenza. Uccisi negli incendi, come spiega Silvia Federici in Calibano e la strega: Donne, corpo e accumulazione primitiva (Elefante).

Nel film sentiamo i suoni di un rito sabbatico mentre vediamo il volto estatico di Maria Fernanda Cândido: “Mi ero unita all'orgia sabbatica. Adesso so cosa succede nel buio delle montagne nelle notti delle orge. Lo so! Lo so con orrore: le cose vengono prese in giro.

Nonostante la marcatura sociale del gruppo, di questa donna magra avvolta in segni di ricchezza, l'attrice-personaggio esprime multimondi, da un'affettazione civettuola a una sorta di resa totale ed epifanica di fronte al vitalismo del mondo, un processo di iniziazione e estasi mistica che dà significato e densità a parole difficili da sostenere.

“La vita è mia”, scrive Clarice Lispector. “La vita è mia e non capisco quello che dico. E quindi lo adoro. L'immagine finale del film è questo grande sì all'esistenza in primissimo piano, “Lo adoro”, “Lo adoro”. Un solo attimo di risata aperta, ampia, che si trasforma in risata e risata libera. Una possibile risposta al grido di disperazione e di orrore per il gusto della vita e del vivere.

*Ivana Bentes È professoressa presso la School of Communication dell'UFRJ. Autore, tra gli altri libri, di Media-Crowd: estetica della comunicazione e biopolitica (Mauad X). [https://amzn.to/4aLr0vH]

Riferimento


La passione secondo GH
Brasile, 2024, 124 minuti.
Regia: Luiz Fernando Carvalho.
Sceneggiatura: Luiz Fernando Carvalho Melina Dalboni.
Cast: Maria Fernanda Cândido, Samira Nancassa.


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