L'avventura brasiliana di Robinson Crusoe

Cornelius Norbertus Gijsbrechts, Trompe l'oeil. Letter wall con fodera a pettine e libretto di musica, 1968
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da OMERO VIZEU ARAÚJO*

L'eroe borghese e schiavista all'origine dell'ascesa del romanticismo

La saga dell'avventuriero inglese che trascorre ventotto anni isolato su un'isola disabitata è passata dall'essere la trama di un romanzo del XVIII secolo a diventare, secondo Ian Watt, una sorta di mito della cultura occidentale. Vale la pena ricordarlo tra i personaggi analizzati nel libro Miti dell'individualismo moderno: Faust, Don Chisciotte, Don Juan, Robinson Crusoe, di Ian Watt, l'unico mito che emerge dal XVIII secolo è Robinson Crusoe, gli altri provengono dal XVI e XVII secolo, il che è ancora un segno della forza di fascino del personaggio di Daniel Defoe.

Il mio interesse qui è meno da discutere, nel romanzo Robinson Crusoe, caratterizzazione dei personaggi, flusso della prosa, ecc., e altro ancora per valutare episodi che interessavano poco alla maggior parte dei commentatori, incluso forse il più famoso tra loro, Jean Jacques Rousseau. La mia attenzione è sui momenti prima e dopo le avventure e disavventure sull'isola deserta, cioè la proposta qui è di valutare dove Robinson parte per il suo sfortunato viaggio e cosa gli succede dopo essere stato salvato.

Una prospettiva marginale, anzi periferica, per avvicinarsi al classico tanto spesso citato, che ci permette di rivendicare qui una leggera supremazia, del resto si tratta dell'esordio del Brasile tra i classici del romance occidentale. Oppure avremo un romanzo prima del 1719 in cui Bahia de Todos os Santos appare come un centro di zucchero schiavista?

Del resto non si pretende qui una maggiore originalità nel registrare un precoce trionfo del romanzo realistico europeo, che nei suoi primi tentativi di tracciare i sentieri della borghesia descrive già una lontana e prospera colonia portoghese tropicale. In questo senso, l’obiettivo qui è quello di contribuire a una storia d’amore nel Nuovo Mondo, che potrebbe includere – ma sarebbe davvero una sorpresa? – il prestigioso romanzo il cui eroe divenne mito, poiché l’esperienza coloniale fu catturata prematuramente nella tradizione letteraria occidentale. Alla periferia della trama di Daniel Defoe, si inserisce l'esperienza brasiliana, o, meglio, secondo la tesi marxista, si svela l'accumulazione primitiva e la sua violenza, in un registro che inquadra e relativizza il nucleo più gradevole della favola di uomo fatto da sé, che è diventato così famoso.

Vale anche la pena ricordare che il libro di Daniel Defoe è letteralmente all'inizio dell'emergere del romanzo secondo Ian Watt, in un altro famoso testo, L'ascesa del romanticismo, il cui terzo capitolo, e il primo dedicato a uno specifico romanzo, è “Robinson Crusoe, individualismo e romanticismo”. Per Ian Watt, dentro Robinson Crusoe Il cambiamento avvenuto rispetto alla regola e alla convenzione classica si manifesta già con grande acutezza: “Nella sfera letteraria, filosofica e sociale, l’attenzione classica all’ideale, all’universale e al collettivo si è completamente spostata e occupa il campo moderno della visione principalmente del particolare isolato, del significato appreso direttamente e dell'individuo autonomo” (WATT, 1990, p. 57). Pertanto, il realismo avanzò fortemente verso la deconvenzionalizzazione che si sarebbe intensificata fino a stabilire nuove regole nella narrativa occidentale.

Secondo Ian Watt, Daniel Defoe stabilisce un nuovo livello di espressione: “Daniel Defoe, la cui posizione filosofica ha molto in comune con quella degli empiristi inglesi del XVII secolo, espresse i vari elementi dell’individualismo in modo più completo di qualsiasi altro scrittore prima di lui, e il suo lavoro presenta una dimostrazione unica del rapporto tra l'individualismo nelle sue molteplici forme e l'emergere del romanzo. Questo rapporto è evidente con particolare chiarezza nel suo primo romanzo, Robinson Crusoe.” (WATT, 1990, pag. 57).

L'interpretazione di Ian Watt nel libro in questione viene rielaborata nel libro stimolante e articolato di Franco Moretti, Il borghese: tra storia e letteratura, il cui secondo capitolo analizza e interpreta Robinson Crusoe come sintesi degli attributi borghesi. Una parte del capitolo verrà rivisitata nelle prossime pagine e risulterà chiaro quanto gli devo per aver scritto questo saggio, anche se per caratterizzare la sua borghesia Crusoe Moretti considera relativamente poco la narrazione nel suo complesso e gli episodi precedenti e successivi alla isola. Ma è Franco Moretti a dare il giusto risalto alla rilevante circostanza in cui Robinson Crusoe ha finalmente accesso allo status di uomo agiato, cosa relativamente disattesa dagli studi sull'opera.

Rousseau raccomanda di ignorare le “avventure” di Robinson Émile, dal 1762, quindi estratti da Robinson Crusoe che si riferiscono ad episodi esterni all'Isola della Disperazione ed estranei all'autocostruzione di Robinson, o meglio, esterni alla disciplina e all'intelligenza che darebbero il midollo dell'individuo isolato ma efficiente. Qui seguiamo la linea opposta a questo orientamento prestigioso, che ci porta a valutare la presenza della schiavitù nel libro.

E per quanto riguarda il rapporto di Robinson con la schiavitù, vale la pena notare che il personaggio è ben lungi dall'ignorare le procedure e la violenza dell'attività, soprattutto perché lui stesso è stato ridotto in schiavitù sulla costa atlantica africana, prima di sbarcare a Bahia. Lì dovette scappare, con l'aiuto di un ragazzo di nome Xuri, da un feroce proprietario di schiavi, il che non impedì a Robinson di vendere Xuri, quando si presentò l'occasione. La vendita prevede una clausola attenuante che soddisfa i dubbi sentimenti di Robinson.

Ian Watt commenta: “Consideriamo, ad esempio, il modo in cui Crusoe ha trattato Xuri, il ragazzo moresco con cui fugge da Sale. Crusoe promette a Xuri, "se ti fidi di me, ti farò un grande uomo" (p.45), in seguito il grande affetto e gli ammirevoli servizi di Xuri portano Crusoe a dire che lo amerà "per sempre". Ma quando entrambi vengono salvati dal capitano di una nave portoghese, e Crusoe cerca di accordarsi con lui, riceve dal suo salvatore un'offerta di 60 reais de otto (antica moneta iberica) – il doppio del prezzo pagato a Giuda – per la possesso di Xuri. Per alcuni istanti Crusoe fu “riluttante a vendere la libertà del povero ragazzo, che mi aveva così fedelmente aiutato a recuperare la mia”(…); ma finisce per non resistere al denaro e, per salvare la faccia, dispone che il ragazzo «sia rilasciato entro dieci anni, a patto che diventi cristiano». Crusoe avrà l’opportunità di pentirsi della vendita, ma ciò avverrà solo quando si renderà conto che Xuri potrebbe essere di grande utilità sull’isola.” (WATT, 1997, pag. 173)

Il pragmatismo schiavistico di Robinson era già definito, quindi, prima di arrivare nelle terre brasiliane, dove, secondo il racconto in prima persona del libro, non si fa menzione di schiavi e fustigazioni per narrare l'evoluzione patrimoniale di Robinson. La favola non così ingenua di uomo fatto da sé e il profilo del soggetto borghese impegnato e disciplinato assume letteralmente contorni sinistri e mercantili, una volta esposte le ragioni che indussero Robinson a imbarcarsi nuovamente per attraversare l'Atlantico verso le coste della Guinea.

Lascia Salvador per procurarsi schiavi in ​​Africa e tornare in Brasile dove consegnerà l'ordine ai suoi amici e collaboratori a Bahia; Si tratta cioè di una nave di schiavi su cui Robinson fa naufragio e i cui relitti allevieranno i suoi ventotto anni di isolamento. Si tratta fin qui di condizioni fortuite e meno rilevanti (secondo chi?) per la trama, anche se tutt'altro che anodine. Ma quando si avvicina la fine del romanzo, il Brasile ritorna in primo piano. I ventotto anni di pertinacia, lavoro e disciplina sull'isola non fruttarono a Robinson una sola ghinea: fu il reddito degli schiavi provenienti dalle terre brasiliane a garantire il pacifico e prospero ritorno di Robinson (tramite cambiali!) in Inghilterra.

Affinché Robinson Crusoe potesse godere di uno status adeguato nella sua terra natale, dovevano entrare in gioco i proventi provenienti dal circuito della tratta degli schiavi del Sud Atlantico, il che spinge il centro meritocratico del romanzo nella categoria della divagazione ideologica per coprire la brutalità del valore di estrazione dello schiavo lavoro, opportunamente distante e astratto. Del resto, quando si tratta di chiudere i conti, tutto lo sforzo e la disciplina del buon borghese diventano vani, e ciò che conta davvero è l’investimento nella zona mercantile e schiavista, cioè il reddito ottenuto dagli sforzi degli africani schiavizzati in Portoghese americano.

Reddito a cui Robinson ha accesso grazie a un colpo di fortuna che lo ha riportato a Lisbona presso un commerciante onesto e gentile disposto a pagare ciò che gli doveva. Siamo cioè, ancora una volta, sul piano di procedimenti arbitrari e avventurosi, con colpi di fortuna decisivi in ​​contrasto con il calcolo, la disciplina e la proiezione razionale che garantiscono la sopravvivenza sull'isola e la fama del libro. Un borghese in cerca di lezioni di prosperità dovrebbe disobbedire a Rousseau e leggere le mosse secondarie di Defoe per ottenere il profitto necessario, in un'ironia che si traduce in conseguenze formali sull'andamento della prosa, sull'enfasi del narratore, ecc.

Il pellegrino riluttante nel tropico degli schiavi

"Oh, Signore, non mi compreresti una Mercedes Benz" (Janis Joplin).

Dopo essere stato salvato con Xuri sulla costa nord-occidentale dell'Africa, dove era in fuga dopo essere stato ridotto in schiavitù, Robinson viene gentilmente accolto dal capitano della nave, che cerca anche di acquistare successivamente Xuri. I due signori si superano nella reciproca cortesia e cercano di trattare il giovane musulmano, con una clausola che accontenta Robinson: “Tuttavia, quando ho esposto le mie ragioni al Capitano, ha ammesso che erano giuste e mi ha offerto un compromesso: che si sarebbe assunto davanti al ragazzo l'obbligo di concedergli la manomissione entro dieci anni, se si fosse convertito al cristianesimo. Pertanto, poiché Xuri ha accettato di andare da lui, ho permesso che diventasse quello del Capitano” (DEFOE, 2011, p. 83).

Dopo la cordiale trattativa sugli schiavi, la nave attracca in Brasile, o Brasile, come simpaticamente definisce Defoe e sostiene l'ottima traduzione di Sergio Flaksman. O meglio ancora, arriviamo a Bahia, più precisamente a Salvador, a metà del 2011, dove l'avventuriero inglese poteva imbattersi in Gregório de Matos Guerra e sentire parlare di un illustre sacerdote Vieira. Il paragrafo è breve ed enfatico: “Abbiamo fatto una grande traversata verso il Brasile, e siamo arrivati ​​a Baía de Todos os Santos, nel porto di São Salvador, in circa ventidue giorni. Ora ero stato nuovamente salvato dalla più miserabile di tutte le condizioni. E dovevo considerare cosa avrei fatto dopo nella mia vita. (DEFOE, 83, pag. XNUMX)

Ma, trattato bene dal capitano della nave, Robinson non ha nulla di cui lamentarsi, poiché tutto ciò che trasportava nella sua piccola barca una volta salvato potrebbe diventare merce: pelle di leopardo, pelle di leone, scatola di bottiglie, due armi, ecc. “In una parola, ho accumulato con il mio carico circa duecentottanta pesi d'argento duro; e con questa eredità sono sbarcato in Brasile” (DEFOE, 2011, p. 83).

Armato di una certa ricchezza e di non poca fortuna, Robinson cerca di andare in un mulino (“vale a dire, una piantagione di canna da zucchero e una casa per la raffinazione dello zucchero”) dove acquisisce familiarità con le tecniche di produzione e capisce come le persone vivevano e si arricchivano. proprietari coloniali. Cerca subito di acquistare quanta più terra possibile e inizia a piantare cibo e presto anche tabacco, oltre a mantenere i contatti con un proprietario terriero vicino, figlio di genitori inglesi, ma nato a Lisbona. Borghese ben calcolato, Robinson lamenta l’assenza del suo giovane schiavo: “Ma entrambi avevamo bisogno di mani; e ora mi rendevo conto, più di prima, che avevo sbagliato a sbarazzarmi del mio ragazzo Xuri. (DEFOE, 2011, pag. 84).

Questa percezione innesca l'intervento del narratore, riferendosi alle prime pagine del romanzo, quando optò per una vita avventurosa a scapito dei consigli paterni. L'intervento si compone di un paragrafo abbastanza lungo che trascriviamo di seguito. Il tono patetico della riflessione contrasta con la frase breve e calcolatrice già menzionata, che lamenta gli schiavi per la follia di aver ceduto Xuri al Capitano portoghese.

“Purtroppo però il fatto che io abbia sempre preso la decisione sbagliata non è stata una novità. E ora non c’era altra scelta che andare avanti. Avevo avviato un'attività molto lontana dal mio temperamento, e direttamente contraria alla vita che mi dava piacere, per la quale abbandonai la casa di mio padre e ignorai tutti i suoi buoni consigli; no, stavo entrando in una situazione intermedia, ovvero nello strato più alto delle posizioni inferiori, come mi aveva già consigliato mio padre, e che, se avessi deciso di seguire, sarebbe stato come restare a casa, senza mai dare in tutte quelle fatiche mondane. E mi dicevo sempre che avrei potuto guadagnare tanto in Inghilterra, tra i miei amici, quanto avrei potuto fare a cinquemila miglia di distanza, circondato da stranieri e selvaggi in terre sconosciute, e a una distanza tale che non avrei mai potuto avere notizie dalla parte del mondo dove avevano qualche notizia della mia esistenza. (DEFOE, 2011, pag. 84-85)

I lettori che hanno familiarità con la retorica compiacente e patetica del narratore Crusoe ricorderanno diversi passaggi dopo questo in cui lamenta la mancanza di discernimento e saggezza, che porta l'eroe a tuffarsi in episodi sfortunati in cui anche la divina provvidenza viene menzionata come irrimediabile e misterioso.

I posteri comprenderanno Robinson come un individuo di talento in mezzo alle avversità del mondo in via di mercificazione, mentre Robinson stesso si percepisce, in generale, come un protestante, un credente sottomesso alla volontà divina o, addirittura, un “pellegrino riluttante” , nella formula del critico J. Paul Hunter, citata nell'introduzione di John Richetti: “I puritani e altri devoti protestanti del XVII e dell'inizio del XVIII secolo furono incoraggiati a tenere diari religiosi e a scrivere autobiografie spirituali, resoconti di come essi c'era la sensazione di essere stati salvati, registrazioni dei sentimenti più profondi che dovevano assicurare loro di essere il bersaglio della grazia divina, incoraggiandoli a tenere sempre presente il loro più alto destino spirituale. Il romanzo di Defoe, prodotto in questo periodo, si adatta al modello, e si può dire che questo approccio fu sancito dallo stesso Defoe, quando pubblicò, nel 1720, Riflessioni serie durante la vita e le sorprendenti avventure di Robinson Crusoe (Riflessioni serie durante la vita e avventure sorprendenti di Robinson Crusoe), raccolta di saggi e meditazioni religiose presentate come riflessioni religiose di Crusoe sul significato della sua storia. Si risveglia dall'indifferenza religiosa e spirituale all'idea dell'intervento provvidenziale di Dio nella sua vita. Per quanto complesse e particolari possano essere le vicende della sua vita, esse finiscono per assumere nella sua mente la forma del racconto centrale della salvezza cristiana. (RICHETTI, 2011, pag. 25-6)

Per i nostri scopi in questo saggio, un pellegrino riluttante assediato dagli appelli degli schiavi (l'addio anticipato al suo Xuri, ecc.) che lo portano a riflettere sui consigli paterni, sulla sua volontà un po' ribelle e sul paradosso di soddisfare i suoi desideri paterni a cinque mille miglia lontano dall'Inghilterra tra sudditi cattolici in un tropico esportatore. Un paradosso che può rendersi evidente solo attraverso una ragione capace di discernere interessi e posizione di classe (“strato più alto da posizioni più basse”), in un esercizio di sociologia rudimentale che dà un tocco moderno al rimorso del figliol prodigo di estrazione biblica.

In altre parole, siamo di fronte a una prosa complessa e vivida in cui alle motivazioni religiose adottate da Robinson si contrappone la spinta imprenditoriale e avventurosa del personaggio che può oscillare tra contrizione cristiana e avidità individualistica nella vertigine da un paragrafo all'altro, che relativizza e determina al meglio il puritanesimo di Crusoe: “Aggressivo ed energico, indipendente e produttivo, Robinson si definì, col tempo, anche per la sua paziente sottomissione alla volontà di Dio, per la sua devota accettazione di un destino misterioso che non può essere cambiato” (RICHETTI, 2011, p. 21).

Tornando alla narrazione nel momento in cui l'abbiamo lasciata, cioè con Robinson che si rammarica di non aver avuto i buoni servizi dello schiavo Xuri, inizia una serie di manovre riuscite da parte del personaggio per recuperare ricchezze, inclusa quella che si trovava nella lontana Inghilterra.

Il risultato è che l'inglese lungimirante e organizzato raggiunge una forte prosperità, anche grazie alla rivendita di manufatti molto richiesti nella Bahia coloniale: “E non era tutto. Poiché i miei beni erano tutti di fabbricazione inglese, come stoffa, posta, panno e altri articoli particolarmente preziosi e desiderati nel paese, trovai il modo di venderli tutti con grande profitto; sicchè posso dire che ho ottenuto più di quattro volte il valore del mio compenso iniziale, e sono stato infinitamente migliore del mio povero vicino, dico, nell'andamento dei miei beni, perché la prima cosa che ho fatto è stata comprare uno schiavo negro , oltre ad un servitore europeo, senza contare quello che il Capitano mi ha portato da Lisbona”. (DEFOE, 2011, pag. 87)

E qui si registra il movimento che porta dall’importazione di manufatti inglesi all’acquisizione di servi e di uno schiavo nero per produrre meglio beni esportabili, così il progresso tecnico britannico intensifica la produzione schiavistica in una fattoria di medie dimensioni che promette stabilità e profitti, ma che non soddisfa l'inquieto peccatore in questione: «Se avessi perseverato nella posizione in cui ora mi trovo, ci sarebbe stato spazio per tutte le cose felici tendendo a quelle che mio padre mi raccomandava con tanto impegno, una pacifico e ritiro, e di cui mi disse, così sensatamente, che la vita in una condizione intermedia sarebbe stata piena. (…) Tutti questi passi falsi sono stati causati dalla mia ostinata adesione alla mia stolta inclinazione a viaggiare all’estero, e dall’aver ceduto a questa inclinazione, contraddicendo le visioni più chiare del mio bene, perseguendo in modo giusto e pulito i progetti e le risorse che La Natura e la Provvidenza hanno concorso ad accordarmelo e ad indicarmi come mio dovere”. (DEFOE, 2011, pag. 88)

In effetti, Robinson si lasciò trasportare dalla sua passione per i viaggi e fu pronto ad abbandonare la sua situazione prospera e sicura per intraprendere un'attività forse più pericolosa ma indubbiamente molto redditizia, se il capitalismo mercantile non avesse avanzato il suo slancio verso l'alto. punto di trasformare gli uomini in merci. Un Dio travolgente come quello dei templi protestanti e cattolici si manifestò poi sulle rotte atlantiche per unire America e Africa: Robinson dimostra qui una devozione peculiare a questa forza astratta ma con fini non così imperscrutabili.

I vicini proprietari terrieri di Bahia hanno avuto una conversazione molto interessante con Robinson, che parla fluentemente la lingua locale e li informa dei suoi viaggi in Guinea e parla del “modo in cui commerciavano con i negri lì, e di quanto fosse facile commerciare su quella costa”. , scambiando sciocchezze come perline, giocattoli, coltelli, forbici, accette, pezzi di vetro e simili non solo con polvere d'oro, peperoncino, zanne di elefante ecc., ma anche con negri in gran numero per il servitù in Brasile” (DEFOE, 2011, p. 89).

Di fronte ad un interlocutore così informato, i coloni baiani giunsero alla conclusione che era opportuno procedere ad una spedizione di schiavi per il proprio approvvigionamento, poiché non avevano una concessione reale per vendere schiavi in ​​Brasile: “(…) come era un traffico che non si poteva praticare, non essendo possibile vendere pubblicamente i neri che venivano, essi volevano fare un unico viaggio, portando i neri nelle loro terre private, dividendo il totale tra le loro proprietà; Insomma, la questione era se avrei accettato di salire a bordo della nave come steward di quel carico, incaricato delle trattative sulla costa della Guinea. E mi hanno proposto di avere una quota paritetica di Negros, senza dover apportare alcun denaro alla società”. (DEFOE, 2011, pag. 90)

Robinson nel paragrafo successivo si rammarica della sua imprevidenza che lo portò a imbarcarsi come commissario per gli schiavi, poiché stava facendo rapidi progressi e presto avrebbe ottenuto, sfruttando le sue proprietà, “una fortuna di tre o quattromila sterline, almeno” (DEFOE , 2011, pag.90). E dopo la valutazione relativamente negativa, il personaggio-narratore torna a rimpiangere la sua indole avventurosa che lo porta a non rifiutare la proposta, che riconosce buona e proficua, “allo stesso modo in cui non ho potuto contenere il mio primo errante intenzioni quando non avevo ascoltato i buoni consigli di mio padre” (DEFOE, 2011, p. 90).

Da notare che il motivo dell'imprevidenza porta ancora una volta alla denuncia della sua incapacità ad accogliere i consigli paterni, portando nel circuito patriarcale e familiare la valutazione delle procedure commerciali, ormai nell'ambito delle rotte della tratta degli schiavi. Ma dopo aver evocato la lontana autorità paterna, Robinson, consapevole dei rischi del viaggio, cerca di firmare documenti e preparare accordi affinché i suoi beni restino prosperi in Brasile, redigendo anche un testamento. L'ambientazione è quella di un capitalista avventuroso il mio no troppo, disposti a stabilire garanzie e preparare documenti che tutelino i vostri diritti di proprietà.

Le prove che un rischio calcolato è stato letteralmente corso sono varie e quasi eccessive, anche se l’enfasi retorica retrospettiva è schiacciante e alquanto superstiziosa: “Ma ho insistito, obbedendo ciecamente ai dettami dei miei capricci piuttosto che ascoltare la ragione. E così, armata la nave e ultimato il carico, tutto secondo gli accordi presi con i compagni di viaggio, salii a bordo in un brutto momento, il 1 settembre 1659, lo stesso giorno e mese in cui, otto anni prima, avevo avevo lasciato mio padre e mia madre a Hull, ribellandomi alla loro autorità e lasciandomi stupidamente guidare dai miei interessi. (DEFOE, 2011, pag. 91)

Ancora una volta sembra che si tratti di organizzazione, disciplina e ragione strumentale che misura, calcola e valuta, in contrapposizione al giudizio morale che nega la razionalità stessa del procedimento, con il riluttante pellegrino che si imbarca nella sua spedizione di schiavi che lo porterà infatti condurlo al naufragio nei Caraibi, al largo dell'Isola della Disperazione, dove trascorrerà una lunga stagione. Riconoscendo l'enfasi e la dimensione del commento-lamento, con il narratore che interrompe il racconto dei preparativi per il viaggio in nome della riflessione e della moralità, il lettore un po' ignaro potrebbe relativizzare il pragmatismo e l'interesse commerciale in gioco, per identificarsi con il narratore. e d'accordo con lui.

Si può sostenere che si tratti proprio del patto di adesione ricercato da Daniel Defoe, il che non impedisce all'autore di spiegare nel dettaglio i preparativi che precedono il viaggio e le misure e le attività corrispondenti, un'esposizione decisiva per stabilire una prosa realistica, nel formulazione di Franco Moretti: “E la stessa logica vale per i dettagli della prosa di presa letterale: il loro significato risiede meno nel loro contenuto specifico che nella precisione senza precedenti che introducono nel mondo. La descrizione dettagliata non è più riservata a oggetti eccezionali, come nella lunga tradizione dell'ekphrasis: diventa il modo normale di osservare le “cose” di questo mondo. Normale e prezioso in sé. Non fa infatti alcuna differenza se Robinson abbia una brocca o un vaso di terracotta: ciò che è importante è la formazione di una mentalità che dia importanza ai dettagli anche quando non contano immediatamente. Precisione fine a se stessa." (MORETTI, 2014, pag. 69)

Il resoconto dettagliato della spedizione, tra gli altri episodi, anticipa infatti i procedimenti narrativi che immortaleranno Robinson come un operoso borghese in condizioni avverse, sebbene l'impresa in corso sia molto meno appetibile come operazione borghese e civile. Viene da chiedersi quale sia stata un'altra spedizione di schiavi con un tale impatto sulla letteratura occidentale.

Lisbona rivisitata oppure “Mi sono sistemata!” di Robinson Crusoe

“…se non si vende, / per alborque / passerà dalle nostre mani, e scambieremo poderi per selve, / poderi per titoli, poderi per muli, poderi per mulatte e arriate, / che scambiare è nostra debolezza e profitto è la nostra forza”.
(Carlos Drummond de Andrade, Merci e sangue).

Il viaggio da Bahia verso l'Africa sfocia nel famoso naufragio “vicino alla foce del grande fiume Orinoco”, in cui muoiono tutti gli occupanti della nave tranne il narratore Robinson. Nell'Isola della Disperazione, secondo il battesimo di Robinson, viene definito il carattere razionale e organizzato di Robinson Crusoe, la cui prosa dettagliata enfatizza la disciplina e l'operosità, come è prevedibile. “La precisione fine a se stessa”, per dirla con Moretti. Durante la sua lunga permanenza di ventotto anni, Robinson ha modo di dimostrare diverse abilità e di ricreare parte della natura dell'isola per i suoi scopi. Jean Jacques Rousseau ritiene quindi che gli episodi interessanti per una buona educazione siano solo quelli che si svolgono sull’isola deserta, come notava Ian Watt in Miti dell'individualismo moderno.

“Quarto punto da considerare: poiché dell’individuo isolato si occupa solo la parte del romanzo ambientata sull’isola deserta, Rousseau vuole che il libro – come scrive, in tono insolente – sia “spogliato di tutti i suoi fronzoli”; vuole che il libro inizi con il naufragio e finisca con il salvataggio di Crusoe. È chiaro che questo cambiamento priverebbe la storia di Daniel Defoe, in larga misura, dei suoi aspetti religiosi e punitivi; da vero precursore dei romantici, Rousseau non accettava l'idea che l'obbedienza al padre e a Dio fosse meritoria. Per Rousseau l’accento dovrebbe essere posto sull’autenticità dell’individuo rispetto ai suoi sentimenti, mentre l’idea di un dovere supremo dovrebbe essere vista come un soggettivismo antinomico”. (WATT, 1997, pag. 180)

Come stiamo qui sostenendo, un’amputazione rosseauiana così radicale priverebbe la storia non solo dei suoi aspetti religiosi e punitivi, ma anche del suo carattere brasiliano, cioè di un’avventura di preda ai margini del capitalismo, o, addirittura, di una traiettoria lapidaria nell’ambito dell’accumulazione primitiva del capitale. Come sostiene in seguito Ian Watt, Rousseau contribuisce a stabilire un modello in cui Robinson Crusoe diventa una sintesi della “filosofia di base dell’individualismo” (WATT, 1997, p. 182), che configura un passo cruciale verso l’affermazione di Robinson come mito. dell’individualismo moderno. Robinson Crusoe diventa “l’epopea di coloro che non si perdono d’animo”, dell’unico uomo la cui interpretazione gli permette di superare le maggiori difficoltà, forse addirittura “un’opera per lo più votata all’egocentrismo immune alla critica” (WATT, 1997, p. 176 ).

Avremmo lì un uomo comune che, visto da solo, si rivela capace di sottomettere la natura ai suoi obiettivi e di trionfare nelle avversità. La favola meritocratica in cui duro lavoro, disciplina, razionalità e dedizione garantiscono la sopravvivenza, la vittoria morale e la simpatia dei lettori. Ma non garantisce la prosperità. Quando viene tratto in salvo è povero come ci si può aspettare da un naufrago, i suoi sforzi di tanto merito sono serviti a garantirgli la sopravvivenza. È dopo essersi recato a Londra e aver proseguito fino a Lisbona per verificare cosa restava dei suoi affari che Robinson si scoprì ricco, come nota Franco Moretti, che tenta di registrare un certo paradosso per cui la ricchezza non derivava dall'attività di Robinson lavoro.

Lavorare per te stesso come se fossi qualcun altro: è proprio così che lavora Robinson. Una parte di lui diventa falegname, o vasaio, o fornaio e passa settimane e settimane cercando di eseguire qualcosa: poi appare Crusoe, il capo, e sottolinea l'inadeguatezza dei risultati. E poi l'intero ciclo si ripete più volte. E si ripete perché il lavoro è diventato il nuovo principio di legittimazione del potere sociale. Quando, alla fine del romanzo, Robinson si ritrova “padrone (…) di più di 5mila sterline” e di tutto il resto, i suoi 28 anni di fatica ininterrotta sono lì a giustificare la sua fortuna. Realisticamente non c'è alcuna relazione tra i due: lui è ricco perché sfrutta gli schiavi senza nome nella sua piantagione in Brasile, mentre il suo lavoro solitario non gli ha fruttato una sola sterlina. Ma lo abbiamo visto lavorare come nessun altro personaggio: com'è possibile che non meriti quello che ha? (MORETTI, 2014, pag. 39-40)

Il lavoro e l'impegno sull'isola, che occupano quasi tutto il libro, sono un principio di legittimazione sociale, ma Defoe non può essere accusato di nascondere l'origine dell'improvvisa ricchezza di Crusoe: è stata la schiavitù in Brasile a portargli prosperità. La novità è tale che c’è un certo lirismo nell’enumerazione delle procedure (contratti, riscossione dei tributi, atti, ecc.) che letteralmente uccide quasi di felicità: “Ora posso dire, senza dubbio, che la parte finale del libro di Giobbe È molto meglio del suo inizio. Sarebbe impossibile descrivere qui i palpiti del mio cuore quando lessi queste lettere, e soprattutto quando mi ritrovai ricoperto di tutte le mie ricchezze, perché, poiché le navi dal Brasile arrivavano sempre in convogli, le stesse navi che portavano le mie lettere anche trasportavo le mie merci, e le merci erano già al sicuro nel fiume quando le lettere arrivarono nelle mie mani. Insomma, impallidii e mi sentii male; e se il vecchio non mi avesse portato un cordiale, credo che quella sorpresa inaspettata avrebbe sconfitto la Natura e io sarei morto sul posto. (DEFOE, 2011, pag. 375)

E Robinson prosegue spiegando come un medico, venuto a conoscenza dell'impatto della ricchezza sul suo paziente, cerca di dissanguarlo e “(…) se quel male non fosse stato alleviato da quello sbocco creato per gli spiriti, sarei morto” (DEFOE, 2011, pag. 376). Non a caso, Robinson si ritrova “proprietario di più di cinquemila sterline in contanti e di vasti domini, come si potrebbero ben chiamare, in Brasile, che producevano più di mille sterline all’anno, con la stessa sicurezza di una proprietà signorile. in Inghilterra” (DEFOE, 2011, p. 376).

L'esito di quella sempre rimpianta disobbedienza al padre non potrebbe essere migliore, anche se c'è molta fantasia nella caratterizzazione dell'onestà, lealtà e devozione dei partner commerciali e patrimoniali del circuito lisbonese e baiano di Crusoé. Non è facile credere che nella fine avventurosa e schiavista del capitalismo i soci garantirebbero beni e redditi ad un commissario inglese per gli schiavi dopo circa 30 anni.

Qui la fede britannica di Daniel Defoe nel rispetto dei contratti sembra mescolarsi con la fantasia avventurosa della tradizione, secondo Moretti: “Per quanto riguarda il successo finanziario di Robinson, la sua modernità è quantomeno discutibile: sebbene il romanzo non porti con sé l'armamentario magico della storia di Fortunatus , che era stato il principale predecessore di Robinson nel pantheon di uomini che si sono fatti da soli moderni, il modo in cui la loro ricchezza si accumula in loro assenza e viene loro poi restituita» (160 smerigliatrici del Portogallo in oro”, “sette bellissime pelli di leopardo”, “cinque scatole di ottimi cioccolatini e cento pezzi d’oro non coniato”, “dodicicento scatole di zucchero, ottocento rotoli di tabacco e il resto del conto tutto in oro” ) ci sono ancora molte cose delle fiabe”. (MORETTI, 2014, pag. 37-8)

Il che è evidenziato anche dall'andamento della narrazione alla fine del racconto, secondo Moretti: “Dall'avventuriero capitalista al gentiluomo che lavora. Tuttavia, mentre il romanzo volge al termine, c'è una seconda svolta: cannibali, conflitti armati, ammutinati, lupi, orsi, una fortuna da favola... Perché? Se la poetica dell'avventura fosse “moderata” dal suo opposto razionale, perché promettere di raccontare “alcuni episodi molto sorprendenti di altre mie avventure” nell'ultima frase del romanzo? (MORETTI, 2014, pag. 42).

Tornando all'accurato resoconto di Franco Moretti di cui sopra, non c'è alcuna fantasia nello stabilire che la ricchezza di Robinson provenga dallo “sfruttamento di schiavi senza nome nella sua piantagione in Brasile”. Qui ha avuto un buon senso mite e amorale Daniel Defoe, che non scommette mezza ghinea sulla versione meritocratica del lavoro retribuito ma cerca di evidenziare come il lavoro faticoso degli schiavi generi ricchezza altrui. Il realismo si combina con il fantastico nella misura in cui sono responsabili del buon funzionamento del gioco piantagione I brasiliani vengono per adempiere ai termini di un contratto firmato, ad esempio, dai brasiliani della generazione precedente, trent’anni prima. Se non è vero, è una buona notizia, potrebbe dire un connazionale di Franco Moretti. D'altra parte, ci sono alcune prove che corroborano, almeno a livello fittizio, il progresso fantastico nell'acquisizione di ricchezza attraverso il saccheggio degli africani ridotti in schiavitù.

Nella letteratura brasiliana, in uno dei rari momenti in cui si racconta una spedizione di schiavi, l'esito è anche un colpo di fortuna. Mi riferisco al capitolo nove “O – ci sono riuscito! – da Compadre”, in Memorie di un sergente milizie, il romanzo ormai classico di Manuel Antônio de Almeida. È un capitolo all'inizio del romanzo, che narra, in retrospettiva, il metodo con cui il Compadre, che allevò e mantenne materialmente Leonardo dall'età di sette anni fino alla giovinezza, acquisì il patrimonio che gli permette di vivere in relativo agio. .

“Da povero, Compadre era un barbiere e sanguinario che percorreva le strade di Rio de Janeiro armato di bacinella, rasoi e lancette. Quando presta servizio, per strada, a un marinaio, viene invitato a salire a bordo di una nave che “viaggiava verso la costa ed era impegnata nel commercio nero; era uno dei treni che portavano i rifornimenti a Valongo, ed era pronto a partire” (ALMEIDA, 2000, p. 115).

Si tratta cioè di una nave diretta in Africa alla ricerca di schiavi. Dopo aver raggiunto il successo nel salvare marinai e carico umano, Compadre sanguina, durante il viaggio di ritorno a Rio de Janeiro, il capitano della nave, che si era ammalato. Ma il capitano muore e gli affida l'incarico di consegnare una buona somma di denaro alla figlia, che non riceverà mai il denaro. Il tradimento della volontà del morente garantisce la stabilità del compadre, che a sua volta garantisce la buona vita dell'infanzia e della giovinezza di Leonardo, il “nostro memorandum” per usare i termini di Manuel Antônio de Almeida.

Quindi, trattandosi di un'eredità derivata dalla tratta degli schiavi, concede un certo sollievo agli uomini liberi, che possono sostenere senza troppi sforzi, ma sempre radendo i propri clienti, il personaggio che diventerà sergente della milizia. Non c'è qui alcun segno di condanna morale, l'impresa degli schiavi è completamente naturalizzata; Pertanto, il tocco trasgressivo del “mi sono sistemato” costituirebbe un mancato rispetto della volontà del capitano defunto.

Si verifica così un incontro pittoresco, e alquanto sinistro, tra la stabilità dell'eroe canaglia di Almeida e la prosperità dell'eroe borghese di Defoe, entrambi alle prese con la fortuna che fornisce loro i beni derivanti dal commercio degli schiavi. Con una svolta alla cosa meravigliosa (“fortuna da favola”), gli episodi trattano anche la procedura medica primitiva dell'epoca, con il Compadre come sanguinatore e Robinson Crusoe che viene dissanguato, il che crea una strana atmosfera familiare.

Non si tratta di forzare un allineamento tra i due romanzi, che sarebbe arbitrario, ma piuttosto di constatare che l'avvicinamento procede, credo, enfatizzando il lato avventuroso dei due personaggi e illuminando somiglianze nell'uso di temi e forme indotte da esperienza nella periferia del capitalismo, che sembra segnare anche un illustre rappresentante dell'individualismo borghese dei suoi esordi quando si avventurò sulle rive e attraverso le acque del Sud Atlantico.

*Homero Vizeu Araújo È professore presso l'Istituto di Lettere dell'UFRGS.

Riferimenti


ALMEIDA, Manuel Antonio de. Memorias de um sargento de milicias. Presentazione e note Mamede Mustafa Jarouche. Cotia: Ateliê, 2000. Col. Clássicos Ateliê.

CANDIDO, Antonio. “Dialettica dell’inganno”. In Il discorso e la città. San Paolo: Due città, 1993.

DEFOE, Daniele. Robinson Crusoe. Trans. Sergio Flaksmann. San Paolo: Penguin Classics Companhia das Letras, 2011.

MORETTI, Franco. Il borghese: tra storia e letteratura. Trans. Alessandro Morales. 1.ed. San Paolo: Três Estrelas, 2014.

RICETTI, Giovanni. "Introduzione". In DEFOE, Daniele. Robinson Crusoe. Trans. Sergio Flaksmann. San Paolo: Companhia das Letras, 2011.

Watt, Ian. L'ascesa del romanzo: studi su Defoe, Richardson e Fielding. Trans. Ildegarda Feist. San Paolo: Companhia das Letras, 1990. WATT, Ian. Miti dell'individualismo moderno: Faust, Don Chisciotte, Don Juan, Robinson Crusoe. Trans. Mario Pontes. Rio de Janeiro: Jorge Zahar Redattore, 19


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