da RICARDO FABBRININI*
Il gruppo monta "Look At Our Own Cancer"; “guarda la vena infiammata dentro la città”
Fin dalla sua creazione, nel 1991, il gruppo Teatro da Vertigem è una comunità di studio e ricerca sulla direzione dell'arte contemporanea e, in particolare, sulla presenza del teatro in città. Ogni messa in scena portata avanti per mesi e anni, risulta da una riflessione estetica trattenuta, inquieta, che costringe il pensiero. Metteremo in evidenza, in questo testo, alcuni dei contributi del gruppo, in questi ventinove anni di attività ininterrotta, al dibattito estetico contemporaneo che ha come centralità l'architettura o la città. Pecas come BR-3, dal 2005 e Bom Retiro, 958 metropolitane, del 2012, che qui metteremo in evidenza, ha contribuito in modo significativo alla riflessione sul rapporto tra estetica e politica, o addirittura, sul potenziale negativo della forma artistica oggi.
In questi pezzi abbiamo vagabondaggi notturni per la città di San Paolo. In Bom Retirò 958 metri, lo spettatore, partendo da a centro commerciale, percorre 958 metri attraverso diverse strade di questo quartiere di immigrati fino a raggiungere la sua destinazione, un vecchio teatro abbandonato. In BR-3, lo spettatore intraprende una gita in barca lungo il deteriorato fiume Tietê, fiancheggiato da strade marginali, in cui viene rappresentata una saga familiare che intreccia le città di Brasiléia, Brasília e Brasilândia.
Questi spostamenti urbani mostrano il carattere ibrido degli allestimenti del gruppo che, fin dalla sua creazione ad opera degli ex studenti del corso ECA-USP, concepisce il teatro come un campo allargato, o addirittura come una comunità delle arti, in cui ognuno di loro si rivolge a per la cattura di forze, cioè per l'agire di nuove forze sensibili in nuovi materiali, anche se la “scrittura scenica” di Antonio Araújo opera, in ogni nuovo progetto, come “vettore di unificazione dei linguaggi”, nell'espressione di Silvia Fernando.
Questa inseminazione reciproca tra i linguaggi è evidente nelle passeggiate estetiche del gruppo Vertigem, che si inseriscono, senza epigonismi, in una genealogia ambulante che risale alle visite-escursioni antiartistiche del gruppo dada, organizzate da Tristan Tzara , nel 1921, a luoghi banali, insipidi, di Parigi o dintorni, scelti secondo criteri di gratuità, come un giardinetto intorno alla chiesa Saint-Julien-le-Pauvre, nel 1921, commentata da André Breton; peregrinazioni surrealiste nella parte inconscia della città moderna, sotto le macerie delle riforme urbanistiche di Haussmann, come quella descritta da Luis Aragon ne “Il contadino di Parigi”, del 1926, alla ricerca di sorprese o rivelazioni straordinarie, ovvero il sensazione del meraviglioso nella quotidianità, portata dal “vento dell'eventualità”, nella constatazione verbale di Breton; o le derive situazioniste che miravano ad abitare la città in modi alternativi, in cui il tempo utile sarebbe stato sostituito dal tempo ludico-costruttivo (e non dal tempo del sogno, in senso surrealista); o anche l'esperienzaavere le vertigini” (vagare senza meta, o a pas perdus) pelliccia "territorio attuale” dal gruppo Stalker, coordinato da Francesco Careri negli anni '1990; o, infine, il nomadismo degli “artisti radicali”, secondo l'espressione di Nicolas Bourriaud, che, non radicandosi in un unico territorio, produrranno, con i loro spostamenti, “scambi culturali”.
Em BR-3 e Bom Retiro 958 metri, tuttavia, a differenza di questi interventi artistici, c'è un'azione drammatica che guida il percorso estetico che si infiltra nella città, anche se questa azione è aperta all'indeterminatezza, all'imponderabilità del divenire ad ogni nuova presentazione. Durante la deambulazione, dentro Buon ritiro 958 metri, l'azione drammatica mostra, con incisive immagini scenografiche, che questo quartiere è stato storicamente caratterizzato dall'accoglienza di diversi flussi migratori: italiani, ebrei, coreani e boliviani. Senza lo scopo di una ricostituzione didattica o addirittura cronologica della storia dell'immigrazione, lo spettacolo mostra i conflitti nei rapporti di lavoro, soprattutto tra coreani e boliviani, nella regione.
Non si può però attribuire alla sua drammaturgia il genere epico, ma la rapsodia, qui intesa come “mosaico di scrittura in montaggio dinamico” (Jean-Pierre Sarrazac), cioè come ibridazione dei generi epico ed epico drammatico. Questa tensione tra i generi, così come tra il tragico e il comico, è caratteristica di questo teatro in cui tutto è posto sotto il segno della polifonia e della critica. La partecipazione del pubblico, composto anche da passanti occasionali, è un'altra voce concreta e creativa di questa polifonia che modifica l'opera, in quanto incorporata, nel corso delle presentazioni, nella drammaturgia stessa.
Per questo motivo, le pièce del gruppo Vertigem materializzano scenicamente le nozioni di “condivisione del sensibile” e “dissenso” di Jacques Rancière, senza ricorrere a tali nozioni per applicarle alla loro drammaturgia. Rancière, è bene ricordarlo, ritiene che “l'arte collettiva”, promuovendo la “condivisione del sensibile”, possa contrastare gli spazi di segregazione sociale. In reazione all'accoglienza stereotipata del pubblico, queste manifestazioni promuoverebbero, nel linguaggio dell'autore, una “autentica politica dell'anonimo”. Quest'ultima nozione, tuttavia, non ha alcun significato sostanziale o ontologico, in quanto l'autore non la identifica con un particolare gruppo o classe sociale.
Rancière caratterizza, in altre parole, l'“anonimo” come “un collettivo di enunciazione e manifestazione che identifica la sua causa e la sua voce con qualsiasi altra, cioè con tutti coloro che non hanno diritto di parola”. Bom Retiro 958 metros, in questa direzione, attribuirebbe visibilità alle “forme di vita” che sfidano le “pratiche di consenso”, perché, “concedendo a chi non ha nome, un nome collettivo” (come gli immigrati clandestini, resi invisibili in laboratori di cucito), sarebbe “riqualificare una data situazione”. Al centro della riflessione di Rancière c'è la convinzione che certe manifestazioni estetiche possano fondare il dissenso, che sarebbe all'origine della politica.
Il dissenso è uno spazio di conflitti, non di punti di vista, né di reciproco riconoscimento di diritti, ma di “conflitti sulla costituzione stessa del mondo comune”; su “ciò che si vede e si sente in esso, sui titoli di coloro che vi parlano per essere ascoltati e sulla visibilità degli oggetti che vi sono designati”, nella stessa caratterizzazione dell'autore. Bom Retirò 958 metri non sarebbe, quindi, teatro politico solo per i messaggi che trasmette sull'ordine ineguale del mondo, o per il modo in cui rappresenta le strutture della società, i conflitti di classe o le identità dei gruppi sociali, ma, soprattutto, per il modo in cui, nel corso della messa in scena,dividere il tempo e occupare lo spazio” in questo quartiere della città di San Paolo.
La vocazione comunitaria del gruppo Vertigem è presente a tutti i livelli del processo di creazione, dalla ricerca iniziale all'autocritica dopo ogni nuova presentazione. Per la realizzazione scenografica, ad esempio, delle successive relazioni di sfruttamento che ridussero il lavoratore immigrato in una condizione analoga a quella di schiavo, mascherata dall'interessato disprezzo del governo di San Paolo, il gruppo si è esibito workshop con gli abitanti di Bom Retiro e con quelli che vi si recavano quotidianamente.
Questo lavoro collaborativo è stato ancora più intenso in BR-3. In questo caso, il processo di creazione ha comportato un viaggio di quattromila chilometri, durante quaranta giorni, a Brasiléia, nell'estremo Acre, ea Brasília, nell'altopiano centrale, così come la residenza, per un anno, a Brasilândia, periferia quartiere di São Paulo, dove il gruppo ha costruito una sede provvisoria. L'incorporazione dell'esperienza vissuta dal gruppo in queste regioni nella struttura della messa in scena non ha portato però a un teatro come documento, cioè di mera comunicazione immediata.
È importante sottolineare questo dato perché, a partire dalla fine degli anni '1990, come ha mostrato Hal Foster, si è assistito ad un progressivo ritorno al cosiddetto referente, con la sostituzione del soggetto definito in termini di relazioni economiche con un soggetto caratterizzati in base all'identità etnica o culturale. Sarebbe la nozione dell'artista come etnografo che permetterebbe, secondo l'autore, di comprendere l'attuale tendenza al “ritorno del reale”. Il drammaturgo, assumendo la posizione di “mecenatismo ideologico”, finirebbe, in tal senso, per ridurre le opere a “resoconti etnografici”.
Non è quello che accade nei progetti del gruppo Vertigem, va notato, perché la loro drammaturgia non “prende l'altro essere come una fantasia primitivista”, in un'idealizzazione secondo la quale ci sarebbe “qualcosa di puro, senza mediazione”. , e, al limite, insondabile; e, viceversa, non presuppone che sia possibile un “pieno accesso all'altro”, assumendo un “assunto realistico” – che implicherebbe, in quest'ultimo caso, legare l'estetica alla politica senza mediazioni. Rifiutando questi presupposti, Teatro da Vertigem assume che la “riflessività”, o “distanza critica”, sia una condizione necessaria per proteggere l'artista da una “sovraidentificazione con l'altro” che, all'estremo, finirebbe per compromettere anche la “ condizione da un altro”. In questo modo i processi collaborativi del gruppo non sono una razionalizzazione, un'attività compensativa, guidata da una beffa di riconciliazione sociale che sopperirebbe all'assenza di politiche pubbliche da parte di uno Stato degradato, come se lo stato generale del mondo potrebbe essere rettificato solo con un po' di buona volontà e qualche lodevole esempio.
È nell'idea di una “formalizzazione instabile” – nell'espressione di Silvia Fernandes – che risiede però la più grande eredità di Teatro da Vertigem al dibattito estetico contemporaneo. Le sue forme “flussi quasi procedurali di teatralità, incompiuti e attualizzati dai vettori di occupazione spaziale” della città, come abbiamo visto in BR-3 e Nato Retiro 958 metri, riarticolano in modo unico l'autonomia della forma teatrale.
Negli allestimenti del gruppo non c'è l'intenzione di superare la forma artistica, al fine di estetizzare la vita nel senso delle avanguardie artistiche del secolo scorso, né la sostituzione della forma artistica con le forme delle relazioni sociali, in direzione di il teatro dell'estetica reale o relazionale degli ultimi due decenni. Le loro elaborate forme teatrali impediscono loro di avvicinarsi troppo alla cosiddetta realtà esistente – la voracità della città – fino a sprofondarvi dentro. In queste forme “lo spazio scenico e lo spazio urbano si riconfigurano reciprocamente”, impedendo l'uno di sussumere l'altro, come ha già rilevato Vera Pallamin.
Preservando la distanza tra arte e prassi vitale, questi pezzi ci permettono di pensare ad alternative alla realtà; qualcosa che rompe finalmente con l'orizzonte del probabile. In altre parole, nelle forme mobili, fluttuanti, che cambiano con l'incontro con l'altro per strada, abbiamo un concetto alternativo di forma artistica (procedurale) perché basato sulla tensione tra autonomia ed eteronomia. Questo teatro di occupazione della città, inteso come “forma problematica”, permette di pensare alla possibilità di sostituire le nozioni di autonomia dell'arte (come autoreferenzialità della forma teatrale, perché regolata dalla sua legge interna) e di eteronomia (come sottomissione di questa forma all'esteriorità della città, alla logica del capitale che disgrega la vita urbana) attraverso la nozione di “eteronomia senza servitù”, secondo l'espressione di Jacques Derrida. Nell'“eteronomia senza servitù” non avremmo la regolazione della forma teatrale da parte di un'esteriorità sovrana, ma la sua incorporazione e trasfigurazione nell'interiorità di quella forma.
Il Teatro da Vertigem è, per questi motivi, un teatro contemporaneo nel senso attribuito al termine da Giorgio Agamben. I suoi pezzi “guardano al nostro stesso cancro”; “guarda la vena infiammata all'interno della città”, come il fiume Tietê, in BR-3, o lo sfruttamento del lavoro nelle carceri private, in Bom Retiro: 958 metri, incorporando la violenza in Brasile nella materialità stessa dell'opera.
È un teatro atemporale, nel senso di Nietzsche, in quanto “fa i conti con il suo tempo”, assumendo una posizione critica, in una elaborata forma artistica, di fronte al presente: “Appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo [dice Agamben] ciò che non coincide perfettamente con questo, né è adeguato alle sue pretese ed è quindi, in tal senso, superato; ma proprio per questo, proprio attraverso questo spostamento e questo anacronismo, riesce più di altri a percepire e cogliere il suo tempo”. Il gruppo Teatro da Vertigem “percepisce il buio del suo tempo come qualcosa che lo riguarda”; cioè è lui che ha ricevuto in pieno volto per tre decenni “la torcia delle tenebre” che viene dal Brasile in quel momento.
*Ricardo Fabbrini È professore presso il Dipartimento di Filosofia dell'USP. Autore, tra gli altri libri, di L'arte dopo le avanguardie (Unicamp).
Versione parzialmente modificata del capitolo “La poetica del rischio del Teatro da Vertigem”, originariamente pubblicato nel volume Teatro della Vertigine; Org. Silvia Fernando. Rio de Janeiro: Editora de Livros Cobogo, 2018.