i religiosi

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Il romanzo di Diderot cerca di destabilizzare, mettere sotto sospetto e sovvertire il fanatismo attraverso la descrizione delle sue pratiche, discorsi ed effetti

Di Arlenice Almeida da Silva*

Nei tempi bui la prudenza consiglia di rifugiarsi nella lettura dei classici. Tuttavia, se alcuni hanno un effetto indulgente o dissolvente sul lettore; altri esacerbano le tensioni, intensificando forze ed energie. Come esempio di quest'ultimo caso, consiglio il romanzo i religiosi (Perspectiva, 2009), di Denis Diderot, letto, se possibile, in compagnia del bel film omonimo di Jacques Rivette (1966).

Quando il film fu censurato dall'allora segretario di Stato Yvon Bourges, in risposta alle pressioni delle associazioni religiose ed educative della società civile, Jean-Luc Godard, in una lettera aperta all'allora ministro della Cultura André Malraux, fece notare con sarcasmo: “quanto è prodigiosamente bello e commovente vedere un ministro dell'UNR, nel 1966, impaurito dallo spirito enciclopedico del 1789”. Fa il film A religioso costituirebbe una minaccia oggi, come lo considerava il gollismo nel 1966?

La risposta è nel libro e nella sua storia molto sintetica, che fa riferimento alle disgrazie di una ragazza di 16 anni di nome Marie-Suzanne Simonin, costretta a vivere in un convento, in quanto figlia illegittima, risultato di una passione sbagliata in passato da tua madre. Senza risorse per una dote o un reddito, è costretta dalla sua famiglia a prendere i voti, farsi suora, rinchiudendosi in un convento.

Il romanzo fu scritto nel 1760, distribuito a pochi lettori, come manoscritto, da Corrispondenza letteraria di Grimm e, infine, pubblicata in volume in Francia nel 1796. Da allora si è formato un consenso nelle fortune critiche dell'opera che non troviamo, in La suora, tesi anticristiane, ma solo un anticlericalismo, visto che Suzanne Simonin sarebbe, in fondo, innocente, cristiana e pia. In questa direzione, il romanzo mirerebbe meno ad attaccare il cristianesimo e più a condannare la pratica della clausura forzata.

Per questo motivo il testo è stato letto, da molti, principalmente come un capitolo di filosofia morale o politica e non come una critica religiosa. In un recente articolo, Anne Coudreuse, infatti, riconosce che Suzanne non è solo una giovane donna senza vocazione alla vita religiosa, in quanto incarna una “figura di resistenza” sociale, la presentazione di una donna che “non può mai sfuggire ” in una forma o nell'altra di reclusione. Tuttavia, proprio per questo motivo, è presente nel romanzo, per lo stesso autore, un'ironica critica alla religione e, nello specifico, al cristianesimo, inteso come “macchina del linguaggio, all'interno della quale il personaggio deve inserirsi per sovvertirlo . lì".[I]

Michel Delon, in direzione di Coudreuse, lo suggerisce i religiosi ha permesso a Diderot di esorcizzare i suoi “demoni, agonie e ossessioni religiose”. Il filosofo, infatti, conosce molto bene gli ambienti religiosi che narra; non solo il collegio dei Gesuiti dove fu educato a Langres e dove a tredici anni quasi pronunciò i voti, ma anche la dissidenza giansenista, allora effervescente, nel Quartiere Latino, in cui il fratello divenne abate intransigente; e il convento Orsoline, de Langres, in cui muore tragicamente sua sorella Angelica, religiosa e pazza, nel 1748.

Così, per Delon, l'anno 1756 segna, in un certo senso, un punto di svolta nella traiettoria di Diderot: quando suo padre muore e lui non può partecipare al funerale, in una lettera all'amico Grimm, si sfoga: “Non ho anche vedere mia madre morire. , né mio padre. Non ti nascondo che la vedo come una maledizione dal cielo”.[Ii] Per Delon, questa sarà l'ultima manifestazione della superstizione, vissuta da Diderot come liberazione religiosa; Da allora si consumano diverse scelte morali ed esistenziali: “quella di Paris contro Langres; dell'impegno enciclopedico contro la fede cristiana; di libertà contro la tradizione”.[Iii]

L'allontanamento dal contesto intimo e familiare, dominato dalla vita religiosa, fu motivato, inoltre, dallo stupore di Diderot per le pratiche del "sequestro delle donne" (convulsionari), un fanatismo giansenista che si era manifestato a Parigi, soprattutto tra le donne, e che fu oggetto di diverse annotazioni nel Enciclopedia; tra loro, Sottolineo lo scritto dello stesso Diderot, nel volume XIV, intitolato “Auxílio” (aiutare), su quei fanatici moderni che si lasciarono trafiggere, tra le altre macerazioni della carne, a una croce, con i piedi e le mani trafitti dai chiodi.

In questa voce Diderot approfondisce il tema della credulità religiosa e delle pratiche di autoflagellazione, meravigliandosi di come queste forme di martirio, quando messe in scena davanti a un pubblico, non nascondessero la sofferenza dei martiri; al contrario, poiché era reale, la sofferenza veniva vissuta dalle vittime e dagli spettatori come sollievo o consolazione. Per Delon, l'interesse per le mortificazioni e i fanatismi religiosi permette a Diderot di collocare «Suzanne Simonin in mezzo alla violenza dei conflitti che dilaniarono la Chiesa francese, tra ultramontani e galiziani, cioè tra i difensori della gerarchia ecclesiastica e il sostenitori di una paradossale democrazia della fede"[Iv].

Diderot, però, non intende scrivere un romanzo di tesi, né partecipare al dibattito teologico; al contrario, mira, attraverso la descrizione delle sue pratiche, discorsi ed effetti, a destabilizzarlo, metterlo sotto sospetto, sovvertirlo, visto che, come afferma Alexandre Deleyre, in un'altra importante voce intitolata “Fanatismo”, pubblicata nel volume VI, nel 1751, di Enciclopedia, "Il fanatismo è la superstizione messa in moto".[V]

Em i religiosi Diderot si concentra poi sulle variazioni della sofferenza monastica, reinventando formalmente il genere romanzesco per cogliere attraverso di esso un particolare rapporto con il corpo martirizzato; cerca cioè di inventare un linguaggio capace di dirlo, mostrando una particolare messa in scena di un corpo che soffre volontariamente. Ora, il corpo è il grande tema non solo della filosofia materialista e della letteratura libertina di Diderot, la sua più stretta affiliazione, ma è particolarmente presente, come abbiamo visto, nei dibattiti teologici che devastarono la Francia nella prima metà del Settecento.

È per questo che Diderot riprende il tema de “ilreligioso in camicia” (religioso nudo o pazzo), la cui origine, in Francia, risaliva alla tradizione anticlericale libertina di Chavigny de Bretonnière e del suo Venus dans le cloître ou la religieuse en chemise, del 1682, per sovvertirlo alla radice. Invece di una satira leggera e gradevole, come avveniva nella trattazione tradizionale, il tema acquista ora nel Settecento intensità e gravità drammatiche, accentuate mediante un lungo racconto che ripercorre il cammino delle esperienze della monaca in tre conventi, ai quali tre corrispondere passioni private. Con ciò Diderot evita ogni effetto comico o libertino, accentuando il patetico.

In un formato misto che articola romanticismo e memoria, Diderot dà voce a una giovane donna ribelle, che non accetta di essere rinchiusa in un convento. Chiamato "M"ricordi”, la voce si riferisce, tuttavia, meno ai ricordi e più al formato di un diario intimo, scritto nella sequenza immediata dell'esperienza, con l'obiettivo di istruire un pezzo legale.

Il genere emula un po' quello praticato in ambito religioso, nel XVIII secolo, soprattutto dai giuristi dei giansenisti che, dopo la bolla Unigenito, del 1713, si difesero dall'accusa di eresia, affermandosi anima della chiesa e vittime dei persecutori. In queste “memorie”, i giansenisti presentavano argomenti di difesa, di fronte alle ingiustizie e agli errori commessi, narrando, dal punto di vista delle vittime, la storia delle loro disgrazie. È con questo tono appropriato e serio che Simone scrive il Memorie di una religiosa che chiede, paradossalmente, non il suo legame eterno con la Chiesa, ma la rescissione unilaterale e definitiva dei suoi voti.

Ciò che garantisce la stranezza di i religiosi è la singolarità di una voce che, quando grida aiuto al cielo, esibisce un'incredulità originaria, una certa “innocenza” o “religione del cuore” che corrisponde a quella che il filosofo chiama religione naturale. Ad esempio, quando Suzanne pronuncia i suoi voti, ciò che racconta è un'esperienza paradossale di dimenticanza e incoscienza, quasi come una follia, perché in quel momento tutti i suoi sensi le vennero meno: “Mi hanno interrogato, senza dubbio, e io, senza dubbio, rispose, pronunciai i voti, ma non ne ho il minimo ricordo, e mi trovai innocentemente convertito in religioso come mi ero convertito in cristiano”. [Vi]

Al convento di Longchamps ritroviamo lo stesso effetto di disorganizzazione, silenzio e silenzio provocato da Suzanne nella Madre Superiora Moni: “Non so cosa sta succedendo in me; dice la madre, mi sembra, quando tu vieni, che Dio si ritiri e che il suo spirito taccia; è inutile che mi emoziono, che cerco idee, che desidero esaltare la mia anima; Mi vedo come una donna normale, dalla mentalità ristretta; Ho paura di parlare”.[Vii]

Questo sentimento profondo, che caratterizza Suzanne, presentato a volte come innocenza, a volte come semplice mancanza di vocazione, a volte corrisponde a quello descritto da Diderot, in nipote di Rameau (Unesp, 2019), come quando dice: “Sono stupida; Obbedisco al mio destino senza ripugnanza o gusto; Sento che il bisogno mi trascina e mi lascio trasportare (…) non saprei nemmeno piangere”[Viii]Fatto sta che, di fronte alla purezza di Suzanne, la pia Madre perde il suo talento consolatorio: mentre Moni e le altre sorelle pregano per l'anima di Suzanne, recitando il Miseria, questo dorme tranquillo, senza sensi di colpa, senza sogni o incubi, innocentemente. Mentre Suzanne è attaccata alle cose e al presente, i piccoli occhi della superiora Moni “sembravano o guardare dentro se stessa o passare attraverso gli oggetti vicini e discernere oltre, a grande distanza, sempre nel passato o nel futuro”.[Ix]

Diderot, dunque, costruisce l'immagine di una ribellione femminile, chiara e sicura, che non si basa su mera psicologia, ma su una singolare critica religiosa, come quando Suzanne risponde categoricamente alla violenta superiora Santa Cristina: “È la casa, è il mio stato, è la religione; Non voglio essere rinchiuso, né qui, né da nessun'altra parte"[X]. In effetti, la sola presenza di Suzanne e il suo gesto di negazione sconvolgono la vita religiosa dei chiostri, rendendo possibile un attacco indiretto alla religione.

Certo, l'isolamento è al centro della critica di Diderot, visto che gli uomini sono naturalmente socievoli ei conventi sono, per questo, istituzioni contro natura. Tuttavia, al di là del confinamento, il corpo, la bocca e la penna di Suzanne sono armi nella lotta contro il "linguaggio dei conventi", cioè contro i mormorii e i gesti che colpiscono direttamente i corpi di clausura, in cui i più vulnerabili diversi giochi di seduzione. Tra sguardi teneri, voci dolci e mani affettuose, proliferano le risorse della maledizione e del dubbio; si moltiplicarono reiterate accuse e insinuazioni, alimentate da piccoli spionaggio, dispiegate in grandi insidie ​​o trappole; nei conventi si inventano stratagemmi discorsivi che, a loro volta, comportano nuove pratiche di mortificazione, che esacerbano penitenze e terrori, piene di raffinatezze di crudeltà.

L'abile manovra di Diderot è quella di permettere al narratore di soffermarsi lentamente sulla descrizione di queste pratiche di sofferenza, suggerendo, attraverso la reiterazione, che esse sono intrinseche alla vita religiosa. Il chiostro è una “prigione” non perché escluda e isoli, ma perché costituisce una società di sondaggi e sorveglianza continua, in cui tutto è raccolto per essere, al momento opportuno, in qualche modo, usato discorsivamente, sia esso come strumento di denuncia e accusa, o di difesa.

È in questo contesto al limite dei processi e dei tribunali che le mortificazioni narrate da Suzanne le fanno riconoscere, con acuta ironia, il paradosso della religione: ho sentito, dice, “la superiorità della religione cristiana su tutte le religioni del mondo; quanta profonda saggezza c'era in quella che la filosofia cieca chiama la follia della croce. (...) Vidi l'innocente, col fianco trafitto, la fronte coronata di spine, le mani e i piedi inchiodati con chiodi, spirare nel patire, (...) e mi aggrappai a questa idea, e sentii rinascere la consolazione nel mio cuore. cuore".[Xi]

L'audacia di Diderot è quella di stabilire letterariamente, attraverso l'inasprimento narrativo, un'approssimazione moderna tra sofferenza e consolazione. Ad esempio, quando afferma, attraverso la voce di padre Morel, di essere entrato anche lui nella religione contro la sua volontà: “I religiosi non sono felici se non in quanto fanno delle loro croci un merito davanti a Dio; poi ne gioiscono, questi vanno incontro alle mortificazioni; più sono amari e frequenti, più si congratulano a vicenda. È uno scambio che fanno della loro felicità presente per una felicità futura; assicurano quest'ultimo con il sacrificio volontario del primo. Dopo aver sofferto abbastanza, dicono: Amplio, Domine; Signore, ancora di più”.[Xii]

Non a caso, questo stesso rapporto tra oppressione e sollievo è ripreso da Nietzsche, nel § 108 della troppo umano umano, (Companhia das Letras, 2000), quando il filosofo afferma che nella vita religiosa non si tratta di eliminare la causa della sventura, ma di modificarne l'effetto sulla nostra sensibilità, “reinterpretandola come un bene”, provocando un'anestesia dolore sofferenza, sollievo o consolazione, fino a diventare un piacere.[Xiii] È per questo che la sofferenza descritta minuziosamente da Diderot è infinita; chiusa in un circolo infernale di seduzione e crudeltà, che sembra non finire mai, il martirio di Suzanne ricomincia sempre da capo, perché senza sofferenza non c'è religione.

Come movimento sempre ripetuto, è la dimensione tragica, intrinseca al cristianesimo; senza di lui non ci sarebbe il miracolo della croce. In ciò risiede l'importanza e l'attualità del romanzo di Diderot: più la narrazione assomiglia a un incubo, più acquista leggibilità, come movimento di descrizione infinita di mortificazioni che non finiscono mai; perché, quando meno te lo aspetti, la sofferenza riprende di nuovo.

Il chiostro non è solo un luogo di ipocrisia e di fanatismo, come dice padre Morel, ma un luogo simbolico di sofferenza che non finisce mai, poiché viene sempre reinterpretato in qualche modo come un bene. Questa interdipendenza tra sofferenza e consolazione, nel senso nietzschiano di “malsano eccesso di sentimento”, scaturisce da una pericolosa metafisica, che, per entrambi gli autori, esclude ogni critica o riforma dei costumi.

Come ha dimostrato Florence Lotterie, c'è a continuo della prigionia nel racconto di Simonin,[Xiv] una presentazione della precarietà del femminile che è infinito, acquista forme imponderabili, ritornando sempre con la stessa intensità. Inizia nella casa di famiglia di Suzanne, continua nei conventi e poi, quando l'eroina riesce a scappare per poter rientrare nella società, incontra ogni sorta di sofferenza: stupro, prostituzione, emarginazione, manicomi e, naturalmente, indegni lavori domestici.

Come logica insormontabile, la voce eccessiva che narra la sofferenza religiosa oscilla, diventando a volte impersonale, filosofica, discorsiva e non narrativa, sfidando il lettore a chiedersi chi stia realmente parlando: se è la voce di Suzanne, se sono le idee del filosofo Diderot, o anche di una folla informe ancora senza voce.

Intenzionalmente, come in Jacques il fatalista e il suo maestro, (Nuova Alessandria, 2019), romanzo del 1771, L'estetica letteraria di Diderot, come mostra Duflo[Xv], esplora l'indeterminazione narrativa, attraverso la quale il lettore viene destabilizzato. Com'è nella sua natura, anche qui Diderot strappa il lettore alla sua passività, trasferendogli la responsabilità di decidere se il racconto delle sequenze di atrocità commesse nei tre conventi sia credibile o vero. Infatti, nel romanzo la narrazione non è e non intende essere credibile, infatti, come dimostra la prefazione allegata, ma, tragicamente, può essere vera.

È per questo motivo che, a La suora, il linguaggio oscilla tra il credibile e il vero, tra fantasia e realtà, così che le sofferenze di Suzanne, come quelle di Werther, di Goethe, sono particolari, cioè esemplari. Toccò alla provvidenza, dice Suzanne, «congiungere su un solo disgraziato tutta la massa di crudeltà distribuite, nei suoi impenetrabili decreti, dall'infinita moltitudine di sfortunati che l'avevano preceduta nel chiostro, e che le sarebbero succeduti».[Xvi]

Diderot sa benissimo come funziona il sistema di credenze ai suoi tempi e quanto sia difficile affrontarlo; sa che la fede avvicina sempre la moralità a un mondo apparentemente ragionevole, organizzato, improbabile e inaccessibile. Ecco perché Diderot parte dall'idea lucreziana di un mondo prodotto dal caso, per fondare una moralità nei rapporti concreti tra gli uomini, cioè specificamente nella felicità degli uomini.

La pietà o l'innocenza di Suzanne non è quindi una strategia retorica, attraverso la quale Diderot può dipingere con contrasti le perversioni dei superiori di convento; né solo una risorsa patetica, fatta di giochi e insinuazioni erotiche, volta a provocare scandalo o lacrime nel suo lettore. Per lui è solo attraverso il linguaggio dell'innocenza naturale, che mette a nudo la vulnerabilità del femminile, in sottili legami tra seduzione e crudeltà, che è possibile affrontare gli abusi delle pratiche religiose: “La pietà di Suzanne non è solo una strategia retorica compiacere il marchese de Croismare, conquistando la sua simpatia, ma è l'unico discorso attraverso il quale è possibile una critica efficace del cristianesimo”.[Xvii]

In nessun punto della narrazione abbiamo una sofferenza meramente psicologica, interiore, poiché è sempre sociale e collettiva. Diderot afferma così, senza giri di parole, che il convento “è la latrina (sentina) in cui vengono gettati i rifiuti della società”.[Xviii] Come sottolinea Duflo, tutta la società sa che i conventi “uccidono, fanno impazzire e sono carceri dove vengono rinchiusi innocenti per ragioni economiche e sociali”[Xix]; È per questo motivo che, per il critico, i religiosi è l'unico romanzo dell'epoca dedicato a lungo al tema della persecuzione collettiva.

Delon, nella stessa direzione, trae conseguenze sull'intolleranza religiosa, che vanno certamente oltre il XVIII secolo: “quelli che si sacrificano meglio sono quelli che sacrificano più facilmente il prossimo; il fascino del corpo martirizzato li abitua alla violenza e la certezza di avere un Dio che li incoraggia a perseguitare chi non è dalla loro parte”.[Xx]

Suzanne, in quanto figlia della natura, è dunque una potenza pericolosa, in quanto immune al linguaggio dei conventi: il suo cuore è “inflessibile” alla consolazione; da un lato, non accetta di essere considerata peccatrice, indegna o abbietta; dall'altra vuole la felicità nel presente e non nel futuro, anche senza sapere dove trovarla; non si lascia così sedurre dalla retorica consolatoria di Moni, né dalle violente torture di Madre Cristine, né dalla seduzione dei possibili piaceri erotici di Madre Santa-Eutrope. Non essendo vulnerabile, come le altre, sa usare la parola a suo favore, esercita autocontrollo linguistico e scrive la propria difesa, in fretta, abusando di brevi frasi, con un tono che oscilla tra la forte agitazione e la grande serenità; nelle sue parole, "bene o male, ma con velocità e facilità incredibili".

Ecco la voce di una donna “naturale e senza artifici”, che implora aiuto, in un mondo dominato dagli uomini, per raggiungere una condizione tollerabile all'interno della società. Nel memorabile paragone che intesse tra foresta e convento, Diderot articola natura e società, nei seguenti termini: “metti un uomo in una foresta, diventerà feroce; in un chiostro dove l'idea di necessità si unisce a quella di servitù, è anche peggio; si esce da un bosco, non si esce mai da un chiostro; nel bosco si è liberi, nel chiostro si è schiavi”.[Xxi]

Se la Memorie di Suzanne sono smentite dai tribunali, e anche dal presunto narratore, nell'impudenza della prefazione-allegato, è per confermare il convento come complemento istituzionale della società stessa, per permettere al lettore di verificare l'oppressione non solo della clausura, ma dalla struttura perversa della società, specie per una povera donna. La tragedia della vita di Suzanne è che anche se riesce a scappare dall'ultimo convento, non sa ancora dove andare.

Se Diderot è pericoloso, è perché esacerba questa articolazione tra sofferenza e consolazione, al punto che il lettore si rende conto, sconsolato, che, in realtà, a Suzanne non resta che continuare a scappare. Questo suggerirà anche André Gide, anni dopo, in i frutti della terra (Difel, 2012), dal 1871: “Quando mi avrai letto, getta via questo libro – e vattene. Vorrei averti dato la voglia di partire, lasciare qualunque cosa e ovunque tu sia, la tua città, la tua famiglia, la tua stanza, i tuoi pensieri.[Xxii]".

*Arlenice Almeida da Silva è docente di estetica e filosofia dell'arte presso il Dipartimento di Filosofia dell'UNIFESP.

note:


[I] COUDREUSE, Anna, La Religiosa di Diderot: una critica al chiostro conventuelle. in: HAL, Montpellier, 2012.

[Ii] Apud: DELON, Michel, Diderot cul pardessus tête. Parigi: Albin Michel, 2013, p. 271 (https://amzn.to/3KPEEmi).

[Iii] Lo stesso, lo stesso.

[Iv] Idem, pag. 262

[V] DIDEROT e D'ALEMBERT, Enciclopedia, v.6. San Paolo: Editora Unesp, 2017, p. 274 (https://amzn.to/3OLiwL2).

[Vi] DIDEROT, Denis, La suora. Costruzione, v.7. Traduzione J. Guinsburg. San Paolo: Perspectiva, 2009, p. 79 (https://amzn.to/3QNgfl5).

[Vii] Idem, pag. 75.

[Viii] Idem, pag. 78.

[Ix] Lo stesso, lo stesso.

[X] Idem, pag. 106.

[Xi] Idem, pag. 121.

[Xii] Idem, pag. 205.

[Xiii] Cfr. NIETZSCHE, Friedrich, Umano, fin troppo umano. San Paolo: Companhia das Letras, 2000, p. 85.

[Xiv] LOTTERIE, Firenze, Diderot, La religiosa, Parigi: Flammarion, 2009.

[Xv] DUFLO, Colle, Le avventure di Sophie. La philosophie dans le Roman au XVIII siècle. Parigi: Edizioni CNRS, 2013, p. 218.

[Xvi] Idem, pag. 128.

[Xvii] Coudreuse, op. cit., pag. 11.

[Xviii] Diderot, i religiosi, P. 133.

[Xix] DUFLO, Colle, Diderot, filosofo. Parigi: Honoré Champion, 2013, p. 440-444.

[Xx] DELON, op. citazione, pag. 265.

[Xxi] DIDEROT, i religiosi, P. 166.

[Xxii] Andre Gide, i frutti della terra. San Paolo, Difel, 2012, p. 15

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