La routinizzazione del modernismo

Immagine: João Nitsche
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da CELSO FAVARETTO*

recensione del libro Lavoratori della modernità di Maria Cecilia França Lourenço

Abituati a vedere l'integrazione del moderno in Brasile come un effetto dei grandi movimenti, tipici dei progetti di rottura, spesso perdiamo il processo eterogeneo di diffusione, differenziazione e consolidamento delle conquiste del modernismo. Se la storia del movimento a San Paolo e l'azione dei suoi principali protagonisti sono debitamente risolte, lo stesso non accade con l'attività artistica e culturale degli anni Trenta e Quaranta. Il periodo, pur sempre valorizzato dal punto di vista della “formazione” della cultura brasiliana, è prevalentemente trattato come una transizione alle proposte e agli scontri innescati dall'inizio degli anni Cinquanta; costruisce una storia fatta di eventi, iniziative, progetti, azioni, che consentono, anche se successivamente, la configurazione di un paesaggio.

Fino a poco tempo fa, il paesaggio di San Paolo è stato delineato da meticolosi studi e interpretazioni che, come un processo di anamnesi, perseguono i presupposti moderni nella variegata attività di artisti, critici, artigiani e politici, coinvolti in attività pubbliche e professionali. A San Paolo, la famigerata effervescenza artistica non contava, nel periodo, con le ingenti risorse pubbliche che a Rio de Janeiro erano favorite dalla vicinanza del potere politico centrale. Qui il senso pubblico della cultura proveniva dall'iniziativa pubblica e privata che, mescolata ad associazioni, circoli, sindacati e raggruppamenti, cercava di affermare il moderno come stile di vita e la modernizzazione come imperativo culturale. Agendo sul ristretto milieu artistico, artisti di diversa estrazione, critici e personaggi pubblici sono interessati a far leva su un'azione coerente con la visione (o lungimiranza) di un paese del futuro. La mentalità democratica nei confronti della cultura, la sensibilità alle cause popolari, l'interesse per l'educazione formale e la modernità delle forme mediano il poliedrico lavoro che si manifesta nell'attività artistica e critica e nella creazione di nuove istituzioni culturali.

Maria Cecília si sforza di raccontare questo periodo in cui, secondo Antonio Candido, il modernismo era routinizzato. Lo sperimentalismo e l'apertura critica sono assimilati, secondo lei, da opere che non sono più rivolte alle élite, ma sono improntate al senso pubblico e mirano alla quotidianità della cultura. L'autore si dedica, quindi, a rintracciare gli eventi che sono sorti a San Paolo: eventi, conferenze, corsi, club, sindacati, mostre, gruppi, gallerie, librerie, notizie di critica e giornalistiche - vedendo nell'apparente dispersione la costituzione in un atto di un progetto moderno interessato ad ampliare il pubblico e conquistare lo spazio urbano.

Questo progetto è, per Maria Cecília, collettivo; non procede dalla sottomissione delle attività ad un progetto tipologico, prima della considerazione di un'attività fatta di arti e mestieri colti, interventi sulla città e creazione di istituzioni, complicità politiche e azioni irriverenti. Nell'insieme di queste azioni, diligentemente tracciate, l'autore individua direzioni originarie: i mutamenti dell'architettura, dove lo spirito moderno coniuga costruttivismo e art-déco; l'importanza della pittura di artisti provenienti dal lavoro artigianale; il contributo di artisti stranieri, in particolare Segall e De Fiori; la formazione di gruppi, come Santa Helena e Seibi; il lavoro critico di Mário de Andrade e Sérgio Milliet; la creazione dell'Assessorato alla Cultura, del Servizio Patrimonio, della Biblioteca e della Pinacoteca, indicando lo sforzo di sistematizzare le azioni culturali; e, infine, le ripercussioni della “seduzione dell'internazionale” come controparte del provincialismo.

Per Maria Cecília, tutte le attività concretizzavano l'interesse comune di, come diceva Milliet, “l'educazione del grande pubblico e la sua elevazione generale”. Si trattava di fermentare e mostrare, raggruppare e insegnare, articolando sempre azioni collettive. Gli “operai della modernità” si impegnarono in cause e lotte che, lontane dalla prospettiva del “genio individuale”, ponevano in pittura, scultura e architettura un desiderio di significato collettivo, talvolta schierandosi. Il significato sociale, esplicitamente o genericamente riferito alla sinistra politica, si estese dall'arte alle espressioni miste, -illustrazione di libri, riviste e giornali, caricature, scenografie e mobili seriali: nella decorazione di residenze ed edifici pubblici, prevalentemente con piastrelle. Quanto a questi, Maria Cecília sottolinea, per la sua argomentazione, l'importanza di “Osirarte”, per il legame che ha stabilito tra lavoro artistico e professionalizzazione e per l'immagine generata dall'attività artistica collettiva. Il mestiere, il lavoro ben fatto di artisti che si sono diplomati al lavoro artigianale, come quelli che hanno aderito a gruppi a Santa Helena o Seibi, collabora a riproporre il moderno e a superare il conservatorismo accademista, combattuto dai modernisti. L'interesse per i paesaggi suburbani, l'ordine visivo e la disciplina costruttiva non si traduce in un superficiale ritorno reattivo all'ordine. È un contributo specifico, non intellettualizzato, dell'operosità quotidiana alla routinizzazione del moderno. Accanto all'irriverenza e all'audacia di Flávio de Carvalho, alla forza plastica e alla sapienza sperimentale di De Fiori, la Família Artística Paulista (Volpi, Rebolo, Pennachi, Bonadei, Zanini, Rossi Osir, Clóvis Graciano ecc.), opera il moderno come intervento E lavoro.

*Celso Favaretto è critico d'arte, professore in pensione presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell'USP e autore, tra gli altri libri, di L'invenzione di Helio Oiticica (Edusp).

Nota:


Lavoratori della modernità. Maria Cecilia França Lourenço. Hucitec/Edusp, 324 pagine.

 

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