da DENIS RIZZO MORAIS*
Il timore di una rivolta simile a quella haitiana ha plasmato l’organizzazione politica brasiliana, consolidando il controllo elitario e l’esclusione delle maggioranze
La società brasiliana, fin dalla sua fondazione, porta con sé un tratto imprescindibile nelle sue relazioni sociali, politiche e culturali: la violenza. Naturalizzata nel corso dei secoli, questa violenza è raramente riconosciuta dalla società stessa, che, mentre perpetua strutture di sfruttamento e di esclusione, proietta un'immagine di cordialità e tolleranza.
Marcos Napolitano osserva che il Paese è segnato da narrazioni di violenza banalizzata, che ne oscurano le origini strutturali. L’aumento dei programmi di polizia, l’allarmante tasso di violenza contro le donne e le persone transgender e, soprattutto, la persistenza della schiavitù strutturale sono alcune delle manifestazioni contemporanee di questa eredità storica.
Una delle radici storiche della violenza strutturale nella società brasiliana risale all’emergere del gruppo chiamato Chimangos (Ximangos). In Tupi “ximango” significa uccello da preda, metafora della voracità e dell'uso della forza come strumento di potere.
Questo gruppo, che più tardi diede origine ai Liberali e ai Conservatori, è comunemente associato alla moderazione politica (nelle scuole di istruzione di base si pone l’accento sulla parola “moderato”, forse un’attenuante diplomatica), ma la sua vera natura è predatoria, poiché la sua proprie affermazioni indicano radici simboliche. Rispetto ai Caramurus (Restauradores) e ai Jurujubas (Federalisti – Esaltati), i Chimango potrebbero essere considerati relativamente più moderati, ma il loro soprannome – uccelli rapaci – rivela l'uso incessante della violenza, sia fisica che simbolica.
Il mantenimento della schiavitù è un chiaro riflesso di questa pratica. Questo periodo fu segnato dalla violenza, creando una cultura politica in cui il conflitto e il dominio furono naturalizzati come forme di mediazione.
I Chimango simboleggiano non solo la lotta per il potere, ma anche l’esclusione sistematica di ampie fasce della popolazione. Concentrando il potere nelle mani delle élite, hanno emarginato le persone schiavizzate, le popolazioni indigene e le donne, perpetuando la violenza strutturale. Questa dinamica continuò nelle successive strutture politiche, consolidando una tradizione di violenza nei rapporti di potere.
Un confronto con gli Stati Uniti può aiutarci a comprendere la violenza nascosta della società brasiliana, soprattutto nell’elaborazione delle sue basi costituzionali. A differenza degli Stati Uniti, che, nel lavoro preliminare alla Costituzione, definirono la rappresentanza degli Stati per “cose” e non per “persone”, considerando gli schiavi come 3/5 di una persona bianca (Tâmis Parron), il Brasile ha evitato una guerra civile legge per preservare la schiavitù, senza la stessa chiarezza – sebbene la chiarezza americana sia brutalmente tragica.
La premeditata indecisione brasiliana tra rappresentare “cose” o “persone” rivela una paura latente: l’haitismo. Come sostengono Ilmar Rohloff de Mattos e Luiz Felipe de Alencastro, il timore di una rivolta simile a quella di Haiti ha plasmato l’organizzazione politica brasiliana, consolidando il controllo elitario e l’esclusione delle maggioranze. Lo strumento istituzionalizzato della violenza è stato reso possibile dalle conoscenze scapolistiche acquisite a Coimbra, in quella che José Murilo de Carvalho chiama l'omogeneità delle élite.
Questa paura, basata sull’idea che il riconoscimento dell’umanità delle persone schiavizzate potesse destabilizzare l’ordine sociale, consolidò una cultura di violenza e repressione. Il dibattito tra il visconte di Cairu e José Severiano Maciel da Costa, nell'Assemblea Costituente del 1824, sul riconoscimento della cittadinanza agli schiavi stranieri, esemplifica il tentativo di evitare una rivoluzione sociale e garantire lo status quo, perpetuando il dominio delle élite e lo sfruttamento delle maggioranze.
La violenza in Brasile non si limita solo alla sfera politica ed economica, ma si riflette anche nel modo in cui la società comunica e percepisce se stessa. La lingua, come strumento di espressione e identità, porta i segni di un passato di dominio ed esclusione. Parafrasando William Shakespeare, che si chiede se una rosa sarebbe meno rosa se avesse un altro nome, possiamo chiederci: saremmo meno violenti se riconoscessimo che siamo figli di rapaci, figli della violenza? La risposta, dal nostro punto di vista, è sì. Riconoscere la nostra storia violenta è il primo passo verso la trasformazione.
In linea con questo riconoscimento, alcune iniziative legislative, come la Legge n. 10.639/2003, che rende obbligatorio l’insegnamento della Storia dell’Africa e della Cultura afro-brasiliana, e la Legge n. 11.645/2008, che prevede l’insegnamento delle popolazioni indigene, rappresentano un significativo passi, almeno in teoria, verso la riparazione delle ingiustizie storiche.
Inoltre, l’implementazione delle quote razziali, l’equiparazione degli insulti razzisti al reato di razzismo e la Legge Maria da Penha rappresentano progressi importanti, sebbene il Brasile sia ancora lontano dal superare questi problemi. A tal fine, è essenziale che l’istruzione di base comprenda queste trasformazioni in modo efficace, creando una massa critica che comprenda il ruolo della violenza strutturale nella formazione della società.
La lingua, come riflesso della nostra identità e mezzo di espressione, continua a portare con sé l'eredità di un passato segnato dal dominio. L’uso di termini che naturalizzano la violenza rafforza questa cultura, rendendo difficile riconoscerne le origini e le conseguenze. Comprendendo le radici di questa violenza, possiamo avviare un processo di ristrutturazione e lavorare per costruire una società più giusta ed egualitaria.
*Denis Rizzo Morais Ha conseguito un master in Storia economica presso l'USP.
la terra è rotonda c'è grazie ai nostri lettori e sostenitori.
Aiutaci a portare avanti questa idea.
CONTRIBUIRE