Amarcord – II

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da LUIZ RENATO MARTIN*

Considerazioni sul film classico di Federico Fellini.

 

Dialogico, epico e satirico

L'antifascismo di Fellini – che opera nell'analisi della spettacolarità propria del regime – si dispiega nella progressiva costruzione di un'estetica dialogica nella sua opera. E, se il linguaggio fascista (fondato sul rispecchiamento generato dalla triade: Famiglia, Patria e Cinema) vuole essere univoco, allora quello di Amarcord, sapendo che è pubblico, presuppone e incoraggia la replica. Questa fondamentale contrapposizione di regimi discorsivi si espliciterà più avanti, nelle scene attorno a Rex e nella successiva incisiva rottura (discussa più avanti).

Prima ancora, ci sono sequenze ambientate nel Grand-Hotel (tipico scenario del cosiddetto “cinema telefonico bianco”, emblematico dell'immaginario modernizzante del fascismo). Santuario delle minuzie e delizie dei prepotenti e beniamini del nuovo impero fascista, in visita alle terme, il Grand-Hotel ha la funzione, in Amarcord, per offrire un ambiente di distinzione per la sessualità organizzata nei termini dettati dal regime. A seconda di questa situazione e come maestro di cerimonie, il Avvocato (vestito da conquistatore d'Africa e, per di più, da elegante seduttore, evocando la colonizzazione fascista della Libia e poi dell'Abissinia) prende la parola, tra un inchino e l'altro, per rivolgersi direttamente all'obiettivo e svelare, tra indiscrezione e complice, leggende di il villaggio, che avrebbe coinvolto Biscein e Gradisca.

Seguono due episodi – distinti, ma dialetticamente simili –, anch'essi della raccolta aneddotica generale: il primo, sulla maestosa veranda dell'albergo, in cui il ballo a cui partecipava il vitelloni, in cui la Patacca avrebbe sedotto una turista tedesca al punto da ottenere la sua resa “fondamentale” ai suoi desideri, come sottolinea per mettersi in mostra.

L'altro racconto, nel tono pastorale e campagnolo di chi non ha accesso al Grand-Hotel, tratta della condotta dello zio Teo, ricoverato in manicomio, durante la passeggiata familiare in campagna organizzata dal fratello, il sig. Aurélio, il padre di Titta che in seguito assumerà esplicitamente il ruolo di narratore. Dalla cima di un albero, il malato piange gli altri, gridando: – “Voglio una donna!” – che poi enigmaticamente cessa all'arrivo della monaca nana.

Insomma, in questa serie, oltre a un'iniziativa sessuale – mai naturale, ma storicamente circostanziata – emerge sempre la versione corrente nel villaggio su quanto accaduto, parallelamente però con una prospettiva o manifestazione dubbia, quando non un richiamo esplicito al giudizio del giudice pubblico. la narrazione di Amarcord evita in ogni modo di chiarire l'avvenimento, limitandosi alla rappresentazione, in regime di citazione scenica, del pettegolezzo diffuso; e, come se fosse estraneo all'intimità dei deponenti, lascia i più intatti.

Perché? Probabilmente perché se l'indagine narrativa fosse il fulcro dell'accadimento e l'opposto delle frottole e delle sporche invenzioni, sfuggirebbe al regime dialogico, per allinearsi sommariamente allo svelamento delle relazioni e, di conseguenza, sottrarre al pubblico il dilemma critico di cosa fare di fronte a voci cristallizzate e attuali. Invece la priorità socratico (se mi permettete di criptare così la questione), si può notare, è quella di formare dialogicamente e accreditare il pubblico contro passioni fuorvianti (principalmente immagini) e come critica dei discorsi.

 

Patologia del pathos di pasta

La sospensione di tali reticenze e riserve narrative, così come la rottura del pudore drammatico, però, arriverà immediatamente nelle scene che precedono l'apparizione del Rex, il transatlantico considerato la gloria navale del regime. La popolazione venuta in massa si raduna estemporaneamente in varie barche e vi aspetta all'aria aperta. L'obiettivo allora cessa di essere sospettoso di confidenze e fantasie, per venire a sbirciare – senza limiti – nelle profondità nascoste di ognuna. A che fine? Come spiegare la mobilità e la trasparenza ora mostrate? Questa è, come puoi vedere, una raccolta di campioni dal pathos di massa, in vigore durante il regime.

In effetti, nelle inquadrature confidenti, l'obiettivo riprende la postura tradizionale della cinematografia fascista, come specchio dei miti e dispositivo compensativo delle deficienze. In questa situazione si instaurano i legami patologici tra spettatore e immagine. Così, così come nella scena dell'idillio nuziale di Ciccio con Aldina, messa in scena di fantasia dal primo, si osserva, nel corso dell'accesso illimitato alla soggettività dei personaggi, il processo di contagio tra rappresentazione intima e socialità collettiva, in termini simbiotici sanciti dal regime. Così, nelle effusioni in attesa di Rex, così come nella réverie di Ciccio, prendono forma non i dati idiosincratici e singolari, ma i cliché psicologici di massa, che erano correnti durante il fascismo.

Così esemplificato il roboante e sdolcinato populismo del cinema di regime, però, avviene un capovolgimento. Alla vista di Rex e tra gli applausi - Lunga vita al Rex! Viva il Regime! – si nota il suo profilo appiattito, realizzato in cartone o simili, e il suo taglio semplificato nello stile tradizionale dei fumetti nordamericani.

Il Rex – che peraltro “viene dall'America” – rimanda dunque ai superspettacoli e alla matrice hollywoodiana di Cinecittà, ma il mare circostante – intravisto in un'inquadratura veloce, ma nitida e chirurgicamente incisiva, come taglio narrativo – si presenta realizzato in materiale plastico. Cosa fare? Altrettanto sconvolgente è, inoltre, la sproporzione verificatasi tra la precarietà dei vascelli improvvisati e affollati e quella figura colossale e deserta, ostentata dalla presunta gloria navale del regime.

Di fronte al campione della modalità di contagio e al conseguente stato simbiotico, il pubblico di Amarcord si trova di fronte a un dilemma: o aderire alla dolce ninna nanna degli adoratori di Rex che fluttuano all'aria aperta e al relativo richiamo del pathos orchestrato, secondo l'approccio che mima gli stampi del cinema fascista; oppure si distingue, rompe l'empatia con la gente del villaggio, e poi si allontana dalla postura generale, a metà tra il rapito e il passivo. Il dilemma è chirurgico e decisivo.

Nella seconda alternativa, il rapido colpo di scena narrativo – che interrompe l'empatia con gli estimatori di Rex – espone la struttura stessa dell'opera nella sua natura antitetica o dialogica. C'è uno shock didascalico, in cui la visione dei meccanismi dello studio come esposizione del modo di fare, si presenta in modo conflittuale, come voltafaccia e salto riflessivo rispetto al segmento precedente, per lo spettatore di Amarcord. In sintesi, il pubblico, nel mezzo del processo dialogico dato dall'andirivieni tra identificazione e allontanamento –, può sperimentare e svelare le relazioni istituenti dell'opera; quindi, elabora il tuo giudizio.

Non è questa la sede per rilevare la vicinanza di questo tipo di costruzione ai postulati della poetica del “teatro epico” di Brecht (1898-1956). Ma io osservo, alla luce delle riflessioni di Benjamin[I] su questa poetica, che le conseguenze di un esame che presenta le disparità e le sproporzioni delle componenti del vortice melodrammatico, come quella fornita dai segni scenici indicati, vanno molto lontano. E, fin dall'inizio, rinvigoriscono il pubblico.

 

Shock didattico e nuovo livello narrativo

Il rovesciamento della prospettiva precedente – che si aggiungeva a quella dei personaggi – focalizzandosi sull'esperienza del pubblico, provoca anche uno iato interiore in ogni spettatore che di fatto ha vissuto lo shock nel suo processo di ricezione. Di conseguenza si apre un tirocinio giudiziario.

In sintesi, lo shock didascalico di fronte alle rappresentazioni esterne implica anche una lacerazione o allontanamento interno in termini di immagine di sé e di veridicità dei prodotti della spontaneità stessa, inclinazioni comprese. L'attività riflessiva o il dialogo interiore così innescato si traduce nell'esigenza di sottoporre, in sé come nell'altro, la capacità spontanea di creare rappresentazioni, insita nell'uomo, al regime del dubbio e del confronto insito nel gioco dialogico.

Didascalico e dialogico, è uno shock tale da spiegare il nuovo passo narrativo di Amarcord. In questo, l'esplorazione dell'universo interiore o le inclinazioni e la presunta spontaneità di Titta e della sua cerchia saranno sottoposte al vaglio diretto del giudizio narrativo, senza la necessità di passare esplicitamente attraverso il dialogo critico o il confronto oggettivato con un'altra versione. L'interiorizzazione o interiorizzazione del setaccio critico corrisponde a un apprendimento o salto di coscienza che installa la narrazione su un nuovo livello critico, per il pubblico attento. Così, le sequenze successive mostrano Titta e gli altri sfogare le proprie inclinazioni e fantasie, ma il fulcro narrativo di Amarcord proporrà prontamente al pubblico, attraverso l'umorismo, la relativizzazione o l'allontanamento di tali rappresentazioni.

Così si vede il nonno, preso dalla paura della morte, figurarsela come una nebbia onnivora; il giovane Oliva, a sua volta, ha proiettato la sua paura della scuola sulla figura di una mucca, apparsa nella nebbia come un totem; e, ancora, i balli di gruppo di Titta, come cullati melodicamente dai famosi Siboney (riletto da Nino Rota [1911-1919]), ma a braccia vuote, seducendosi e irretindosi…

Simili nei contenuti, i termini della narrazione della visita di Titta al tabaccaio, a fine giornata, sono plasmati dall'umorismo, per un'accoglienza critica, già preparata dai precedenti scontri con le voci correnti del paese. Tra il giocoso e il fiabesco, nella distanziata chiave della caricatura, l'episodio di Titta affogata dai seni giganteschi del mercante, donna dai modi alteri e indipendenti, restituisce, come gli altri registri in Amarcord dei giochi erotici praticati nel villaggio, luoghi comuni mediati e circostanziati da inclinazioni segrete o inconfessate, e da funzioni e ruoli sociali dei soggetti coinvolti. In ogni caso, dall'insieme di queste sequenze si distilla una legge o modalità comune per governare, in tutti questi casi, il funzionamento della produzione spontanea delle immagini: essa si svolge, in prima istanza, al servizio di inclinazioni e particolari interessi.

 

creazione di immagini

Come sintetizzare la ridefinizione felliniana – e secondo esigenze dialogiche – della naturale propensione, spesso quasi istantanea, alla cosiddetta spontaneità? Destinata alla simulazione del bene destinato, secondo bisogni e interessi particolari, la produzione spontanea correlata si rivela essenzialmente interessata, quindi non così spontanea come molti credono (tra gli altri seguaci del Fellini memoriale e fantasioso).

I sogni ad occhi aperti di Titta e Ciccio dimostrano come un evento, come una gara automobilistica, possa contribuire alla formazione di una figura ibrida, tesa all'appagamento intimo. Dispositivi per catturare l'altro, ma anche il sé, le rappresentazioni visive così prodotte indovinano, additano o delineano (in immagine) la soddisfazione attraverso il bene che cercano. Valgono come mediazione, una sorta di aspettativa di credito o promessa di possesso dell'oggetto destinato, insomma come forma provvisoria e anticipata di godimento o consumo.

Avendo come substrato inclinazioni e interessi individuali – eventualmente condensati socialmente in rappresentazioni collettive, o, al contrario, rimanendo singolarmente idiosincratici – ogni forma visiva, quindi, invece di portare un valore essenziale o portare una verità (come auspicato dal neorealismo), nasce, infatti, come amuleto o compenso. Deve, quindi, essere sottomessa in ricezione alla rete dei rapporti dialogici e controcorrente, che si traduce – nello scontro – nell'inevitabile plurivocità di ogni immagine o rappresentazione. Ci avviciniamo qui a un autoesame proposto dal racconto di Amarcord? Un'altra astuzia dell'autore? Cosa aspettarsi? La prova cruciale, credo, risiede nell'oggettivo movimento dialogico di rivelare le contraddizioni interne alla narrazione stessa.

Em Amarcord e nell'opera di Fellini in generale, l'evidenza dello studio – dove l'atto della percezione è spogliato di ogni qualità naturale (si veda il caso del profilo e dell'ambiente fuorvianti di Rex) – può essere presa come una dimostrazione del fondamentale processo di denaturalizzazione degli effetti della spontaneità. In tal modo, l'evidenza a supporto (degli effetti provocati, contrapposta all'evidenza degli artifici mobilitati in studio) figura e rivela, come esposizione critica trascendentale del funzionamento delle facoltà, lo schema della percezione di ciascuna; cioè presenta la fabbricazione dell'immagine come un potere dell'artificio, inscritto nella materialità degli scontri di inclinazioni e interessi.

 

Critica contro rappresentazione

In breve, Amarcord parte di una snaturalizzazione del visibile, richiesta dal conflitto con l'altro. Presuppone la delimitazione dialettica della visibilità, secondo stereotipi o “falsità naturali”, secondo obiettivi precostituiti e proiettati a causa della produzione interessata della visione. Pertanto, non c'è nulla e non può essere naturale in Amarcord, ma tutto mostra artificio o interpretazione, come illustrano in modo esemplare l'ondeggiare delle barche e il mare di plastica intorno al Rex. Portatrice di interessi, ogni immagine deriva non dall'oggetto, ma dall'approccio.

 

visione e limite

Sul punto di concludere, il delicato episodio della morte della madre ribadisce in modo dimostrativo la struttura dialogica di Amarcord. Un angolo cruciale del pensiero, si sa, la visione della morte costituisce un momento fondamentale di autocoscienza. In effetti, investita di grande lucidità e valenza drammatica, si vede la morte avvenire o compiersi in tal modo in altre opere di Fellini – come La Strada (1954, La strada della vita), La Dolce Vita ou 8 –, in cui la prospettiva autobiografica – e per una buona ragione, autocoscienza – valeva come riferimento, filo o spezzone di filo di una trama narrativa più ampia (più grande, insisto, perché, in un modo o nell'altro, in una tonalità o nell'altra, appunto, quello che faceva sempre Fellini – nonostante tanto si è frettolosamente detto il contrario – era, insomma, la storia della tarda modernizzazione nell'Italia del dopoguerra).

diversamente dentro Amarcord, la morte si presenta non come oggetto di apprensione immediata, ma piuttosto come oggetto inapprensibile, che è solo oggetto di rappresentazione indiretta. Infatti, la rappresentazione della morte – come esperienza intima e fondamentale di una coscienza – presuppone il punto di vista trascendente di un'osservazione soprasensibile; si intrecciano in un insieme inseparabile, in questo caso, l'autocoscienza e il presunto punto di vista trascendente. Tuttavia, come Amarcord, secondo la dialettica materialista, antitetica e immanente, limitata alla sfera conflittuale dell'intersoggettività dialogica e allo scontro degli interessi – in cui ogni forma o figura ha necessariamente come condizione costitutiva la mediazione dell'altro?

Infatti, la morte è riferita passo dopo passo, in Amarcord, esclusivamente in fase di ricezione da parte di terzi, cioè, in questo caso, attraverso lacune, ellissi nella narrazione o testimonianze indirette, ad esempio: dal tono grave del sacerdote che chiede del malato; per l'allontanamento preventivo del suocero dalla lingua sciolta; dal discorso acuto e tagliente di un cuginetto di Titta; dal tentativo di consolazione da parte di un familiare; dallo svenimento di Patacca, fratello minore del defunto; dal mutismo del vedovo; per la vista del mare per il figlio in lutto, ecc. In conclusione, si consolida, in questo modo, in Amarcord, nella rappresentazione indiretta e incompleta della morte, l'effettivo riconoscimento della mediazione intersoggettiva; la prospettiva dell'alterità è esplicitamente presentata, come principio strutturale della narrazione dialogica, materialista e democratica, di Amarcord.

 

Infantilismo e nazionalismo

La riduzione del valore simbolico della rappresentazione del passato o la sua delimitazione critica, altra premessa programmatica o criterio della modalità narrativa di Amarcord, è visualizzato nella scena del matrimonio di Gradisca. Agli occhi del pubblico, questo è apparso fin dall'inizio della narrazione come un'evocazione condensata di tipi come Gina Lollobrigida e Sofia Loren. Portava così l'eccessivo valore del paradigma dell'“eterno femminino” all'italiana. Finalmente unito a uno carabiniere, come vuole la trama, con lo stesso nome dell'apostolo-narratore per eccellenza (Matteo), e che manifesta giubilo cantando alla maniera fascista – “Viva l'Italia” –, dunque araldo del fascismo nella città o nel villaggio, Gradisca si rivela, come valore sotto esame critico, rappresentazione emblematica o mitologica di “bella Italia“; vale a dire dal paese tutelato dalla Chiesa e visceralmente legato alla nobiltà, al provincialismo e all'autoritarismo, insomma il paese periferico e arretrato, indicato con l'ironico soprannome di Italiano, di Fellini e Pasolini (1922-1975), tra gli altri. Viene quindi e definitivamente ridefinito, in forma vernacolare, il fascismo come modalità narcisistica di massa, ovvero di affermazione e socializzazione dell'infantilismo alla scala della nazione.

 

sbarazzarsi di te stesso

Per le adolescenti, il matrimonio di Gradisca significa rivisitazione critica e rottura con il passato, in quanto implica lo scollamento dalla matrice correlata della femminilità. Gradisca equivale nel cuore di Titta all'immagine idealizzata della madre; è quanto suggerisce lo scambio proposto dal montaggio, nella scena del labirinto di ghiaccio che si dipana e segue il breve scambio di parole tra lui e il prete, che gli chiede della salute della madre. In sintesi, Gradisca aggiorna e risponde in eco ai desideri dell'infanzia di Titta, ancora attiva nel suo passaggio all'adolescenza. In tal senso, ben presto, dopo l'esperienza della definitiva assenza della madre, come un bene per sé, Titta viene a conoscenza del matrimonio di Gradisca, vale a dire, in questo caso, che lei, per scelta e atto, aveva deciso su un altro: il carabiniere Matteo.

Per quanto il pubblico possa seguire, la contropartita di queste perdite, per Titta, si traduce virtualmente nella conquista della percezione della rimozione permanente di Gradisca, ovvero, come mostra visivamente la narrazione, diventa la possibilità di visualizzare l'immagine di Gradisca in movimento via se stesso in macchina, come un semplice punto in lontananza, quasi indistinguibile all'orizzonte.

Il riconoscimento della separazione consiste anche consecutivamente, insieme all'ammissione dialogica dell'alterità, nella possibilità per Titta di ottenere la condizione di guardare riflessivamente; cioè elevarsi alla condizione di narratore e installarsi così al di sopra dei propri atti e valori, per delimitarli criticamente, così come le rappresentazioni e le pratiche della vita (situata, come si è visto, alla periferia e sotto il fascismo).

 

Narrare

Disimpegnati, secondo i termini di Amarcord, diventa il presupposto per poter raccontare se stessi e gli altri. Questo movimento funziona come spiegazione didattica dell'attività dialogica del narrare. Si può ragionevolmente concepire o dedurre, quindi, la tendenza all'approssimazione e alla fusione del personaggio (Titta) con il fulcro o punto di vista narrativo principale, data dalla co-determinazione tra l'attività di enunciazione e quella di critica o di trasformazione totalizzante del senso .di esperienze passate attraverso la parola, la vista e/o la memoria. In sintesi, così nasce il narratore nella misura in cui, attraverso la riflessione, accede alla possibilità formativa di diventare l'altro o di assimilare le esperienze degli altri.

Insomma, la facoltà di narrare o trasformare, secondo lo schema di Amarcord, presuppone il distacco critico da se stessi – la maturazione dialogica dell'opposizione a se stessi, attraverso l'auto-allontanamento, verso i punti di vista degli altri; o, per abbreviare: il potere (riflessivo) di compiere il passaggio dall'esperienza individuale a quella collettiva.

* Luiz Renato Martins è professore-consulente di PPG in Storia economica (FFLCH-USP) e Arti visive (ECA-USP). Autore, tra gli altri libri, di Le lunghe radici del formalismo in Brasile (Haymamercato/HMBS).

Seconda parte della versione modificata dell'articolo pubblicato su Carlos Augusto Calil (org.). Fellini Visionario: La Dolce Vida, 8 ½, Amarcord. Società di lettere, 1994.

Per leggere la prima parte dell'articolo clicca su https://dpp.cce.myftpupload.com/amarcord/

Nota

[I] Vedi W. Benjamin, Qu'est-ce que le theatre épique. in: Opere/ volume III, traduzione di R. Rochlitz, pp. 317-28. Traduzione brasiliana: Cos'è il teatro epico / Uno studio su Brecht.

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