da JALDES MENESES*
Antonio Cicerone, poeta e filosofo delicato e riflessivo, mancherà, ma non morirà, poiché la sua opera terrena durerà tutta la durata dell'esistenza umana stessa, non quella del cosmo trascendente e ineffabile, ma della cultura
“Conservare una cosa è guardarla, fissarla, ammirarla, cioè illuminarla o esserne illuminato”
(Antonio Cicerone, salva).
Antonio Cicerone, il grande artista e intellettuale che ci ha lasciato questa settimana, era un erudito del suo tempo, un greco antico in stato di catarsi, o un cartesiano razionale e illuminista. In una lotta corporale agonistica, si impegnava a separare gli indumenti contraddittori del filosofo e del poeta nell'unità del suo corpo e del suo intelletto. In questa vivente incarnazione della contraddizione rifulse nella sua bella vita anche un caso particolare di fusione della migliore erudizione con la musica popolare. Per fortuna, Antonio Cicero era il sofisticato paroliere partner della cantante Marina Lima, sua sorella, e di compositori come João Bosco, Lulu Santos e Adriana Calcanhoto e, allo stesso tempo, nella sua altra veste, un filosofo.
A loro volta, invece, sono due i grandi temi legati nell'opera filosofica di Antonio Cicerone: il concetto di modernità e, per estensione, l'estetica o, per meglio dire, le presunte configurazioni di un'estetica della modernità. Per quanto riguarda la modernità, ha tentato di formulare un concetto teorico rigoroso, trans-storico, andando oltre quello meramente descrittivo, il che non è propriamente una novità, poiché così facendo, infatti, ha voluto riscattare le migliori tradizioni illustrazioni illustrate dell'Illuminismo del XVIII secolo. L'opera che dedica alla modernità si intitola Il mondo dalla fine.[I]
Alcuni pensano che il concetto di modernità significhi culto del nuovo: questa definizione si adatterebbe meglio al concetto di avanguardia. La modernità venne a costituire un tempo storico che inglobava, operando tagli e aggiornamenti (abbiamo incorporato lo spirito tragico, ma rinunciato ai riti sacri del sacrificio), elementi arcaici e il canone classico occidentale, senza problemi né pregiudizi, alla maniera di un grande aspirazione della valvola.
Vogliamo essere moderni ed ellenici e non anacronisticamente ellenici. È noto che la poetica di Omero o la teoria della grazia di sant'Agostino possono contenere elementi di modernità e, attraverso un sano revisionismo storico, essere portate sul terreno contemporaneo e valorizzate come creazioni di uno spirito universale.
La questione centrale, riguardo alla modernità, per Antonio Cicerone non risiedeva nel culto del nuovo, ma veniva posta, per usare le parole di Kant, nei suoi ultimi saggi sull'Illuminismo.[Ii]: la modernità stabilisce un rapporto orizzontale, sagittale, a forma di freccia tra tempo e cultura, mentre in altri tempi storici il rapporto tempo-cultura era gerarchicamente verticale, nel senso passato-presente. L'aspetto veramente nuovo della modernità consisterebbe, secondo la lezione di Kant, nel non concepire più il rapporto con il presente nei termini di un rapporto di valore (siamo in un periodo di “decadenza” o di “prosperità”, come negli autori di la crisi delle civiltà, come A. Toynbee), non longitudinalmente, ma come rapporto sagittale con il tempo presente stesso. In questo modo, l’originalità dello spirito del tempo starebbe nel riconoscere la modernità come un presente permanente, cioè come un ethos basato sulla caducità delle cose come essenza del mondo.
Ecco perché, infatti, il primo Illuminismo si autodefinisce, più che un evento storico, un evento della storia del pensiero. Non sorprende che il nuovo libro di filosofia in stampa, secondo l’editore Luiz Schwarcz, si intitoli “L'eterno adesso”. Antonio Cicerone coniò addirittura un'espressione per designare questo “tempo dell'eterno adesso” – “agoralità”.
Per quanto riguarda una glossa sulla specificità dei tempi moderni, nella concettualizzazione di Hegel, Jürgen Habermas afferma che “la modernità non può e non vuole prendere i suoi criteri guida da modelli di un'altra epoca, deve estrarre da se stessa il proprio orientamento normativo”.[Iii] È vero che ci troviamo di fronte a un paradosso: l’effimero come assoluto. Essere moderni significherebbe ammettere a priori la caducità delle cose e il soggettivismo delle interpretazioni, la consapevolezza del carattere soggettivo e negativo della società. A rigor di termini, la modernità è sempre un processo aperto, in divenire.
Antonio Cicerone parte da un fondamento simile a quello di Habermas, proponendosi di indagare quella che chiama la “concezione del mondo” della modernità. Cercando appoggio in Hegel, e contro il senso comune prevalente in questo XXI secolo, affermerà che i fondamenti delle concezioni del mondo prima della modernità erano oggetti esterni e positivi, come la nazione, la razza, Dio, interiorizzati nel processo di socializzazione dall’esterno all’interno dell’individuo. Insomma, oggetti di dominio piuttosto che oggetti di libertà. Secondo la visione del mondo dell'autore, nella concezione moderna del mondo, non dovrebbe più esserci spazio per “utopie positive” – nel senso di quelle esterne all'individuo.
Ora, ammettendo l’assoluto, anche nella forma del transitorio, il filosofo sfugge alle tentazioni relativiste e nominaliste dei cultisti della postmodernità, che però adottano la posizione dell’adesso – e questa differenza è fondamentale, divide i campi – come assenza di assoluto. Niente di tutto ciò: in Antonio Cicerone l'assoluto è la caducità. Un'operazione che delimita i campi, come si vede: concettualizzare la modernità come fondamento di un assoluto presuppone la possibilità di pensare un'etica della modernità, compresi i suoi aspetti normativi.
Sotto questo aspetto, postulando la continuità della razionalità (nel senso di Kant), la ragione all'inizio dei tempi si è rivelata privata, come, diciamo, una (proto)modernità, e poi il carattere trans-storico si è esteso alla vita pubblica. della modernità, Antonio Cicerone si oppone ai vari relativismi e storicismi. Mi viene in mente qui la polemica di Thomas Paine (i diritti dell'uomo)[Iv] contro Edmund Burke (Riflessioni sulla rivoluzione in Francia),[V] all'alba della Rivoluzione francese del 1789, nel manifesto i diritti dell'uomo, in cui la prima afferma, contro la seconda, che fondamento del diritto non è il costume o la storia passata della nazione, ma l'assoluto.
Secondo il filosofo Piauí-Carioca, concetti storicistici come nazione, razza, costume – o anche l’idea ancestrale di Dio –, sebbene vigenti, non dovrebbero essere accettati come moderni, poiché spostano la formazione della soggettività dall’auto-consapevolezza. coscienza (Hegel) o, paradossalmente, da una simile cura di sé (Foucault), dall'autocontrollo, dall'autonomia, dagli oggetti esterni e positivi, fissati nella forza oppressiva del passato e nella norma imposta.
D'altra parte, poiché l'adesso è un assoluto, questa percezione non si è manifestata solo in tempi moderni, da qui il postulato trans-storico di Antonio Cicerone: elementi di modernità si possono trovare in tempi remoti. Per lui, in qualche modo, modernità significa un processo di razionalizzazione (Max Weber e Jürgen Habermas, tra gli altri, pensavano anche alla modernità come razionalizzazione), autorizzando l'accezione più ampia attribuita al termine, poiché la razionalizzazione, in definitiva, costituisce una caratteristica ontopsichica dell'uomo. Da qui la distinzione, resa celebre da Max Horkheimer e Theodor Adorno, su una nota pessimistica (in disaccordo con il tragico ottimismo che attribuiamo a andatura di Antonio Cicerone), tra illuminismo (processo generale di razionalizzazione) e illuminismo (movimento intellettuale del XVIII secolo).[Vi]
Il pensiero magico razionalizza, all'interno del mito c'è un nucleo duro e razionale, questa è la dialettica dell'illuminazione. Non sempre viene svelato il “nocciolo duro” del mito, fenomeno storico che si è verificato solo nelle società che sono riuscite a possedere quello che chiamo, in questo momento, un rapporto di apertura verso il mito. I Greci avevano questo tipo di rapporto, per questo da lì vennero la filosofia e la storia, discorsi che, in termini generali, trattavano lo stesso tema del mito: natura ed epica.
La differenza fondamentale tra mito, filosofia e storia, tuttavia, riguardava la registrazione del vero in contrapposizione al puro e semplice speculativo, o esclusivamente al simbolico espressivo. Prendiamo l'esempio di Erodoto, il cosiddetto “padre della storia”: preoccupato della verità, insoddisfatto della parzialità eroica dell'epica, andò a verificare i residui culturali degli avversari dei Greci nelle guerre mediche (i Persiani) e valorizzare anche un avversario degno dei greci. In altre parole, nella misura in cui ha cercato di narrare il vero, il cieco ha incontrato la possibilità di riconoscere l’altro. Esisteva dunque, certamente, una “modernità greca”, espressa nella storia dei fatti realmente esistenti,[Vii] e non di dissolutezza dionisiaca, come in Nascita della tragedia di Friedrich Nietzsche.[Viii]
Certamente solo la fase storica attuale è realmente quella della modernità, cioè il momento storico in cui la percezione dell'adesso si è generalizzata. Ovviamente si può dedurre che Antonio Cicerone, pur riconoscendogli originalità, non è il primo a ragionare in questi termini, pur avendo il pregio di ispirarsi al dibattito brasiliano contemporaneo, in tempi di montante conservatore (anche mascherato , in alcuni casi, in veste di sinistra) un razionalismo critico legato alla migliore tradizione illuminista, ricordando che la ragione critica non è anacronistica, né di destra e ben al di sopra di una mera razionalizzazione del dominio (storico ed epistemologico) della l’Occidente capitalista o l’imperialismo collettivo contro le culture che erano bersaglio di pratiche di schiavitù, genocidio o subordinazione dipendente.
Nel perseguimento di un concetto rigoroso di modernità si collocano le preoccupazioni estetiche del nostro autore, privilegiate nel secondo libro di saggi Scopi infiniti. Il titolo fa riferimento all'estetica kantiana, espressa nel classico della terza delle tre critiche, la famosa Critica della facoltà di giudizio.[Ix] Kant affermava che il giudizio estetico-espressivo si disconnette, per un momento, da ogni precedente determinazione di utilità o moralità, stabilendo una particolare sfera di giudizio, e cerca di cogliere soggettivamente il bello.
Scrive Antonio Cicerone, riassumendo Kant e la motivazione del titolo del libro: “Ora, per considerare bello un fiore, non sappiamo né abbiamo bisogno di sapere che cosa debba essere oggettivamente, quindi non lo giudichiamo secondo la sua relativa approssimazione a un determinato scopo: non la consideriamo una tecnica. Anche se, quando lo giudichiamo bello, il fiore ci sembra avere la forma dello scopo, o, in altre parole, ci sembra fatto apposta, tale scopo o scopo non ha nulla a che fare con un fine estrinseco al giudizio estetico stesso: è proprio per questo che ha una finalità infinita.”.[X]
In altre parole, la capacità dell'opera d'arte di comunicare senza basarsi su concetti in quanto costituisce un giudizio singolare. Sull’estetica kantiana, che è ancora molto influente, ad esempio, sulla teoria sociale dell’agire comunicativo di Jürgen Habermas, sono già stati versati fiumi d’inchiostro, e non c’è bisogno di approfondire il suo commento, poiché l’espansione dell’estetica della bellezza ad altri elementi, come la bruttezza, anche la critica all'accento dell'estetica nella sfera dello spettatore, invece che dell'oggetto artistico. Dei problemi scoperti dall'estetica kantiana, pochi sono affrontati da Antonio Cicerone, che già lo descrive e ne tiene conto nell'esame dei suoi oggetti di studio, lasciandogli un saggio specifico sull'argomento e, soprattutto, sull'evoluzione della sua fortuna critica, impasse, problemi e soluzioni, almeno per tutto il XX secolo.
Lettore coscienzioso, l'autore aveva l'erudizione per un'opera di questa portata. È subito curioso notare, di sfuggita, che sebbene una delle sue principali preoccupazioni sia il rapporto tra filosofia e poesia, suggerisce una rigorosa demarcazione dei campi tra le due forme di conoscenza. In sostanza, l'autore si schiera con il partito kantiano in un dibattito classico della filosofia tedesca: il lato di Kant contro quello di figure romantiche, come Schelling e Schlegel, filosofi che proponevano una “nuova mitologia” che introduceva la poesia come nuova educatrice dell'umanità, in contrasto con la filosofia. Niente di tutto ciò, alla filosofia ciò che appartiene alla filosofia; alla poesia ciò che appartiene alla poesia.
Scopi infiniti si compone di più saggi, mantenendo l'unità concettuale. La prova d'apertura, Paesaggi urbani, e/o altro del nucleo, Poesia e filosofia, si discutono soprattutto i rapporti tra poesia e filosofia (e la matassa di questioni da lì dipanata). Forse è questo il nucleo teorico del libro, aggiunto al saggio sul critico d'arte nordamericano, molto noto nel settore, Clement Greenberg (L'età della critica: Kant, Greenberg e il modernismo).
Tre poeti vengono analizzati in saggi specifici: Waly Salomão (La falange di maschere di Waly Salomão), Carlos Drummond de Andrade e João Cabral de Melo Neto (Drummond e la modernità). C'è anche un importante saggio sul tropicalismo (Tropicalismo e MPB) e una nota critica sul concetto (paradossalmente e brasilianamente antimoderno) di modernità in Mário de Andrade. Infine, due saggi sulla poetica greca (Proteo ed Epos e miti dentro Omero, rispettivamente).
Prima di essere poeta, Antonio Cicerone fu un fine lettore di poesie. È sempre un rischio scrivere di autori rinomati come Drummond e João Cabral, di grande fortuna critica. Tuttavia Cicerone fece molto bene ad avvicinarsi all'universo di questi tre grandi poeti. È importante evidenziare che, in Drummond, Cabral e Salomão, il tema privilegiato dei saggi è quello della modernità.
È quasi una verità lapalissiana affermare che Carlos Drummond de Andrade è il più moderno dei nostri grandi poeti, il creatore di un personaggio semplice nel mondo (il poeta stesso) alle prese con i dilemmi contemporanei. Curiosa la scelta di Antonio Cicerone: una delle poesie definita, da un certo consenso critico, la “seconda fase” di Drummond, considerata più mistica, introspettiva, meno partecipativa – La Macchina del Mondo, 32 terzine in decasillabi (96 versi ) – che già rasenta una differenza formale con il verso libero modernista.[Xi]
Nel poema si trova il seguente racconto visionario: una “macchina del mondo” appare davanti al poeta, promettendo una sorta di nirvana, nel godimento di una “scienza sublime e formidabile, ma ermetica”, la “spiegazione totale della vita”. , il “nesso primo e singolare” delle cose. Il poeta rifiuta. L'analisi del poeta rionese sul poeta di Minas Gerais inizia così: “Ciò che la macchina del mondo offriva al poeta era l'equivalente moderno di ciò che veniva offerto a Dante, nella 'Selva obscura': 'questa spiegazione totale della vita' (…) Il poeta rifiuta questo dono e continua, come dice all'inizio della poesia, nell'oscurità del proprio essere disilluso. Deluso, ovviamente, perché senza ulteriori inganni (…) Solo i mondi premoderni potevano pretendere una 'spiegazione totale della vita'”.[Xii]
Ciò chiarisce il rifiuto di Drummond ai doni della “macchina del mondo”. Ma Antonio Cicero critica anche Carlos Drummond, condannando il tono di “rassegnazione e lutto” con cui il poeta accetta il mondo moderno, vedendo un atteggiamento simile allo stoicismo di Max Weber, nel passaggio in cui afferma che è necessario essere “virili” saper sopportare la modernità. Infine, Antonio Cícero contrappone Drummond a Drumonnd, catturando altri versi più attivi e meno rassegnati. In ogni caso, l'autore smonta alcuni malintesi nella lettura di Drummond della cosiddetta “seconda fase”: non c'è “misticismo”, può esserci incredulità e solo, come residuo, una discreta nostalgia per i tempi mistici.
Immersi nel corpo del saggio su Drummond attraverso un breve commento, vale la pena dare credito alle digressioni di Antonio Cicero su João Cabral de Melo Neto, tra le altre ragioni, perché rivelano elementi del pensiero dell'autore. Scopi infiniti, riguardante le avanguardie artistiche del XX secolo. Secondo lui il lavoro delle avanguardie doveva raggiungere la modernità artistica, demistificando i luoghi e le forme convenzionali e accademici in cui il senso comune si aspetta di trovare le opere d'arte. Il programma però è già stato completato. C'è sempre stata una contraddizione immanente nell'operato delle avanguardie: era sana quando apriva il ventaglio delle possibilità formali e cattiva quando le chiudeva, dogmatizzando il programma della ricerca incessante del nuovo.
Ora, dato che il programma dell'avanguardia era già stato compiuto, la questione odierna non è più proprio quella della novità, ma quella della permanenza. In sintesi, sulla poetica di João Cabral, soprattutto sul testo di testimonianza teorico-analitica del poeta di Pernambuco, il noto saggio di Cabralino, intitolato Poesia e composizione.[Xiii]
Scrive Antonio Cicerone: “per le tesi di Cabral vale ciò che si può dire delle tesi delle avanguardie in generale: che sono vere nella misura in cui aprono strade, e false nella misura in cui le chiudono. Pertanto, considera inferiore "la poesia che parla di cose che sono già poetiche", poiché ritiene che la poesia dovrebbe cercare di "elevare il non poetico alla categoria del poetico". Queste tesi divennero dogmi tra molti giovani poeti. Ora, ora, in limine, È discutibile il tentativo di assumere il tema dell’opera d’arte come base per pronunciare giudizi estetici su di essa. È evidente, quindi, che tali tesi sono vere solo a metà, cioè sono vere nella misura in cui significano che la poesia non ha bisogno di parlare di cose che sono già poetiche; d'altra parte, nella misura in cui implicano vietare alla poesia di parlare di cose che sono già poetiche, sono false (…) E perché un poeta non potrebbe creare un'ottima poesia parlando di qualcosa di cui hanno già parlato molti altri poeti? ”.[Xiv]
Evidentemente i tamburi di Antonio Cicerone non sono indirizzati al poeta di Cane senza piume, ma alla nuova generalizzazione di una certa dizione cabralina, a una ricezione equivoca, da parte di molti, delle questioni interne della poesia e della situazione poetica in cui visse João Cabral de Melo Neto, rappresentando un'avanguardia senza disinvoltura.
A sua volta, la sfida di affrontare la poesia di Waly Salomão, poeta brasiliano contemporaneo recentemente scomparso (1943-2003), è completamente diversa da quella dei poeti affermati. Si tratta di coprire un terreno quasi vergine, stabilendo punti di riferimento fondamentali per il futuro. Antonio Cicero svolge, a mio avviso, una critica sintomatica, quasi genealogica, a margine, del testo di Salomão, mirando a spiegare l'insieme delle sue intenzioni criptate (la falange di maschere), da cui deduce la complessità della scrittura di l'antico tropicalista baiano, per me proprietario di alcuni dei versi più belli e sonori della lingua portoghese contemporanea (un esempio, in Tesoro: “Saporo il tuo favo/ Scavo la luce diretta del cielo”).
C’è molta mitologia e poca critica attorno alla controversa figura di Waly Salomão. Cicerone smentisce subito versioni stereotipate, non gradite anche al poeta criticato, come “poeta marginale” e “carnevalizzazione”. Niente di tutto questo, la poesia di Waly Salomão è stata molto pensata, elaborata, risultando in un'intensa riscrittura, scontrandosi infatti con l'improvvisazione prosaica dei cosiddetti marginali; e quanto alla “carnevalizzazione” (Bakthin), anch'essa non si applica, perché il defunto poeta baiano negava di mirare al grottesco o al parodico, o addirittura di portare il registro del popolare all'erudito, attributi della “carnevalizzazione”.
Il saggista di Rio, al contrario, suggerisce un movimento di “teatralizzazione” nella poesia di Waly Salomão. Cosa significa questo? Il semplice fatto sociale che siamo tutti, in qualche modo, teatro. Spiega l'autore: “se tutto è già teatro, se anche il fatto è teatro, che senso ha la teatralizzazione? Il “fatto” sociale è il teatro inconsapevole del proprio carattere sociale”.[Xv]
Il poeta e saggista osserva che Waly Salomão rifletteva sui principi di identità e contraddizione, nelle figure di un'identità fissa, che conduce solo a se stesso, che non cambia. A sua volta, la radicalizzazione dell’idea di identità fissa si traduce, di conseguenza, nella negazione della contraddizione. Penso che, mettendo in discussione i principi di identità e contraddizione, Waly Salomão possa essersi avvicinato alla dialettica negativa, nel senso di ricercare, diciamo, una non-identità. Tuttavia, ovviamente, la ricerca della non identità era più intuitiva nel poeta baiano, configurando un progetto più realizzabile, poiché si svolgeva nell'ambito del linguaggio poetico, mentre la dialettica negativa di Theodor Adorno mirava a sorprendere la non identità attraverso la propria propria identità, attraverso un lavoro paziente e ragionevole.
Vorrei anche commentare uno dei versi più noti di Waly Salomão, analizzato dal saggista Rio: “la memoria è un'isola di editing” (Lettera aperta a John Ashbery).[Xvi] Sebbene l’analisi non ne parli, credo che Antonio Cicerone non debba dissentire dal fatto che ci troviamo davanti a un poeta, in questo caso, anche vicino, forse involontariamente (la poesia non è tenuta a ragionare teoricamente sulle proprie intuizioni), alla matrice benjaminiana. : la memoria non è un semplice processo unilineare e placato di riportare alla luce il passato, ma un lavoro complesso di selezione e assemblaggio, di apparizione e scomparsa.
Antonio Cicerone, poeta e filosofo delicato e riflessivo, ci mancherà, ma non morirà, poiché la sua opera terrena durerà tutta la durata dell'esistenza umana stessa, non quella del cosmo trascendente e ineffabile, ma della cultura. Non è incantato, né diventa una star, anche se questa è una bellissima metafora. È diventata storia nell’incessante vertigine dell’adesso.
*Jaldes Meneses È professore presso il Dipartimento di Storia dell'UFPB..
note:
[I] CICERONE, Antonio. Il mondo dalla fine. Lisbona: Quasi (2a ed.), 2009.
[Ii] KANT, Emanuele. Testi selezionati. Petropolis: Voci, 1974.
[Iii] HABERMAS, Jurgen. Il discorso filosofico della modernità. San Paolo: Martins Fontes, 2002, p. 12.
[Iv] PAINE, Tommaso. i diritti dell'uomo. Petropolis: Voci, 1989.
[V] BURKE, Edmund. Riflessioni sulla rivoluzione in Francia. Brasilia: UnB, 1997.
[Vi] HORKHEIMER, Max e ADORNO, Theodor. Dialettica dell'Illuminismo. Rio de Janeiro: Zahar, 1986
[Vii] EDODOTO. Storia. Rio de Janeiro: Ediouro, 2001.
[Viii] NIETZSCHE, Friedrich. La nascita della tragedia. San Paolo: Companhia das Letras, 2006.
[Ix] KANT, Emanuele. Critica alla facoltà di giudizio. Rio de Janeiro: Forense Universitária, 1998.
[X] CICERONE, Antonio. Scopi infiniti. San Paolo: Companhia das Letras, 2005, p. 198.
[Xi] DRUMMOND de Andrade, Carlos. Poesia completa. Rio de Janeiro: Nova Aguilar, 2003, p. 301-305.
[Xii] CICERO, Antonio. Scopi infiniti. San Paolo: Companhia das Letras, p. 87-89.
[Xiii] CABRAL de Melo Neto, João “Poesia e composizione”. In: Poesia completa. Rio de Janeiro: Nova Aguilar, 1995, p. 103-116.
[Xiv] CICERONE, Antonio. Scopi infiniti. San Paolo: Companhia das Letras, 2005, p. 75.
[Xv] CICERONE, Antonio. Scopi infiniti. San Paolo: Companhia das Letras, 2005, p. 15.
[Xvi] SALOMONE, Waly. Senza senso. San Paolo: Ed. 34, 1996, pag. 43.
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