Antonio Dias

Antonio Dias. Prisoner's Smoke, 1964, olio e lattice su legno. 120,6 cm x 93,3 cm x 6,8 cm. Acquisizione MAC USP 1965.12
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da LUIZ RENATO MARTIN*

Commento sulla traiettoria e sul corpo di lavoro del pittore

“L'arte deve intervenire dove manca qualcosa”.[I]

“La mia idea era quella di rappresentare uno stato di essere e non essere allo stesso tempo; che non può essere descritto da un altro sistema di comunicazione”.[Ii]

Un'opera che non ha stile, che unità avrà? Quale metodo o coerenza accomuna linguaggi diversi come il figurativo e l'analitico, opere eterogenee come la pittura, il cinema, l'installazione, la performance, il libro, il disco, il giornale, il video, l'artigianato ecc. artigianato con la carta (imparato in Nepal), suprematismo, arte materiale, neoespressionismo, ecc.?

Il corpus di opere di Antonio Dias – raccolte nel libro-catalogo di due retrospettive dell'artista, presso il Istituto Mathildenhöhe Darmstadt e al Paço das Artes (S. Paulo, dicembre 1994) – pone una tale sfida. Paulo Sérgio Duarte, autore dello studio più completo esistente, in Brasile e all'estero, sull'opera di Dias,[Iii] affronta l'enigma della varietà di questo lavoro, mettendo in luce il processo lavorativo prima dei prodotti, cioè il valore positivo degli oggetti stessi.

Insomma, per Duarte varrebbe di più l'unità sintetica dell'opera, il metodo, piuttosto che i manufatti. Quindi abbiamo l'arte come cosa mentale, come voleva Leonardo, ovvero un'opera effettivamente riflessiva, che Duarte indaga attraverso tre assi di interrogativi: “la discrepanza tra arte e società, tra il soggetto e il suo corpo in gioco con un processo che lo frammenta e lo lacera”, e anche, la critica d'arte come modalità semantica e conoscitiva. Ma come vengono unificati questi punti nel lavoro?

Duarte indica le fasi del processo. L'illustrazione dell'art, una serie di lavori dei primi anni '70, ironicamente appropriati di modelli dell'arte concettuale e del minimalismo, al fine di sovvertirne l'orientamento. Dias riduce così la questione ontologica dello spazio, e il programma minimalista in generale, per privilegiare la critica dell'istituzione o del modo sociale dell'arte.

La ribellione e la combattività dell'opera di Dias furono notate nel 1967 da Mario Pedrosa.[Iv] Duarte sottolinea, in un'opera del 1965, Nota sulla morte inaspettata – già con “un cast di strutture sintattiche ed elementi lessicali” tipici del lavoro attuale –, come i dati pop vengono messi in discussione dai valori del costruttivismo russo, nella composizione e nella riduzione cromatica al bianco-rosso-nero. E come l'iconografia apologetica del mondo del consumo e/o dello spettacolo, tipica del pop, lascia il posto a una commistione di icone religiose e immagini del crimine (la critica sostituisce la reiterazione).

Dias, per Duarte, nega anche il feticcio autoriale e, piuttosto, quello della priorità della coscienza rispetto all'atto o all'origine metafisica del Sé. Le immagini del corpo, nell'opera, “non trasferiscono sullo schermo dati onirici, non rappresentano fantasmi”, ma rivelano il corpo come “costruzione psicologica”. E, attraverso l'“archeologia del presente”, l'opera propone l'autonomia dello sguardo.

Il viaggio di Dias in Nepal, nel 1977, per imparare a fare la carta non significa, secondo Duarte, né l'adesione alla cultura orientale né la reificazione di un nuovo medium, ma un nuovo grado di dialogo (affettivo, compreso) con il fare; dialogo che rinnova “l'astuzia del soggetto cosciente del suo oggetto”. Le “carte dal Nepal” conducevano così alla fase attuale, segnata da una riflessione “sobria” e dalla battuta d'arresto della tendenza del recente neoespressionismo che “fonde l'immagine a simulacro della scena dell'atto pittorico”, mentre il l'opera di Dias, “separando l'emozione della visibilità” e “la conoscenza degli affetti della memoria”, conduce “al rigore di una struttura i cui elementi non sono mascherati”. Perché, in questo processo, sintetizza Duarte, “separare, invece di unire, per non ingannare (...) è il nucleo della potenzialità critica”.

Interrogato dalla critica, il lettore/spettatore ha qualcosa da giudicare, visto che il libro – che è squisito –, oltre a riportare le parole di Dias, in dialogo con N. Tilinsky, del team Mathildenhöhe, contiene nel restante quasi 2 /3 un'ottima panoramica fotografica del lavoro di Dias dal 1967 al 1994 – anche di pezzi molto recenti come la serie Pittura brasiliana/Giungla della Bosnia 1994 (dal testo di Duarte).

Alla luce dell'opera nel suo insieme, spicca la sua controversa genesi. Così, l'evoluzione dei cambiamenti nel supporto e nel linguaggio nell'opera segue la logica della parodia e dell'antagonismo; Dias si oppone, passo dopo passo, ai codici dominanti nell'ordine mondiale delle arti. Dagli scontri con il pop alla fase attuale [1995], il lavoro si appropria di modelli e li riutilizza (per esempio, rarefa la gocciolante di Pollock), unendo raffinata maestria tecnica e ironia per produrre distanza.

Dias agisce, quindi, rubando le armi all'avversario e intervenendo nella tribuna del condizionamento dell'arte: lo stile in voga, il mercato simbolico, il potere socioeconomico, il cui carattere globale è evidenziato fin dal 1968 dai sottotitoli in inglese adottati da Dias. Nell'atto della sottotitolazione – di fatto costante in tutta l'opera – si nota il marchio brecht-benjaminiano, in linea con l'idea di ricorrere ai sottotitoli come mezzo per limitare il valore di immediatezza dell'immagine.

Ironia, calcolo e presa di distanza sono centrali nella strategia dell'opera – riflessiva e combattiva; riflessione sul fare e riflessione sulla ricezione (spesso, dalle “carte”, designate dall'uso dell'oro evocativo di aureole nell'iconografia cristiana) si implicano a vicenda – invece dell'attuale dissociazione tra produzione e consumo nel regime mercantile. I sottotitoli (o segni: il dollaro, le ossa, gli strumenti, le bandiere, il piano della galleria… rappresentato sulle tele, dal 1981) delimitano il senso delle opere, allestendo un teatro di operazioni e guidando la riflessione verso obiettivi precisi: la produzione e consumo dell'arte; o temi di maggiore portata semantica, estratti dai media come indici dell'ordine globale (Lin Piao-68, vittoria di Nixon-72, Watergate-73, Bosnia e Brasile-94).

I conflitti endogeni del fare arte, però, attestano la radicalità della sua riflessione. Pertanto, non c'è parte dell'opera che presenti una superficie o una tecnica omogenea. Sia nelle opere più astratte che in quelle più “pittoriche”, la ricezione è sollecitata a fare passi da gigante, cioè ad acquisire gradi di riflessione o punti di vista diversi.

Esemplare è quanto è accaduto nel suo lavoro dal 1980. Di fronte alla moda dei simboli organici e materiali affini, legata al neoespressionismo, – e al ripristino della soggettività individualista, in chiave neoliberista – Dias reagisce realizzando quadri che portare un volto al primo sguardo illimitato e che eccita all'infinito la fantasia (l'oro, qui, ha la doppia valenza di eccitare e ironizzare), solo presto raffreddata dalla percezione dell'uso di pigmenti industriali, e straniata dalla raffinatezza impersonale del tecnica e altri segni. È un volto intercettato, improvvisamente, da altre forme. Che evidenzia l'idea di incompletezza o la radice immanente dello sguardo.

In questo modo antiespressionista o materialista, l'idea di artigianato pittorico sembra essere negata, e il colore non simboleggia nulla; è solo un residuo della materia utilizzata (vedi le carte impregnate di elementi come tè, terra, cenere, ecc. e, nelle tele di Agora [1995], il nero della grafite, il giallo dell'oro e del rame, ecc. .). Tali immagini sono polarizzate tra un appello al sogno ad occhi aperti illimitato e un appello inverso all'astrazione; vi è evidente la condizione di ricezione da parte dell'osservatore: il rifiuto o l'accettazione di partecipare al gioco dialettico della riflessione.

Un esempio è la serie Pittura brasiliana/Giungla della Bosnia, dal cui set, inoltre, è significativamente estratta la copertina del libro. La regola della serie è quella di portare – alla maniera di un riflesso geometrico – una simmetria nei disegni delle macchie sulle due tele rettangolari, che compongono sempre le opere della serie. Le macchie sono dorate mescolate con rame e lo sfondo è a volte malachite verde, a volte acrilico rosso. L'immagine può evocare una pelle di giaguaro, un camuffamento di abiti militari, oro e sangue, oro e giungla – secondo il gusto del cliente. Poiché la struttura è la stessa in entrambi i campi ed evidenzia la simmetria delle proiezioni a discapito delle differenze cromatiche tra i rettangoli, ciò che risalta è qualcosa di esterno alle tele, cioè l'ordine comune o la stessa struttura che ha generato le ripercussioni come le due facce della stessa medaglia – in Bosnia e in “Brasile” (per, secondo Dias, “…per mostrare questa totalità, che esiste fuori della cornice, e che da lì la invade”, p. 54).

* Luiz Renato Martins è docente dei corsi di laurea in Storia economica (FFLCH-USP) e Arti visive (ECA-USP). Autore, tra gli altri libri, di Le lunghe radici del formalismo in Brasile(Chicago, Haymarket/HMBS, 2019).

*Originariamente pubblicato il Giornale delle recensioni no. 01, del 03.04.1995.

 

Riferimento


vv. Aa., Antonio Dias: Opere 1967-1994. Edizione trilingue: portoghese, tedesco, inglese. Stoccarda, Cantz Verlag, 1994, 176 pagine.

 

note:


[I] Cfr. Bertolt Brecht, “Scritti di letteratura e arte – I”, in Opere raccolte, 18, Francoforte sul Meno, Suhrkamp Verlag, 1967, pag. 124.

[Ii] Cfr. Antonio Dias, “In conversazione”, in Antonio Dias…, operazione. cit., pag. 54.

[Iii] Vedi Paulo Sérgio Duarte, “A Trilha da Trama” in Antonio Dias, RJ, Funarte, 1979. [25 anni dopo la pubblicazione originaria di questa rivista, la bibliografia sull'opera di Antonio Dias si è notevolmente ampliata. A proposito, il lettore può consultare, oltre a numerosi cataloghi di mostre, tra le altre opere sull'autore, la grande raccolta del 2015 – curata dallo stesso Dias –, forse la sintesi più completa delle sue opere prima della sua morte, avvenuta il 01.08.2018: Antonio Dias, Antonio Dias, testi di Achille Bonito Oliva e Paulo Sergio Duarte, São Paulo, Cosac Naify/ APC, 2015].

[Iv] “Questo (Dias)… sulla linea del fronte internazionale ha il suo posto di combattimento”. Cfr. Mario Pedrosa, “Dal pop americano a Sertanejo Dias”, Posta del mattino, 29.10.1967; ripubblicato in idem, Dai Murales di Portinari agli Spazi di Brasilia, org. Aracy Amaral, San Paolo, Perspectiva, 1981, pp. 217-21.

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