Antonio Gramsci, l'uomo filosofo

Immagine: Vasco Prado
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da STEFANO G. AZZARÀ*

Postfazione al libro appena curato da Gianni Fresu

Antonio Gramsci: Il marxismo di fronte alla modernità

In un'Italia ancora fortemente egemonizzata dal conservatorismo cattolico e dalle posizioni reazionarie del Sílabo - e in cui è rimasto intatto il dominio non meno reazionario esercitato sull'apparato statale dal blocco formato dalle vecchie classi dirigenti aristocratiche, dalla borghesia settentrionale e dagli agrari meridionali –, l'incontro con le idee di Hegel, rielaborate da Benedetto Croce e Giovanni Gentile, e anche sotto l'influenza dei fratelli [Bertrando e Silvio] Spaventa, significò, per il giovane Gramsci, un vero e proprio ingresso nella modernità.

Si può dire che si trattava di una prima approssimazione al tema della libertà moderna e della sua pratica mondana: la consapevolezza della capacità umana di fare la storia, nonché la possibilità di superare l'antico regime sul piano politico e sociale. Il confronto con due autori di orientamento liberale, ma che furono anche all'avanguardia della cultura europea, si rivelerà molto fruttuoso, soprattutto di fronte alle pesanti macerie positiviste che spesso minano le fondamenta dell'elaborazione politica del Partito socialista, impedendo la sua azione tra le masse (pensiamo, soprattutto, agli stereotipi naturalistici con cui veniva affrontata la questione meridionale).

In quegli anni, proprio la prudenza politica derivata dalla lezione hegeliana, oltre a una concezione universalista della cultura legata all'idea di spirito assoluto, consentirono a Croce di sottrarsi alle tentazioni dell'interpretazione metafisica della prima guerra mondiale, quella "inutile strage” – in questa materia, anche i cattolici erano più avanzati di tanti altri settori politici! –, vista allora in termini di scontro di civiltà o di religioni dalla maggior parte degli intellettuali europei (pensiamo all'impegno di agitazione e propaganda esercitato da eminenti personalità come Max Weber e Edmund Husserl in Germania o Henri Bergson e Éttienne Boutroux in Francia).

Questo realismo, tuttavia, non impedì al grande filosofo di associarsi alla causa dell'imperialismo italiano e di vedere nella catastrofe europea un'occasione benefica che, avendo contribuito a superare le divisioni nazionali derivate dal socialismo e dalla lotta di classe e proiettato il conflitto all'estero sociale, favorirebbe la rigenerazione del Paese, guidando il Risorgimento alla sua conclusione.

Né gli impedì di riaffermare, anche in questa circostanza, il ruolo perennemente subalterno delle classi lavoratrici, configurate come carne da macello da sacrificare in nome della nuova potenza della nazione e del suo diritto ad ottenere un “posto al sole” accanto altri paesi europei più importanti. Parimenti, l'ispirazione hegeliana – peraltro drasticamente ridimensionata dalla teoria della distinzione nell'ambito della dinamica dello spirito – non gli impedirebbe, al tempo della crisi del liberalismo italiano e dell'avvento del fascismo, di prendere le distanze da liberalismo stesso, “democratico” – segnato, a suo avviso, dagli influssi deleteri delle idee astratte del 1789 e dei suoi ingenui principi universalisti – e di simpatizzare, almeno per un periodo, con la dittatura, intesa come garante della stabilità sociale e il diritto alla proprietà (ancora una volta) come barriera per affrontare il socialismo.

A questo punto diventa chiara la rottura di Gramsci con il neoidealismo italiano. Se l'attivismo di Gentile è stato confutato come una forma di fichtismo che risale a un momento precedente alla categoria hegeliana della contraddizione oggettiva, un ultrasoggettivismo vuoto e pronto a sussumere e idealizzare, sotto il concetto di atto puro, ogni forma di prassi ( a cominciare dalla mobilitazione totale e dalla guerra), né il liberalismo crociano aveva assimilato fino in fondo il concetto universale di uomo senza il quale non era possibile pensare alla comune dignità umana delle classi subalterne e anche dei popoli coloniali.

In questa prospettiva, peraltro, il liberalismo aveva, in un certo senso, tradito quella stessa cultura di cui intendeva essere erede. Dunque, per Gramsci (e anche per Togliatti) solo il marxismo si presentava come portatore di quanto di meglio c'era nella tradizione occidentale – in primo luogo la Rivoluzione francese, ma, prima ancora, la modernità in quanto tale, nella sua essenza di progresso .-, alla quale i liberali non seppero mantenersi. È in questo momento che, per Gramsci, l'idea di comunismo si identifica con l'idea di universalità. Ed è dalla resa dei conti con il nucleo più profondo del liberalismo che, per Gramsci, il marxismo comincia a intrecciarsi con questa idea, con l'obiettivo di porre fine a quei molteplici processi di emancipazione inaugurati dalla borghesia, ma abbandonati dal liberalismo. .

Quale marxismo, però? È noto che la II Internazionale giudicò la Rivoluzione d'Ottobre dal punto di vista di un marxismo dogmatico e presumibilmente “ortodosso” e la condannò come una precipitazione volontarista avvenuta in un paese ancora largamente feudale e arretrato. In Russia sembravano mancare del tutto le condizioni mature per la transizione al socialismo, un ordine sociale che presupponesse il pieno fiorire della società borghese capitalista e un immenso sviluppo delle forze produttive. Definendo il 1917 una “rivoluzione contro il capitale” e riconoscendone la piena legittimità politica, Gramsci prende le distanze da ogni lettura evoluzionista e meccanicistica del processo rivoluzionario, denunciando l'economicismo e il volgare materialismo dei dirigenti socialisti, ma in parte affermando, l'esperienza di Lenin anche contro lo stesso Marx.

Infatti, anche nell'eredità marxiana c'è spesso una teoria semplificata della rivoluzione, che considera esclusivamente o principalmente l'accumulazione di contraddizioni nella sfera economica dei paesi industrializzati europei. Altre volte, invece, Marx è stato molto più attento alla natura complessa del processo rivoluzionario, presentandolo come un intreccio a lungo termine tra l'economia e componenti di tipo politico, come la guerra o l'oppressione nazionale.

In questo senso, non c'è sempre o necessariamente una sincronia assoluta tra le condizioni economiche oggettive e le condizioni soggettive e politiche della rivoluzione. E la componente politica può, quindi, consentire l'innesco di un processo rivoluzionario duraturo, anche in paesi più arretrati come la Germania o in colonie come l'Irlanda, a partire da specificità nazionali che includono anche le tradizioni storiche e culturali di un certo popolo. È quanto accade, ad esempio – anche se può sembrare paradossale – con la persistenza di un forte sentimento religioso che si identifica con la causa dell'autodeterminazione.

Arriviamo al secondo incontro decisivo nella formazione di Gramsci. In questo senso, è proprio a questa visione più complessa del marxismo che il leninismo dà rilevanza rivelando la centralità della situazione concreta e, di conseguenza, il carattere peculiare del processo rivoluzionario. Un processo che si presenta sempre come una negazione determinata, cioè legata alle condizioni storiche specifiche di un paese e alle correlazioni di forza che vi prevalgono, e che può essere attribuito solo alla specificità di qualche questione nazionale (ecco perché il trotskismo, con la sua teoria della rivoluzione permanente e la necessità di esportare il socialismo per garantire la continuità della Rivoluzione d'Ottobre, finì per scivolare su posizioni economiciste, mensceviche e persino eurocentriche).

Per Gramsci, se ai dirigenti rivoluzionari in Russia era imposta una rigorosa comprensione delle condizioni oggettive, era ancora più urgente per i comunisti dei paesi occidentali, nei quali la rivoluzione, pur potendo contare su una maturità economica più accentuata e sul conseguente sviluppo di proletariato industriale, dovrebbe necessariamente confrontarsi con una società civile molto più articolata e con un blocco dominante molto più forte e ideologicamente attraente.

Così, nell'Europa industrialmente avanzata, la rivoluzione non si configurava come una guerra di movimento destinata ad attaccare frontalmente la roccaforte del potere, ma come una lunga e dolorosa guerra di posizione che, di trincea in trincea, di fortificazione in fortificazione, doveva coinvolgere le società, a poco a poco, in una grande rete di contropoteri. Soprattutto, attraverso l'opera degli stessi intellettuali organici, la rivoluzione potrebbe espuntare dall'interno l'ordine borghese, avvalendosi di una sottile operazione egemonica e culturale, elevando progressivamente la coscienza delle classi lavoratrici, ma anche conquistando, a poco a poco, le consenso della stessa borghesia nazionale. Ecco perché, in Occidente ancor più che in Russia, il partito operaio, oltre a dotarsi di un'organizzazione capillare ed efficace, dovrebbe presentarsi come classe dirigente nazionale e adattare la sua prassi alla situazione specifica di ogni paese . , senza contare un modello rivoluzionario chiave principale.

Come avvenne, infatti, durante la guerra di liberazione dal nazifascismo, egli avrebbe cioè dovuto farsi carico dell'interesse generale della nazione e della sua autodeterminazione nel momento stesso in cui si assunse l'obiettivo della trasformazione politica e ordinamenti sociali: a quel punto la questione sociale coincideva con quella nazionale nella stessa misura in cui la questione nazionale coincideva con quella sociale.

Molto presto, però, il marxismo di Gramsci si distinguerà da quello dei suoi contemporanei anche per altri aspetti essenziali. Marx ed Engels, ad esempio, in certi momenti hanno sviluppato l'idea di una crisi imminente e inevitabile del capitalismo e di un conseguente decadimento della borghesia, sia sul piano politico che ideologico. Secondo questa tesi, al termine della sua fase rivoluzionaria, dopo il 1848, la borghesia europea era diventata del tutto incapace non solo di portare avanti il ​​processo di democratizzazione e di mantenersi responsabile del progresso storico, ma anche di avere un ruolo effettivo nella il campo politico, perché, per opporre resistenza all'ormai maturo soggetto proletario antagonista, si è arroccato su posizioni inequivocabilmente conservatrici, perdendo ogni forza creatrice.

Anche in questo caso siamo chiaramente in presenza di una concezione meccanicistica ed economicista della storia e di una versione piuttosto limitata della teoria della rivoluzione. Nel marxismo della II Internazionale, questa visione sarebbe legata a una lettura esasperata della tesi marxiana della caduta del saggio di profitto e produrrebbe quasi immediatamente l'annuncio messianico dell'inevitabile superamento del sistema capitalista e dell'imminente rivoluzione socialista , a fronte di una borghesia ormai sostanzialmente morta e priva di soluzioni politiche innovative.

Se questa visione del conflitto tra borghesia e proletariato era ancora largamente presente nell'ottimismo rivoluzionario dei primi anni della Terza Internazionale, nulla di tutto ciò si può invece leggere in Gramsci. Come abbiamo visto, questa non solo si è formata in costante contatto con il pensiero filosofico più raffinato del tempo, ma è stata anche costretta, dalle circostanze storiche, a confrontarsi con le sconfitte dei tentativi rivoluzionari in Occidente e ha dovuto sperimentare nella propria scuoiare la rivincita delle classi dominanti attraverso il fascismo e la vittoria di una certa fase nello sviluppo del capitalismo.

Così, aveva imparato molto bene quanto potesse essere ancora viva e attiva – oltre che pericolosa – la borghesia e quanto complicata e lontana fosse la prospettiva della transizione sociale. È proprio in questo contesto che si colloca la famosa teoria della rivoluzione passiva, attraverso la quale Gramsci riconosceva la forza ancora intatta e la persistente vitalità della borghesia europea. Una classe che va combattuta, ma dalla quale – pensiamo alle tesi dell'americanismo e del fordismo – la classe operaia deve continuare a imparare, poiché non solo è ancora in grado di affermarsi come classe dominante, attraverso una capillare egemonia influenza, ma riesce anche a modernizzare la società capitalista.

Possiamo misurare qui tutta l'originalità e la genialità di Gramsci. In Europa in quegli anni la tragica esperienza della guerra mondiale aveva messo in luce tutto l'orrore inevitabilmente legato alla società borghese nella sua fase imperialista – e l'avvento del fascismo e del nazismo e, successivamente, l'ancor più grave disastro della seconda guerra mondiale rafforzano questa convinzione...

Poi il marxismo del ventesimo secolo rompe improvvisamente l'equilibrio marxiano tra critica e riconoscimento della modernità. E la storia del mondo moderno, descritta da Marx ed Engels nel Manifesto con note di ammirazione per le inclinazioni progressiste della borghesia, viene sempre più vista come la diretta preparazione a questo susseguirsi di tragedie. E quelle posizioni ambigue e antimoderne già criticate da Marx in [Mikhail] Bakunin e nella tradizione anarchica troveranno sempre più spazio nel movimento socialista.

Secondo questo approccio, l'intero passato della civiltà è una negatività morta, un accumulo unico di orrori e oppressioni da cui nulla viene salvato o ereditato. La stessa storia culturale dell'Europa è vista “come delirio e nonsense”, qualcosa di “irrazionale” e “mostruoso”, diventando – sono parole famose – un “trattato storico di teratologia”. Come si vede, si tratta di una negazione astratta e indeterminata della modernità, di cui si intende ora un superamento totale e palingenetico. Di qui il diffondersi di posizioni che snaturavano sempre più il marxismo in una prospettiva messianica, interpretando la rivoluzione socialista come un vero e proprio annullamento della storia, destinato a liberare l'umanità da questa catastrofe.

Piuttosto che essere compreso criticamente, il mondo moderno deve essere prima di tutto condannato nella sua interezza, e poi riscattato, attraverso la violenza rivoluzionaria purificatrice e la costruzione di un mondo radicalmente nuovo e diverso, che installi magicamente sulla Terra il regno comunista della felicità e dell'abbondanza . A questa lettura populista della storia e a questa concezione religiosa e utopica del marxismo è legata la pretesa, egemonica soprattutto nel cosiddetto marxismo occidentale, di intendere il comunismo stesso come un nuovo inizio, come il tempo pieno che trasfigura completamente il volto della realtà: è la pretesa di un completo sovvertimento della società borghese che si propone di eliminare, in una società senza classi, lo Stato e il mercato, i confini nazionali e le tradizioni, le religioni e ogni forma giuridica.

Al contrario, Gramsci contesta questa visione caricaturale della storia e del ruolo della borghesia, pur conservando, nel suo approccio, il riconoscimento, seppure critico, della modernità come epoca di emancipazione e libertà individuale. Porre il problema dell'ereditarietà dei momenti salienti di questa storia significa, quindi, rinunciare a priori a ogni utopismo infantile e riscattare la concretezza della prospettiva filosofica e storico-politica hegeliana, concepire il comunismo non come un annientamento, ma come una vera compimento della modernità.

Significa, allora, in primo luogo, riconoscere il ruolo dello Stato come forma dell'universalità: una forma che non è ancora sostanza, ma che non è nemmeno inesistente e che, quindi, introduce già, nella borghesia società, gli elementi di regolazione di cui il proletariato stesso aveva bisogno e seppe servirsene nel corso della sua lotta (dalle leggi che riducono la giornata lavorativa a quelle che garantiscono il progressivo allargamento del suffragio). Certo, ora è necessario svelare senza pietà il ruolo dell'apparato statale repressivo, che, nelle situazioni di crisi, è capace di arruolare in modo onnipresente la società civile, trascinandola nella mobilitazione totale destinata a portare alla dittatura e alla guerra.

Non dobbiamo dimenticare però che, insieme alla funzione di controllo delle classi subalterne in nome del dominio borghese, lo Stato – contrariamente a chi nel movimento marxista si oppone a Libertas Major e Libertas Minor, diritti economici e sociali e diritti formali – non è solo una macchina di dominio sociale, ma svolge anche un'essenziale funzione di garanzia reciproca per coloro che sono ammessi come cittadini. Ciò avviene proprio a partire da quel principio di limitazione del potere statale, che è il miglior frutto del pensiero liberale e deve essere assorbito dal socialismo.

Così, il socialismo, lungi dal presentarsi come l'armoniosa utopia di un mondo privo di conflitti e contraddizioni, si rivela a Gramsci come un complesso processo di transizione che si svolge in un lungo arco di tempo e che – come ha spesso ricordato Domenico Losurdo – indirizza alla “società regolata”: a una società costruita su basi razionali, in cui i vincoli di solidarietà tra gli esseri umani sono garantiti da una serie di regole e procedure che non negano, ma universalizzano le conquiste della modernità, della sua cultura e della tua filosofia.

Una società che non intenda superare contemporaneamente il denaro, il valore di scambio e tutte le forme di divisione del lavoro, ma che, attraverso la pragmatica sperimentazione di forme socio-economiche inevitabilmente ibride e “impure” (come la NEP di Lenin) , arriva alla costruzione di un mercato socialista equo ed efficiente. Infine, di una società che non intenda annullare i confini, le identità nazionali, persino le tradizioni religiose dei popoli in nome di una repubblica mondiale dei Soviet e dell'ateismo di stato, ma sappia tener conto delle particolarità e valorizzarle dal punto di di vista da un punto di vista cooperativo, impedendo, allo stesso tempo, ogni egemonismo e ogni forma di socialsciovinismo attraverso l'universale concreto che è l'internazionalismo correttamente inteso.

*Stefano G. Azzarà è professore ordinario di Filosofia politica all'Università di Urbino e dirige la rivista Materialismo Storico. Autore, tra gli altri libri, di Comunisti, fascisti e questione nazionale – Fronte rossobruno o Guerra d'egemonia? (Mimesi).

Riferimento


Gianni Fresu. Antonio Gramsci, l'uomo filosofo. Una biografia intellettuale. San Paolo, Boitempo, 2020, 424 pagine.

 

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