Arabia

Immagine: Vera Nilsson
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da LUCIANO GATTI*

Commento al film di Affonso Uchôa e João Dumans

Arabia sostiene che tutti, compresi i più silenziosi, hanno una storia da raccontare. Il film scritto e diretto da Affonso Uchôa e João Dumans, vincitore del premio per il miglior film al Festival de Brasília nel 2017, mostra in modo esemplare come il trattamento esigente di una questione narrativa permetta di avanzare nella presentazione di complessi problemi sociali.

Il film ripercorre gli anni della carriera di Cristiano (Aristides de Souza), un giovane povero senza famiglia della periferia di Contagem che ha, nel susseguirsi di lavori non qualificati e mal pagati, l'unica tangibile alternativa alla criminalità. Dopo un anno di carcere, lascia il suo luogo di origine e, in autostop, si imbarca in questo road movie del precario proletariato dell'interno del Minas Gerais, dormendo dove possibile, accettando i lavori che si presentano: raccogliere pettegolezzi, costruire strade, trasportare merci, industria tessile e metallurgica, tra molti altri. I dialoghi sul carico migliore e peggiore da portare o sul posto migliore dove dormire in assenza di un letto illustrano la vita quotidiana di aspettative ridotte di un giovane che non ha altro che le proprie forze per lavorare.

il merito di Arabia non si limita ad aver messo in scena la traiettoria di un individuo che rappresenta gran parte della popolazione brasiliana, tema ricorrente nel vigoroso cinema emerso nell'ultimo decennio nella regione di Contagem. Il suo interesse principale risiede nel mostrare un complesso processo attraverso il quale un tale individuo elabora la propria voce narrativa quando seleziona e ricostituisce in un'opera di scrittura, riprodotta nella voce in MENO in prima persona, le tappe decisive del tuo viaggio. È per questo che Arabia dedica i suoi primi venti minuti alla costruzione della cornice narrativa che permetterà di dare voce al personaggio di Cristiano.

La sua storia è preceduta da un'altra, quella di un adolescente che vive nel villaggio popolare di Ouro Preto, ultima tappa del viaggio di Cristiano. In assenza dei genitori, perennemente fuori strada, André (Murilo Caliari) divide il suo tempo tra il girovagare per la città e prendersi cura del fratello minore, ricevendo assistenza solo dalla zia, infermiera con sporadici contatti con Cristiano . Quando crolla e viene portato in ospedale, André viene incaricato dalla zia di raccogliere vestiti e documenti dalla casa di Cristiano. È lì che troverà il quaderno dove è stata scritta la storia narrata di seguito.

Il taccuino contiene la duplice posizione del racconto autobiografico: quella del narratore che guarda al passato e scandisce la sua traiettoria con domande sul suo significato; e quella del personaggio che vive il susseguirsi degli eventi narrati. Entrambi toccano l'occasione che ha generato la storia, spiegata fin dall'inizio: scrivere qualcosa sulla propria vita è una sfida data dal teatro fabbrica che Cristiano frequenta per sfuggire alla sua solitudine. È significativo che si tratti di uno stimolo esterno, in quanto è un giovane con un basso livello di istruzione che non nasconde la sua incapacità e disagio con le parole, sia per esprimere i propri sentimenti in relazione ad altri personaggi, sia per scrivere del suo vita.

Le prime frasi del quaderno, oltre a indicare la motivazione iniziale per la scrittura, spiegano anche la direzione del racconto: facendo il punto della sua vita, si prefigge l'obiettivo di narrare il momento di maggiore felicità, frequentando un collega che lo aveva reso qualcosa di tangibile per superare i limiti del tuo punto di partenza e alterare il corso della vita. La rottura, a sua volta, mette a nudo, oltre alla disillusione, distanze forse insormontabili tra i personaggi. Raccontare sarà quindi un modo per riprendere quel momento di felicità a cui vorrebbe tornare.

È in questo movimento che il particolare pregiudizio di Cristiano materializza l'idea che ognuno ha una storia da raccontare. Per l'individuo oppresso non si tratta certo di un susseguirsi di eventi esemplari coronati dalla vittoria sulle avversità, ma della traiettoria erratica di episodi sconnessi in cui l'operaio è ripetutamente costretto a ricominciare da capo cambiando lavoro e città. La ripetizione, tuttavia, non impedisce l'apprendimento. Man mano che la storia procede, la voce di Cristiano acquista riflessività, esprimendo un'acuta consapevolezza degli ostacoli nell'affrontare la solitudine, la povertà e l'oppressione. L'occasione per scrivere non si riduce quindi alla presentazione di un'esperienza, ma è essa stessa l'occasione per cercare di verbalizzare quanto vissuto e di riconoscere negli avvenimenti passati una storia da raccontare.

Se la successione delle scene è organizzata da una componente letteraria, per così dire, data dalla scrittura di Cristiano, che colloca e commenta le immagini, Arabia attribuisce alle canzoni la funzione di ampliare e commentare il punto di vista del narratore. Non a caso parecchie di esse vengono eseguite dai personaggi, come “Caubói fora da lei”, di Raul Seixas, in un circolo di chitarre in una serata libera, a spiegare la complicità tra questi amici occasionali, la stessa cerchia di lavoratori davanti alla in cui, in una scena analoga, uno di loro legge l'affettuosa lettera ricevuta dalla madre.

“Homem na Estrada”, di Racionais MC, cantata ed eseguita da Cristiano alla chitarra, funge da specchio per il protagonista stesso, un possibile destino nelle circostanze di vita delle periferie che stringono i giovani poveri tra le minacce del crimine e l'esecuzione dalla polizia, un destino che cerca di evadere dal carcere e si mette in viaggio in cerca di lavoro. “Raízes”, di Renato Teixeira, messo in sottofondo durante una riflessione del protagonista sui tanti lavori intrapresi durante gli anni sulla strada, sebbene esprima la perseveranza del protagonista nella sua evocazione che “l'alba è una lezione dall'universo che ci insegna che è necessario rinascere”, suona un po' idealista nel contesto in cui ogni nuovo lavoro è una ricaduta in ciò che è sempre lo stesso.

Particolarmente significativo è il rapporto tra “Três Apitos” di Noel Rosa e “Marina” di Dorival Caymmi. Il primo di essi, riprodotto due volte nella versione di Maria Bethânia, scandisce l'incontro amoroso con Ana (Renata Cabral), sia all'inizio della narrazione, quando lo sceglie come l'evento più importante da narrare, sia nel ricordo della giornata del primo bacio in un parco di divertimenti. La canzone però parla di amore non corrisposto, prefigurando le divergenze tra i due che porteranno alla loro rottura. Un fatto grave – un aborto spontaneo – spiega la difficoltà di usare il linguaggio per affrontare quanto accaduto. Mentre lei verbalizza il suo dolore, lui reagisce silenziosamente.

La coppia si scioglie, lui torna sulla strada e, dopo aver incontrato una vecchia compagna di carcere, trova lavoro a Ouro Preto, da dove si tiene in contatto con lei telefonicamente. La differenza forse insormontabile tra i due è evidente nella loro capacità di esprimere la propria situazione. Nel suo taccuino scrive che non riesce a dirle che non ha smesso di amarla. Lei, a sua volta, gli invia una lettera in un linguaggio elaborato, quasi inverosimile nella sua inclinazione letteraria, in cui afferma la sua intenzione di stare insieme. Non le risponde nel film, ma registra nel suo taccuino un'interpretazione fatalistica dell'aborto, come segno che “sarà sempre così”. Il film poi interpreta "Marina", di Dorival Caymmi, cantata da un musicista locale. Il soggetto della canzone censura Marina per essersi dipinta inutilmente, ritoccando la propria natura, e facendo così arrabbiare chi la ama. Sarebbe possibile dedurre che il linguaggio più sofisticato della lettera avrebbe ferito Cristiano per aver reso esplicita la differenza tra loro proprio quando Ana stava cercando di avvicinarsi a lui. Mentre si registra, lei sapeva come dire le cose mentre lui ci provava.

Il taccuino è lo scopo di questi tentativi. Così come Cristiano mette per iscritto ciò che non può dirle, riporta anche fatti che non aveva mai verbalizzato. Un episodio è esemplare. Incaricato di acquistare la birra di notte per il locale dove lavorava, investe qualcuno in una strada deserta e poco illuminata. La scena si svolge nel silenzio: guidando sente di aver urtato qualcosa, ferma il camion per verificare cosa sia successo e poi scopre il corpo di un morto, che finisce per trascinare in un lago o fiume a lato della strada. Solo allora riferisce di essere riuscito a pulire il sangue dall'auto prima di tornare al lavoro, nascondendo completamente il fatto. Ciò che lo porta ad agire in questo modo, trasformando l'incidente in un delitto, è proprio la paura che l'incidente venga visto come un delitto, che lo riporterebbe nella prigione dalla quale fin dall'inizio cerca di prendere le distanze. Se non denuncia mai il fatto a nessuno, ma lo mette per iscritto, si nota che l'intenzione originaria delle sue note è modificata. Certamente non sono più destinati al teatro della fabbrica, ma a se stessi come esercizio di autocomprensione.

Se l'intero film è volto a smascherare il protagonista, questa intenzione si ripercuote anche sugli altri personaggi, diventando un modo di filmare. La macchina da presa ferma nei piani medi è attenta a intervenire nei discorsi dei personaggi e registra in inquadrature insolite discorsi e dialoghi che situano dati particolari in un processo generale privo di didascalismo. A questo contribuisce la cinematografia di Leonardo Feliciano con l'effetto pittorico di certe inquadrature a pianta aperta, come nelle immagini della fabbrica con gli operai nel controluce dei forni o nel regolamento di conti di Cristiano con il padrone della cascina che ha la piantagione di chiacchiere in lo sfondo.

È un ricco contrasto con il di viaggio apertura, in cui la macchina da presa accompagna André in bicicletta lungo la tortuosa strada che porta a Ouro Preto, e con immagini della strada tipiche del genere di strada film. Soprattutto quando tocca il tema del lavoro e della sopraffazione, come diceva un amico dei tempi del carcere o l'ex dirigente sindacale che aveva organizzato uno sciopero dei raccoglitori di pettegolezzi, questo modo di girare è vicino al cinema documentario, che però non solo non entra in conflitto con la prospettiva soggettiva della scrittura di Cristiano, ma diventa anche un ingrediente del suo apprendimento, come si può vedere nelle sue considerazioni finali sul lavoro in fabbrica, molto più riflessive che didattiche.

Il film finisce senza fine. Il ricongiungimento con Ana, possibilità indicata dalla sua lettera, viene sospeso mentre Cristiano rimane privo di sensi all'ospedale di Ouro Preto. Al posto dell'epilogo, ascoltiamo la riflessione del gruppo registrata nelle ultime pagine del taccuino, che ribalta addirittura la prospettiva dell'inizio del film riservando un accenno alla solitudine di André nel panorama fumoso del villaggio operaio. Un'analoga solitudine scandisce l'inizio delle considerazioni finali come consapevolezza dell'assenza di legami personali e affettivi con il luogo e con i suoi collaboratori.

Questo isolamento si contrappone, a sua volta, al desiderio che tutti lascino la fabbrica, tornino a casa e liberino il corpo dal minerale. Ciò che articola il passaggio dall'individuale al collettivo, in cui Cristiano esprime il carattere generalizzabile della sua esperienza, è la condivisione della stessa situazione avvilente: sono tutti cavalli vecchi e stanchi. Immediatamente, tuttavia, il ricorso per terreno comune viene respinto in quanto inefficace, in quanto non è ciò che gli altri vorrebbero sentire.

Ne deriva una considerazione profondamente contraddittoria: da un lato, il fatalismo che la vita sia e sarà sempre un errore, che risuona anche, seppur in registro diverso, nella barzelletta raccontata dagli operai edili da cui il film prende il titolo ; dall'altro, la forza della resistenza implicita nella consapevolezza che quello che si ha è “quel braccio forte e la voglia di svegliarsi presto”. La forza e la volontà sono condizioni fisiche e psichiche capaci di far fronte alla disillusione di chi si trova permanentemente di fronte a condizioni avverse, ma non nutre fantasie di cambiamento del corso delle cose.

Il racconto del sogno in cui Cristiano si ritrova solo in un bosco mentre la gente smette di cercarlo lo mette nuovamente di fronte alla propria solitudine, da cui trae la conclusione che “era vivo e poteva ancora respirare”. Il fatto che lei descriva anche il suo stato di coma in ospedale potrebbe far pensare che la vita dell'anonimo operaio sia fondamentalmente indistinguibile da uno stato vegetativo. il merito di Arabia sta mantenendo quell'estrema considerazione accanto all'enfasi sulla capacità lavorativa e sulla volontà di andare avanti.

L'account di Cristiano chiude questa lezione. Se rimanesse solo uno di questi aspetti, il film ricadrebbe sul fatalismo o su un messaggio edificante. Tuttavia, non abbandona l'acuta consapevolezza delle avversità, da cui dipende la sua prospettiva critica, né rinuncia a tutte le energie nel condurre la vita di questi individui al processo sociale oppressivo, che conferisce un carattere di resistenza alla traiettoria di suo protagonista. cosa ne fa Arabia un film straordinario è l'incontro di queste forze molto contrarie nella composizione di un'esperienza soggettiva con un tale stato di cose.

*Luciano Gatti È docente presso il Dipartimento di Filosofia dell'Unifesp. Autore, tra gli altri libri, di Costellazioni: critica e verità in Benjamin e Adorno (Loiola).

 

Riferimento


Arabia
Brasile, 2017, 96 minuti.
Regia e sceneggiatura: Affonso Uchôa e João Dumans.
Direttore della Fotografia: Leonardo Luciano.
Direzione artistica: Priscila Amori.
Cast: Aristides de Sousa, Murilo Caliari, Glaucia Vandeveld, Renato Novaes, Adriano Araújo, Renan Rovida, Wederson Neguinho, Renata Cabral.

 

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