arte della guerriglia

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da RICARDO FABBRININI*

Considerazioni sul libro di Artur Freitas che discute il ruolo dell'avanguardia e del concettualismo in Brasile

Il libro Guerrilla Art: avanguardia e concettualismo in Brasile di Artur Freitas, esamina la produzione degli artisti d'avanguardia in Brasile durante la dittatura militare, o, più precisamente, dal 1969 al 1973, i primi anni della Legge Istituzionale n. 5 (AI-5), del 13 dicembre 1968.

Il suo intento è quello di precisare, all'interno della cosiddetta produzione controculturale, le strategie della guerrilla art – o del “progetto concettualista”, nell'espressione di Artur Freitas – che hanno reagito alla repressione politica, alla perdita dei diritti e alla censura delle arti, frutti dell'AI-5. In quegli anni di ridefinizione del ruolo delle avanguardie nel Paese, l'artista – disse nel 1975 il critico Federico Morais, che coniò il termine “guerrilla art” – divenne “una specie di guerrigliero”; “l'arte, una forma di agguato”; e lo spettatore ne diventava vittima, poiché, sentendosi messo alle strette, era costretto “ad aguzzare e ad attivare i suoi sensi”.[I]

Il lavoro di Freitas si riferisce al periodo controculturale, marginale, sperimentale, alternativo, sotterraneo, udigrudi, indipendente, underground, di godimento, o, nei termini dell'epoca, di desbunde, che indicava che “molte illusioni rivoluzionarie alimentate dai progetti estetici degli anni Sessanta” stavano già sgretolandosi.[Ii] Di fronte alla modernizzazione imposta dalla destra attraverso la dittatura militare, l'unica via d'uscita possibile, dal punto di vista degli artisti d'avanguardia, era la creazione di spazi alternativi per la produzione e la circolazione dell'arte come forma di resistenza all'irrigidimento del il regime. È interessante riconoscere, nell'ambito delle strategie marginali della guerrilla art, la convergenza di due correnti che, all'epoca, erano considerate antagoniste, ma che nel tempo rivelarono forti affinità: la lotta armata e la controcultura, le guerriglie e il hippieso Fidanzamento e ritirarsi.

Diversi artisti visivi, ponendosi quindi ai margini del sistema, cioè al di fuori delle forme ufficiali di circolazione degli oggetti artistici, hanno resistito non solo alla riduzione dell'arte a forma di merce, ma anche agli organi di sorveglianza e repressione della stessa dittatura militare. L'analogia tra arte e guerriglia non è un mero “bagliore espressivo”, perché gli artisti, come i guerriglieri, spinti dall'urgenza, hanno agito fuori dalle istituzioni, inaspettatamente, rapidamente, secondo il senso dell'opportunità, assumendosi il rischio di azione clandestina. In entrambi i casi si trattava, in termini generali, di interventi specifici in situazioni politiche e sociali concrete – il cosiddetto “focus guerrigliero” –, volti a destabilizzare la giunta militare. Vale la pena ricordare, tuttavia, che i limiti di questa analogia sono stati, di regola, preservati, poiché pochi artisti, come Sérgio Ferro o Carlos Zílio, sono passati, nel corso degli eventi, dai ranghi dell'arte alla guerriglia. stretto senso.

L'intenzione di Artur Freitas non era quella di compiere un esame esaustivo della produzione artistica di quegli anni di piombo, enumerando artisti e mostre, ma di eleggere alcune opere come sintomi dell'immaginario del periodo. La sua strategia è stata quella di privilegiare l'interpretazione attenta di sole sei opere di soli tre artisti – o meglio, i loro “interventi”, perché in quegli anni si cercava di superare la categoria “opera d'arte” –, evitando sia le generalizzazioni sia le elogiative genere, come avviene nella storiografia o nei testi di critica d'arte. In sintesi, vengono esaminati i seguenti interventi: Inserimento in circuiti ideologici: Coca-Cola Project e Tiradentes: Totem-Monumento al Prigioniero Politico, di Cildo Meireles, entrambi del 1970; Fasci sanguinanti e 4 giorni 4 notti, di Artur Barrio, dello stesso anno; e infine, Il Corpo è l'Opera, sempre del 1970, e Da 0 a 24 ore, del 1973, di Antonio Manuel.

L'analisi dettagliata delle opere, procedura rara nella fortuna critica dell'arte moderna e contemporanea in Brasile, è uno dei grati contributi del libro. Freitas non applica, nelle sue analisi, una data posizione teorica, come si suol dire, ma mobilita nozioni di forme discorsive diverse dalle esigenze sollevate da ogni singola opera. Ha quindi diverse fonti: interviste e testimonianze di artisti; presentazioni di cataloghi; recensioni di mostre su giornali e riviste brasiliane e straniere; articoli considerati a supporto della pratica artistica – come quelli di Mario Pedrosa, Ferreira Gullar o Frederico Morais – testi di storiografia artistica; e, infine, supposti riferimenti poetici, che, pur non menzionati dagli artisti, consentono la costruzione di categorie alla base del loro lavoro, in quanto integrano l'immaginario del periodo.

Detto senza mezzo colore: nell'interpretazione delle opere, Freitas si riserva il diritto di trattenere aspetti di un determinato autore senza doverlo accettare nella sua interezza. Il suo intento, in altre parole, è quello di assumere forme artistiche non come illustrazioni delle posizioni degli autori – come Clement Greenberg, Arthur Danto; Gérard Genette, Didi-Huberman o Hans Belting, citati in tutto il testo – ma come “modelli in se stessi”; mira cioè a spiegare il modo di pensare che costituisce una data “opera”, come insegnano Yve-Alain Bois, Michael Baxandall o Hubert Damisch.

Assumendo che la storia delle strutture e delle forme artistiche sia sempre ideologica, Freitas rifiuta sia l'analisi sociopolitica diretta dell'opera d'arte sia l'analisi meramente formalista, erede di Greenberg. Il suo procedimento è più vicino al “formalismo materialista” difeso da Yve-Alain Bois,[Iii] considerando che si rivolge alla specificità dell'oggetto, che coinvolge non solo la condizione generale del suo “ambiente” ma anche i dettagli più insignificanti dei suoi mezzi di produzione, come l'ordine della fattura. Questo formalismo materialista qui supposto è incriminato nell'espressione “introiezione del politico”, ricorrente nel libro, intesa come il modo in cui nozioni dell'epoca – come “imperialismo”, “sottosviluppo” o “arte-istituzione” – vengono articolata come allegoria nella fattura stessa delle opere, siano esse “oggetti” o “gesti”.

Degna di nota, come singolarità del libro, è anche la caratterizzazione della guerrilla art come sviluppo del progetto costruttivo brasiliano, del concretismo e dell'inflessione neoconcreta. In questo senso, il testo accentua nettamente le impasse derivanti dalla radicalizzazione dell'idea di fruizione artistica o partecipazione pubblica, presenti sia nella “Teoria del non oggetto” di Ferreira Gullar, del 1960, sia nel “Generale Scheme of New Objectivity Brasileira”, di Hélio Oiticica, del 1967. Mostra, in altre parole, che “il tentativo di interiorizzare l'azione politica nella pratica artistica”, dal 1969 al 1973 “combinava l'interesse fenomenologico dell'eredità neoconcreta” e Tropicália con “l'ideologia dell'immediatezza dei tempi nuovi”; perché in quel momento, secondo Frederico Morais, “si metteva alla prova la massima elasticità del pensiero neoconcreto e derivato, forzandone i presupposti morali e radicalizzandone i presupposti ideologici”.

Questa radicalizzazione è anche riconoscibile, secondo Freitas, nell'incorporazione della violenza nella struttura stessa dell'opera come risposta alla “violenza del mondo”. In alcune opere, l'incorporazione di pulsioni distruttive – un modo di reagire alle forme pure, geometriche del movimento neoconcreto, ancora segnato dalla visione prospettica e rivoluzionario-utopica delle avanguardie costruttive – è presentata dall'autore come quasi letterale; in altre opere, come metaforico; ma in tutti avremmo la stessa consapevolezza dell'“impossibilità di dissociare tra ciò che viene detto e il modo in cui viene detto”, nel discorso di Freitas.

As Fasci sanguinanti, ad esempio, che erano sparsi per Barrio per le strade di Rio de Janeiro e Belo Horizonte, erano “pacchetti fetidi”, con “carne e ossa vere”, acquistati nei macellai locali, provocando un grande clamore. La presenza di questi "oggetti babbani" (o preconfezionati) nel Parco Municipale di Belo Horizonte, nell'aprile del 1970, richiese addirittura l'intervento dei vigili del fuoco, per il sospetto che si trattasse dello “smaltimento” di “prigionieri politici” da parte degli squadroni della morte, visto che si stava vivendo il picco di repressione militare. L'aggressività di queste “situazioni babbane” di Barrio mostrerebbe, nell'espressione di Freitas, “l'introiezione di una pragmatica (politica) nell'ambito di una sintassi (forma artistica)”; cioè la “violenza di oppressione” degli squadroni della morte sarebbe stata interiorizzata nel “processo di lavoro” come “violenza di rivolta”, nel senso della guerriglia.

Viene analizzato anche il lavoro di confine Tiradentes: Totem-Monumento al Prigioniero Politico, di Cildo Meireles, che, il 21 aprile 1970, “introiettava” anch'egli, ora con il rogo di polli vivi, crudeltà verso la stessa “struttura performativa dell'arte”. Sarebbe un “test work”, secondo Freitas, “il vertice più acuto della traiettoria critica brasiliana”; “apice e sfilacciamento di un processo caratterizzato dal passaggio emblematico della questione fenomenologica” dal neoconcretismo alla “posizione guerrigliera”. L'”azione violenta” di Cildo Meireles si presenta come una risposta ritualistica, perché sotto “la forma approssimativa del sacrificio per sostituzione” – nel senso di René Girard – il cui scopo sarebbe quello di “interrompere il ciclo di vendetta sociale” che regnava nel Paese. Tuttavia, in questo intervento rimarrebbe un minimo ma fondamentale scampolo di natura metaforica: “figura ultima”, “quasi intollerabile”, ma pur sempre cifra dell'indicibile violenza dell'epoca. In questo modo, la guerrilla art, in Tiradentes, sarebbe ancora arte guerriglia e non guerriglia tutte breve, anche perché in quest'ultimo caso la violenza è avvenuta, evidentemente, “a misura d'uomo”, carnale, e non per similitudine o figurazione, sotto forma di immolazione di animali.

Il Corpo è l'Opera, di Antonio Manuel, è un'altra “situazione limite” che Freitas analizza con la dovuta attenzione, rilevando addirittura l'assenza di studi sull'artista. La notte del 15 maggio 1970, Antonio Manuel si presentò nudo, come è noto, all'inaugurazione del XIX Salone Nazionale d'Arte Moderna, davanti a circa mille persone con l'intento, nelle parole dell'artista, di “negare l'Arte, il Museo e l'intero schema”. Tale gesto è stato considerato da alcuni critici, nella foga del momento, un sintomo di inefficienza guerrigliera, sia essa sociale o poetica, mentre per altri, come Mario Pedrosa, è stato, al contrario, un “esercizio sperimentale di libertà”. , eminentemente all'avanguardia, in sintonia con la “rivoluzione culturale” in atto nel mondo.

L'autore ricorda che lo stesso Pedrosa, però, caratterizzerà, cinque anni dopo, la serie di atti tanatologici, di aggressione contro il proprio corpo, dell'artista viennese Rudolf Schwarzkogler, nel 1969, come un sintomo che “il ciclo della presunta rivoluzione [dell'arte d'avanguardia] chiusa in se stessa”; e che il risultato di questo movimento fu una “patetica regressione senza ritorno: la decadenza”.

Dall'analisi di queste opere e dalla loro ricezione da parte della critica d'arte, Freitas rileva, quindi, che si stava sviluppando nel Paese una “certa consapevolezza storica” dell'“irrealtà, seppur relativa”, di questi progetti d'avanguardia. Questi lavori, di “verifica dei confini del fenomeno-arte”, che interferivano nel “flusso di informazioni” (come Da 0 a 24 ore, di Antonio Manuel) o nella “circolazione degli oggetti” (come Progetto Coca Cola, di Cildo Meireles), ha mostrato, secondo l'autore, che interventi come questi sarebbero “insostenibili a lungo termine”. È in questo senso che, quarant'anni dopo il suo delirio deambulatorio de 4 giorni 4 notti per le strade di Rio de Janeiro, nel maggio 1970 – che Freitas analizza, senza fretta, alla fine del libro –, Barrio chiedeva: “Cosa fare dopo? Non c'era niente. Un completo deserto”.

È l'esame di questa impasse del progetto concettualista in Brasile che è la pietra angolare, a mio avviso, di questo libro. Con documenti e argomentazioni, Freitas dimostra che l'indeterminazione dei confini tra arte e vita “non ha portato [in Brasile] all'epica presa di vita dell'arte”, ma alla necessità di “rimarcare i confini tra l'una e l'altra”. In questa direzione, l'autore sottolinea, ad esempio, che nel 1975 i redattori della rivista Malasarte, tra cui Cildo Meireles, ha proposto che il “sistema dell'arte” sarebbe d'ora in poi considerato “no opera d'arte, invece dell'”assalto anti-istituzionale tipico delle avanguardie”. Tuttavia – mi permetto di aggiungere – sarà solo all'inizio del decennio successivo, con il cosiddetto “ritorno alla pittura” della “generazione degli anni '80”, che i confini tra arte e vita verranno effettivamente rimarcati, con la differenza che da allora in poi il sistema dell'arte non sarà più riferito in chiave critica, nel senso di Malasarte, ma, al contrario, scaldato da opere dalla liquidità garantita come Belle arti.

Questa diagnosi dell'aporia delle avanguardie in Brasile nella prima metà degli anni '1970 è articolata da Freitas anche al dibattito internazionale sulla postmodernità, nel mondo Campi, o più precisamente su temi come la crisi dell'autonomia della forma artistica e la cosiddetta “fine dell'arte”. Perché si percepiva, qua e là, pur nelle differenze, che la crisi delle avanguardie implicava, a livello concettuale, l'abbandono della nozione di autonomia della forma, associata nell'immaginario della modernità artistica con le potenze di negatività arte.

La sfida dell'autore, quindi, è stata quella di verificare se gli interventi di guerriglia che miravano a far convivere arte e vita articolassero, in ogni caso, gli elementi del presente nel gesto estetico - per mettere in relazione, nella metafora, estetica e politica - o se, al contrario, hanno prodotto la neutralizzazione della poetica e lo sbiadimento della politica, soccombendo al cosiddetto “mondo della vita” (che l'autore intravede in Il Corpo è l'Opera, di Antonio Manuel, che, a differenza di Tiradentes, di Cildo Meireles, finalizzata all'“intersezione diretta” – “un'associazione evidentemente carica di ingenuità” – “tra la negazione dell'autonomia estetica, da un lato, e il rifiuto di un sistema repressivo, dall'altro”).

Artur Freitas esamina, quindi, il tentativo di superare l'arte nella vita sulla base delle “contraddizioni del concettualismo in Brasile”. Perché se l'arte concettuale era da un lato un “movimento democratico”, dall'altro implicava anche un “discorso sterile”, come sottolineava negli anni '1990 lo stesso Cildo Meireles, ripercorrendo la sua militanza durante il periodo della guerriglia . Il che significa che, per la sua specializzazione – se non l'esoterismo, che sarebbe il risultato della logica interna della forma artistica dell'arte d'avanguardia lungo tutto il Novecento – l'arte concettuale si sarebbe talmente allontanata dalla prassi che la sua effetti non sarebbero stati utilizzati per il “mondo della vita”, nel senso di una riconfigurazione dell'esistenza.

Questa osservazione, secondo Freitas, vale non solo per l'arte concettuale anglo-americana, di Joseph Kosuth o del gruppo Arte e linguaggio – secondo cui, tautologicamente, “l'arte è la definizione dell'arte” –, ma anche per “l'arte concettuale espansa”, come il concettualismo politico-ideologico latinoamericano, per il quale “l'arte è vita”. Rafforzando il parallelismo tra arte e guerriglia, si può rischiare, rispetto a questo ermetismo, che così come il potenziale liberatorio dell'arte concettuale non abbia permeato la pratica della vita, perché è rimasto distante dal repertorio pubblico medio, le azioni di uomini armati i gruppi declinarono rapidamente, poiché non raggiunsero il previsto sostegno delle "masse".

Con lo scopo di far emergere le contraddizioni del processo di modernizzazione conservatore durante il periodo del governo militare, Freitas conclude la sua valutazione della guerrilla art mostrando la difficoltà del progetto concettualista nell'estendere il "mondo dell'arte" al "mondo sociale". . In questa valutazione, l'autore elenca quelli che chiama “i quattro miti concettualisti”. Il primo di essi, scaturito dalla lotta contro la figura dell'“artista come genio”, è il mito della creazione universale, secondo cui “chiunque ha una facoltà estetica produttiva o è in grado di svilupparla”.

Il secondo mito, frutto del rifiuto della passività o del godimento dell'osservatore come giudizio disinteressato, è quello della partecipazione pubblica, ereditato dal neoconcretismo; e consiste nella convinzione che, di fronte a una proposizione concettuale, lo spettatore diventi partecipe o coautore e, quindi, agente trasformante della realtà.

Il terzo mito, l'estetizzazione del reale, è il risultato del superamento dell'opera d'arte come “oggetto speciale”; o, in altre parole, è il mito che tutti nella vita, oggetto o gesto, può essere arte. Infine, l'ultimo mito è quello della morte delle istituzioni, o del circuito artistico, che si basa sulla convinzione che “qualsiasi luogo è un luogo per l'arte”, o addirittura che “il museo è il mondo”, com'era si diceva allora – e quello che accadde nel decennio successivo, in senso opposto, fu la musealizzazione della cultura, cioè quella tutti nel mondo può finire nel museo. Su quest'ultimo aspetto, l'autore riflette, tuttavia, che sarebbe una “idealizzazione forzata” ritenere che le azioni della guerrilla art fossero destinate solo ai “circuiti ideologici in generale”, e non al circuito dell'arte in particolare, come evidenziato dai documenti analizzati, siano essi gli appunti degli artisti o le registrazioni fotografiche delle loro azioni.

Tuttavia – sottolinea Freitas – questo equilibrio non comporta l'inefficacia del progetto concettualista, dato che esso “fissava nell'immaginario artistico contemporaneo brasiliano” “le basi fondamentali di tutta una mitologia poetica estesa – e impossibile –”. Infatti, la produzione degli anni Sessanta e Settanta – come “articolazione tra arte, comportamento, sperimentazione e critica”, nella sintesi di Celso Favaretto, è stata frequentemente appropriata negli ultimi decenni per caratterizzare il rapporto tra arte e politica nell'ambito della globalizzazione o globalizzazione della cultura. Va ricordato, tra l'altro, che l'espressione “ritorno del reale”, di Hal Foster, del 1960, designava proprio questo tentativo della nuova generazione di artisti, in Brasile o all'estero, di riallacciare i legami pratici tra arte e life – come si vede, da allora, nel moltiplicarsi di installazioni o eventi di “arte relazionale”.

Diventò così una sfida per la critica comprendere – nel linguaggio di Jacques Rancière – “le metamorfosi della commistione tra arte e vita”, cioè comprendere la nuova configurazione politica nel “gioco degli scambi e degli spostamenti tra il mondo art and not art”, che è molto diverso dai progetti avanguardistici di estetizzare la vita, come nel caso della guerrilla art.[Iv]

Perché, a differenza del gesto estetico degli anni '1970, che mirava, in termini di epoca, a rinnovare la sensibilità attraverso un “investimento nella deterritorializzazione del desiderio”, l'arte collaborativa degli anni '1990 o 2000 ha rappresentato una nuova forma di critica sociale – sebbene edulcorato, per alcuni autori, perché svolto in collaborazione con il terzo settore e tutelato da leggi incentivanti, all'interno delle istituzioni culturali.

Occorre anche contrastare, in questa direzione, l'“artista stratega” degli anni '1970 – “un operatore critico e anonimo che, contando sulla collaborazione di una rete di azioni clandestine”, agiva nei “buchi del sistema”, nella caratterizzazione di Freitas – con l'“artista-direttore” degli ultimi tre decenni –, “eccezionale organizzatore” o “manager di eventi conviviali, astuto e autorevole imprenditore di operazioni simboliche”, nella caratterizzazione di Jean Galard.[V]

Questo libro, quindi, contribuisce alla comprensione non solo del progetto concettualista in Brasile ma anche dei tentativi così frequenti negli ultimi anni di “ricostruire ponti”[Vi] – per dirla con Nicolas Bourriaud – tra gli anni Sessanta e Settanta (periodo dell'autoritarismo di Stato) e gli anni Novanta e Duemila (segnati dall'autoritarismo di mercato).

Il testo di Freitas risponde, in altri termini, alla seguente domanda di Celso Favaretto, così sintetizzata: ripotenziali secondo le attuali condizioni della cultura e delle arti?”[Vii] Per Freitas, questa riattivazione sarà possibile quando ci si renderà conto che le opere più rilevanti del progetto concettualista – come le opere di Antonio Manuel, Artur Barrio e Cildo Meireles esaminate nel libro – costituivano una sorta di “riserva di potere poetico” di “impregnando la forma artistica di preoccupazioni politiche, lavorando con le esigenze del linguaggio del suo tempo”. O, per dirla in altro modo: sarà possibile se la nuova generazione di artisti, senza riscatti o nostalgie, apprenda dalla guerrilla art la possibilità di “elaborare radicalmente” il problema politico del presenti senza rinunciare all'indagine della forma artistica.

Per questi motivi si sottolinea la rilevanza dell'analisi rigorosa e rara, perché erudita, di Freitas. È un'opera che spiega ingegnosamente come ogni singola opera d'arte passi dall'esteriorità all'interiorità, dalla materia della vita alla forma artistica. Scritto in una prosa limpida, è un libro di riferimento sul territorio, sia per la preziosa ricerca documentaria sulla guerrilla art, che sfugge ai luoghi comuni della critica, sia per problematizzare, con finezza, il rapporto tra arte e politica.

*Ricardo Fabbrini È professore presso il Dipartimento di Filosofia dell'USP. Autore, tra gli altri libri, di L'arte dopo le avanguardie (Unicamp).

Questo testo è una versione parzialmente modificata della Prefazione “Impasses da Guerrilha”, originariamente pubblicata nel libro di Artur Freitas, Guerrilla Art: avanguardia e concettualismo in Brasile.

Riferimento


Arturo Freitas, Guerrilla Art: avanguardia e concettualismo in Brasile. San Paolo, Edusp, 360 pagine.

note:


[I] Federico Morales. Arti plastiche: A. Crisi dell'ora corrente. Rio de Janeiro: Pace e Terra, 1975, p. 26.

[Ii] Visualizza Arte in rivista, CEAC: Centro Studi Arte Contemporanea, anno 5, n. 7 agosto 1983.

[Iii] Yve.-Alain Bois. La pittura come modello. San Paolo: Martins Fontes, 2009, p. XXV.

[Iv]  Jacques Ranciere, La condivisione del sensibile: estetica e politica.  San Paolo: Editora 34, 2005, p. 55.

[V] Jean Galard, “Estetizzazione della vita: abolizione o generalizzazione dell'arte?, in A. Dallal, (a cura di). L'abolizione dell'art. Messico: UNAM, 1998, p.70.

[Vi]  Nicolas Bourriaud, Estetica relazionale. San Paolo: Martins, 2009.

[Vii] Celso Favaretto, “Arte e cultura negli anni '60: resistenza e creazione”, in Juana Elbein Santos (a cura di), Creatività, nucleo della diversità culturale: l'estetica del sacro. Salvador: Secneb, 2010, pag. 93.

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