I margini e il detto

Abeer Al Fatni, Ritratto, 2014
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da AFRANIO CATANI*

Commento al libro di Elena Ferrante

1.

Parlare di Elena Ferrante è sempre, o quasi, un mistero. Questo perché il suo nome è lo pseudonimo di una scrittrice italiana la cui identità rimane segreta. Le risposte su di lui non sono altro che divertenti speculazioni. Si può dire con una certa attendibilità che sia nato a Napoli – o almeno abbia vissuto o abiti lì –, cornice di quasi tutti i suoi libri.

In rare interviste rilasciate alla stampa, sempre per iscritto e mediate dai suoi editori italiani, rivelò di essere figlia di una sarta e di avere tre sorelle, di aver scritto una decina di romanzi e diversi libri di saggistica e di aver ricevuto diversi premi letterari.

Conosce bene Napoli e ha una solida dimestichezza con gli autori greci e latini; Dicono che Elena Ferrante sia, in realtà, Domenico Starnone (1943), eccellente scrittore, romanziere, giornalista, autore di sceneggiature e detentore di importanti premi letterari – nega di aver scritto le opere firmate da Elena Ferrante. Altri sostengono che si tratti della scrittrice Marcella Memmo, mentre non pochi hanno concluso che si tratti della traduttrice romana Anita Raja, figlia di un tedesco emigrato in Italia dopo la Shoah, e sposata con Domenico Starnone. Insomma, tante ipotesi e nessuna conclusione.

2.

Il fatto è che questo mistero è lungi dall’essere risolto Margini e dettatura: sui piaceri della lettura e della scrittura, originariamente pubblicato nel 2021; al contrario.

Mi spiego: nella “Nota dell'editore italiano”, a firma di Sandra Ozzola, si legge che dei quattro testi che compongono il libro, tre sono stati letti nella Centro Internazionale di Studi Umanistici “Umberto Eco”, dell'Università di Bologna. Elena è stata preceduta, tra gli altri, da Elie Wiesel e Orhan Pamuk. Nell'invito rivoltole da Costantino Marmo, direttore del Centro, si suggeriva che gli interventi da tenere in giornate consecutive potessero riferirsi a “temi legati alla sua attività di scrittrice, alla sua poetica, alla sua tecnica narrativa o a qualsiasi altro tema che ti piace che possa interessare un pubblico ampio e non specializzato” (p. 7).

Ebbene, se nessuno sapesse con certezza chi sia Elena Ferrante, come manterrebbe nascosta la sua identità nelle dichiarazioni avvenute nel novembre 2021? Semplice: “l’attrice Manuela Mandracchia ha interpretato i tre testi, nei panni di Elena Ferrante, al Teatro Arena del Sole di Bologna, in collaborazione con ERT – Teatro dell'Emilia Romagna" (pag. 8). Il quarto lavoro, il convegno “La costola di Dante”, scritto su invito di Associazione Italianisti, è stato letto dalla studiosa e critica Tiziana de Rogatis il 29 aprile 2021 (p. 9). Resta quindi il mistero sull'identità dello scrittore.

3.

In “La penna e la penna” racconta dei suoi primi contatti con l'alfabeto, delle difficoltà nello scrivere il proprio nome su un foglio di carta, soprattutto quando aveva a che fare con i quaderni della scuola elementare, che avevano righe nere orizzontali e anche due linee rosse verticali, una a sinistra e una a destra. “La scrittura si muoveva dentro quelle righe, e quelle righe (…) erano la mia croce” (p. 16). Racconta che si distraeva facilmente e, pur rispettando sempre il margine sinistro, “spesso andava oltre quello destro, sia per completare una parola, sia perché era arrivato a un punto in cui era difficile dividerla in sillabe e muoverla. alla riga successiva senza superare il margine. Sono stato punito così spesso che la nozione di limite è diventata parte di me, e quando scrivo a mano sento la minaccia di quel filo rosso verticale, anche se da tempo non esiste più sulle pagine che utilizzo” (p. 16).

Anche scrivendo al computer, dopo poche righe Elena Ferrante dice di andare sull'icona di allineamento e di cliccare sull'opzione che lascia tutte le righe della stessa lunghezza.

“Più in generale, penso che la mia idea di scrittura – e anche tutte le difficoltà che mi porto dietro – sia legata alla soddisfazione di restare pienamente nei margini e, allo stesso tempo, all’impressione di una perdita, di una spreco, perché ci sono riuscito” (p. 17-18). Questa prigionia esercitata dalle linee orizzontali e verticali verrà rivisitata nelle pagine seguenti di questo primo convegno, così come nelle altre.

Elena Ferrante elabora magistralmente brani e/o poesie contenuti in opere di Italo Svevo (1861-1928), Gaspara Stampa (1523-1554), Lytton Strachey (1880-1932), Virginia Woolf (1882-1941), per accordarsi con gli inglesi autore, secondo il quale “è un errore pensare che sia possibile produrre letteratura a partire dalla materia prima. Bisogna uscire dalla vita (…), bisogna diventare estranei a tutto: concentratissimi, in un solo punto; senza dover ricorrere alle parti disperse della nostra personalità, costruire case stabili nel cervello” (p. 30). Per Elena l'idea di Virginia è abbastanza chiara: “scrivere è campeggiare nel proprio cervello, senza disperdersi nelle numerose, varie, subordinate modalità con cui, come Virginia, si vive una vita cruda” (p. 30) .

Definisce il suo lavoro come basato “sulla pazienza” (p. 33). I quaderni della scuola primaria, con le loro righe orizzontali nere e verticali rosse, “erano senza dubbio una gabbia”, poiché è lì che Elena Ferrante cominciò a scrivere racconti inizialmente ben educati, in una narrazione pulita e ordinata (p. 28). Tuttavia, nel tempo, l’atto di scrivere è diventato “…formare un equilibrio/squilibrio permanente, disporre i frammenti in uno stampo e attendere di sformarlo”. Così, “il romanticismo dell’amore comincia a soddisfarmi quando si trasforma in un romanticismo di mancanza d’amore. Il romanzo poliziesco comincia ad appassionarmi quando so che nessuno scoprirà chi è l'assassino. Il romanzo di laurea mi sembra essere sulla strada giusta quando diventa chiaro che nessuno si laureerà. La bella scrittura diventa bella quando perde l'armonia e ha la forza disperata del brutto” (p. 39).

“Água-Marinha”, la seconda conferenza, dice che in tre dei suoi libri, Ehm amore fastidio, giorni di abbandono e la figlia perduta, li inizia con una scrittura aggregante, nutrita di coerenze, “che costruisce un mondo con tutte le sue impalcature al posto giusto. È una gabbia solida e io la costruisco con i necessari effetti di realtà, con citazioni criptate di mitografie antiche e moderne, con la mia esperienza di lettura” (p. 56-57). Allora è il momento di trasformare tutto questo in “una scrittura convulsa, disaggregante, generatrice di ossimori, brutta-bella, piuttosto brutta, che rispecchia incongruenze e contraddizioni” (p. 57).

Questo insieme di operazioni, secondo Elena Ferrante, fa sì che il passato venga portato nel presente e il presente nel passato; “confonde i corpi di madre e figlia, sovverte i ruoli precostituiti, trasforma il veleno del dolore femminile in un vero veleno che avvolge gli animali, si confonde con gli umani e li uccide, trasforma una porta che funziona normalmente in una che non si apre . si apre di più e poi si apre, rendendo minacciosi o sofferenti o letali o salvifici gli alberi, le cicale, il mare agitato, gli spilloni, le bambole, i vermi della sabbia” (p. 57).

Riferendosi ai suoi personaggi Délia, Olga e Leda, dei tre libri citati, dice: “Direi che sono la loro autobiografia così come loro sono la mia” (p. 58).

In “Stories, I”, la terza delle conferenze, vengono presentate opere di Emily Dickinson (1830-1886), Gertrude Stein (1874-1946), Ingeborg Bachmann (1926-1973), Fyodor Dostoiévsky (1821-1881) e María Guerra. menzionato (1939-2019) per strutturare il suo discorso, che inizia con una nota poesia di Emily Dickinson:

Nella storia, le streghe venivano impiccate
ma io e la Storia
Abbiamo tutta la stregoneria di cui abbiamo bisogno
ogni giorno tra di noi
.

Dice che l'immagine di tali versi, specialmente nei loro Tetralogia napoletana, hanno invocato «una donna che siede al tavolo e scrive come una sfida, quasi un regolamento di conti: 'io e la Storia', un approccio che inizia, con slancio, un filo di parole che estrae, dalla scrittura del nemico del arte delle streghe, una storia che utilizza quell’arte…” (p. 74).

Elena aggiunge che stava scrivendo in un appartamento di Torino, «mentre cercava di inventare altre donne, madri, sorelle, amiche – un'amica strega – e luoghi di Napoli, e piccole vicissitudini e sofferenze di parenti e conoscenti e gli ultimi sessant'anni di storia, estraendoli da molti testi in cui erano già scritti. Sentivo che era vera, una verità che mi preoccupava» (p. 74).

Difende la tesi secondo cui è dal “vivere la vita”, per chi ha ambizione letteraria, “che nascono le piccole e grandi ragioni che spingono la mano a scrivere: il desiderio di raccontare il dolore dell'amore, il dolore di vivere, l'angoscia della morte; la necessità di allineare storto il mondo intero; la ricerca di un nuovo ethos che ci rimodella; l’urgenza di dare voce agli ultimi, di denunciare il potere e le sue atrocità; il bisogno di profetizzare disavventure, ma anche di architettare mondi forse futuri” (p. 80). Questo insieme di ragioni la porta a scrivere le prime righe di un racconto: “Presto si raccolse attorno a me una lunga tradizione di racconti altrui che mi hanno commosso o indignato e che somigliano ai miei, per non parlare del linguaggio dei libri, dei giornali, del cinema, della televisione. , canzoni, nonché un sacco di buoni trucchi per tradurre il 'vivere la vita' nella scrittura, tutte cose che ho imparato quasi senza rendermene conto” (p. 80).

Da allora in poi, secondo Elena Ferrante, scrivere è come “entrare in un cimitero infinito in cui ogni tomba attende di essere profanata (…) Scrivere è impossessarsi di tutto ciò che è stato scritto e imparare lentamente a spendere quell’enorme fortuna (…) Nella scrittura tutto ha una lunga storia alle spalle (pp. 81-82). Insomma, «la scrittura è una gabbia nella quale entriamo subito, con la nostra prima riga. È un problema che è stato affrontato con sofferenza, direi anche con angoscia, proprio da coloro che vi hanno lavorato con più impegno e coinvolgimento» (p. 83).

Pensava che si potesse scrivere meglio in dialetto triestino, non immaginando che fosse possibile raccontare Napoli senza la sua lingua. Tuttavia, dopo aver scritto lunghi estratti da alcuni dei suoi libri, ad es. un amore problematico e Tetralogia napoletana, in dialetto, finì per cancellarli e trasformarli in italiano con “cadenza napoletana”, perché una volta scritto, “il dialetto napoletano sembra sterilizzato. Perde la passione, perde l'affetto, perde la sensazione di pericolo che spesso mi comunicava. Nella mia esperienza di bambino e adolescente era il linguaggio della grossolana volgarità maschile, il linguaggio della violenza con cui venivo insultato per strada, o, al contrario, il linguaggio zuccheroso usato per ingannare le donne” (pp. 90-91). .

La sfida della scrittura è imparare a usare liberamente la gabbia in cui siamo intrappolati. «È una contraddizione dolorosa», ma occorre continuare «adattando e, allo stesso tempo, deformando (…) Insomma, abitare [tutte] le forme [convenzionali] e poi deformare tutto ciò che non ci contiene completamente, che non può in alcun modo contenerci” (p. 92). Ribadisce di averlo fatto La vita bugiarda degli adulti e Tetralogia napoletana.

In “La costola di Dante”, ultimo testo del libro, Elena Ferrante delinea le modalità con cui si è appropriata dell'opera dello scrittore italiano, il cui contatto è iniziato all'età di sedici anni, epoca in cui, più di ogni altra cosa, desiderava scrivere.

Forse non sappiamo chi sia Elena Ferrante, ma possiamo stimarne l’età, poiché dice di aver studiato Dante per la prima volta “cinquant’anni fa” (p. 105). La sua analisi è erudita e approfondita e, in questo momento, avrei difficoltà a comprendere tutte le dimensioni analitiche che la scrittrice mobilita. Tuttavia Elena Ferrante sottolinea che “Dante narrava ossessivamente l'atto dello scrivere, in senso letterale e figurato, rappresentandone continuamente la potenza e la sua inadeguatezza, la caducità dei buoni risultati e del fallimento” (p. 106).

Dante, per lei, conosceva, temeva e combatteva l'insufficienza della scrittura, considerandola “parte della limitatezza e della caducità dell'umano” (p. 110). Recuperando l'idea del limite della scrittura, afferma che “quanto più la penna era disciplinata, tanto più diventavamo veloci (…) e [siamo riusciti a] catturare ciò che, invariabilmente, era sfuggito alla tradizione scritta: che, insomma , ogni forma era una gabbia non durevole, ma necessaria, se volessimo scrivere come nessuno aveva mai scritto” (p. 110-111).

Ma forse la più grande influenza di Dante sulla scrittura di Elena Ferrante è il fatto che Dante lascia dietro di sé “non solo la sua nozione di bellezza, ma anche la nostra; siamo abituati a leggere e scrivere con eccessiva prudenza, siamo vili; lui no, cerca di creare poesia anche con la negazione della poesia” (p. 114).

In breve, Margini e dettatura: sui piaceri della lettura e della scrittura mostra ai lettori alcuni aspetti riguardanti il ​​modo in cui si è costituita la scrittura dell’enigmatica Elena Ferrante, nonché le fortunate modalità da lei costruite per sfuggire alle solide gabbie che imprigionano chi scrive – e, non è esagerato dire, Elena Ferrante lo ha fatto così, e continua a farlo, con maestria.

*AFRANIO CATANI È professore in pensione presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell'USP ed è attualmente professore senior presso la stessa istituzione. Visiting professor presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell'UERJ (campus Duque de Caxias).

Riferimento


Elena Ferrante. Margini e dettatura: sul piacere di leggere e scrivere. Traduzione: Marcello Lino. Rio de Janeiro, Intrínseca, 2023, 128 pagine. [https://amzn.to/40zf4c6]


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