Le motivazioni dei “libertari”

Immagine: John-Mark Smith
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da OSVALDO RODRIGUEZ*

Le grida dei libertari rispondono alle esigenze istintuali più primitive di un'infanzia perduta per sempre

Da quando l'uomo si è allontanato dallo stato di natura, la libertà è un valore posto al centro delle relazioni umane, che sembra sempre da conquistare o rischiare di perdersi. Centinaia di civiltà non sono riuscite a risolvere definitivamente una misura di libertà conforme a tutti, e l'emancipazione, sia personale che collettiva, è sempre qualcosa che deve venire.

La situazione storica che stiamo attraversando, una pandemia nel mezzo, evidenzia una vecchia tensione tra libertà individuali e cura collettiva – il nome attuale di giustizia sociale. I cittadini che vogliono viaggiare all'estero che sono “vittime” della politica di chiusura degli aeroporti, degli “antiquarantena”, degli “antimascherina”, di coloro che gridano contro l'invadenza autoritaria dell'impedimento alla libera circolazione, tutti questi sono fedeli rappresentanti di coloro che aspirano all'esercizio illimitato della libertà individuale. Qualsiasi ostacolo contro di lei deve essere rimosso dalla scena. È chiaro che non sono disposti a rinunciare a nulla per il bene comune.

Due fatti interessanti da sottolineare sono che, in termini generali, questo gruppo di persone libertarie: (a) appartiene a gruppi economicamente privilegiati all'interno della società; (b) si sentono rappresentati da opzioni politiche che interpretano ogni tentativo di distribuzione di beni, ricchezze e diritti come una politica populista, demagogica, castro-chavista e, perché no, comunista, considerando ognuna di queste espressioni come spregevoli aggettivi qualificativi.

Occorre ricordare quella First Lady cilena che, vedendo come le rivendicazioni popolari non cessassero nemmeno di fronte alle pallottole dei carabinieri in faccia ai manifestanti, disse: “Sembrano alieni, dovremo rinunciare a qualche i nostri privilegi perché si calmino”.

Il privilegiato è colui che si presenta come un'eccezione rispetto al collettivo, qualcuno che non si sente nelle regole del contrattualismo. Se Rousseau, Hobbes, Locke, i padri del contrattualismo, hanno stabilito che il principio fondamentale della vita comunitaria è che ogni individuo rinunci a una porzione della sua libertà per recuperarla nei benefici di una vita gregaria, questi soggetti si sentono esclusi dal dover compiere tali una rinuncia.

La domanda fondamentale è se ci sia qualche tipo di motivazione, al di là delle motivazioni morali, per comprendere i fondamenti di questo comportamento che offende la società, e che – se spingiamo un po' le argomentazioni – ha anche un effetto dissolvente sulla socialità, perché il più l'individualismo estremo è incompatibile con la vita comunitaria.

Dato il mio mestiere e la mia abitudine quando i dubbi mi sommergevano, andavo dalla vecchia volpe di Vienna per chiedere aiuto, in cerca di una piccola guida.

Anche Sigmund Freud, in linea con i filosofi contrattualisti citati sopra, pensa che la civiltà sia il risultato di una rinuncia, ma il fondamento freudiano non è sociologico, ma istintuale. Si tratta di rinunciare alla soddisfazione immediata di certe esigenze istintuali. Questa rinuncia a sua volta è fonte di una quantità di insoddisfazione che produce disagio. Il principio guida del funzionamento pulsionale – il principio del piacere – deve essere sospeso per trovare qualche soddisfazione sostitutiva negli interstizi della realtà.

Nelle parole di Freud: "Questa sostituzione del potere dell'individuo a quello della comunità è il passo culturale decisivo. La sua essenza consiste nel fatto che i membri della comunità sono limitati nelle loro possibilità di soddisfazione, e l'individuo non conosceva tale limitazione”[I]

La costituzione della civiltà ha la stessa logica di quella del soggetto che desidera. Un mitico bambino umano soffre di una tensione insopportabile causata dal bisogno di mangiare, e tutta la sua psiche è orientata a ripetere l'esperienza che una volta gli ha dato soddisfazione. Ciò che provoca l'immediato investimento allucinatorio di questa esperienza. Sarà il duro incontro con la realtà mediato dall'aiuto dell'altro che vi insegnerà ad aspettare ea fare le deviazioni necessarie in giro per il mondo. Solo allora imparerai a distinguere tra allucinazione e realtà.

Resterà però per sempre inscritta nel soggetto la falsa nostalgia di un mondo perduto, in cui si trattava solo di desiderare, senza alcuna mediazione, il sorgere di soddisfazioni. In questo mito costitutivo del desiderio umano è ancorata l'idea di libertà illimitata, che in definitiva non è altro che un desiderio infantile, una regressione a uno stadio irreale.

Freud, nel suo monumentale testo Il malcontento della civiltà, si riferisce a questo problema come segue: “La libertà individuale non è un patrimonio della cultura. Era massimo prima di ogni cultura; è vero che a quel tempo mancava di valore il più delle volte, poiché l'individuo riusciva a malapena a conservarlo. Come risultato dello sviluppo culturale, l'individuo sperimenta dei limiti e la giustizia esige che nessuno li sfugga. Ciò che appare all'interno di una comunità come spirito libertario può essere ribellione contro l'ingiustizia imperante, nel qual caso favorirà l'ulteriore sviluppo della cultura e sarà qualcosa di conciliabile con essa. Ma può anche scaturire dal resto della personalità originaria, un residuo non controllato dalla cultura, e diventare così la base dell'ostilità verso quest'ultima».[Ii]

Mi dispiace lettore per la lunga citazione, ma non ho avuto il cuore di tagliarla, poiché credo sia estremamente illuminante.

Le grida dei libertari, così associate dai media mainstream a presunte nuove forme di progresso, non sono altro che vino nuovo in otre vecchio, e rispondono alle esigenze istintuali più primitive di un'infanzia perduta per sempre.

In definitiva, non posso che concludere queste righe di riflessione concludendo che nessuno può essere libero in solitudine e che ci sono progressi che ritardano.

*Osvaldo Rodríguez Professore di Psicoanalisi presso la Facoltà di Psicologia dell'Università di Buenos Aires.

Traduzione: Maria Cecilia Ipar.

Originariamente pubblicato sul giornale Pagina 12.

note:


[I] Freud S.: Il malessere in cultura 1930.

[Ii] Freud S.: malessere nella cultura 1930.

 

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