Berlin Alexanderplatz

Carlos Zilio, PRATO, 1972, inchiostro industriale su porcellana, ø 24cm
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da FRANCISCO DE AMBROSIS PINHEIRO MACHADO*

Commento al romanzo di Alfred Döblin

Pubblicato per la prima volta nel 1929, Berlin Alexanderplatz può essere considerato il primo romanzo tedesco di statura letteraria di una grande città. Fu ampiamente accettato dal pubblico, ricevendo presto nuove ristampe e traduzioni in diverse lingue. Fu anche ben accolto dalla maggior parte della critica dell'epoca, elogiato, tra gli altri, da Robert Musil, Arnold Zweig, Erich Kästner. Anche Thomas Mann ha riconosciuto che il suo acerrimo rivale, Alfred Döblin, è riuscito a elevare la realtà proletaria di quel tempo alla sfera dell'epica. Elogio pesante. Ma è davvero un'epopea del proletariato?

Il libro tende certamente verso un'epopea piuttosto che un romanzo. Questa era la proposta di Döblin, spiegata nei suoi scritti teorici in cui proponeva, fin dagli anni Dieci, di riprendere Omero come via per superare la crisi del soggetto e del romanzo psicologico borghese. Seguendo la posizione di Döblin, Walter Benjamin ha individuato, recensendo il libro, la posta in gioco di questa opposizione: mentre il romanzo si fonda sulla solitudine e l'isolamento dell'individuo chiuso in se stesso, sul libro scritto e sulla separazione tra romanziere e lettore; l'epopea ha le sue origini nella tradizione orale, inserita in una comunità tra narratore e ascoltatore, i suoi personaggi sono esemplari e affrontano una situazione elementare e reale dell'esistenza umana, conferendo alla narrazione un carattere di insegnamento pratico, collettivo e aperto. Döblin ha cercato di concretizzare questa proposta in diverse opere, come ad esempio Manas, del 1927, epopea in versi ambientata in India. ma era con Berlin Alexanderplatz che ha davvero trovato una forma moderna per quello che stava cercando.

L'intensa presenza del dialetto berlinese (purtroppo difficile da tradurre) conferisce al libro l'oralità caratteristica di un'epopea. Inoltre, come il lettore si rende presto conto, il libro non è strutturato in versi o basato su materiale proveniente da mari, terre, tempi eroici e mistici lontani. Consiste in un fitto montaggio, in stile cinematografico, dal collage di ogni genere di documenti d'epoca: brani di giornali sensazionalistici, la Bibbia, il diario di un depresso, dispacci pubblici, processi, canti popolari e patriottici, regolamenti penitenziari, annunci pubblicitari, tariffe autobus, descrizione della rete di trasporto pubblico, libri scientifici, statistiche urbane, meteorologia.

Niente montaggio arbitrario, come mostra Benjamin, che dà autorevolezza all'azione epica e che, secondo Döblin, permette di avvicinarsi il più possibile alla realtà, più precisamente a quella che lui definiva super-realtà (Über-realtà), oltre a quello di fatto. Sono documenti estratti dalla vita frenetica e sfaccettata della Berlino tra le due guerre: una megalopoli industriale di quattro milioni di abitanti, devastata dalle instabilità politiche ed economiche della Repubblica di Weimar. Berlino è stata per Döblin un “mare di pietra”, in cui ha raccolto il materiale per il suo libro. Lo carpiva soprattutto dalla vita che ribolliva intorno ad Alexanderplatz, piazza vicino alla quale viveva e aveva il suo studio medico, situata in una zona commerciale, circondata da quartieri piccolo borghesi, caseggiati e aree decadenti di prostituzione e banditismo.

Tra quest'ultimo e in questa piazza si svolge la storia di Franz Biberkopf, il protagonista della narrazione. La preoccupazione di Döblin, quando scriveva il libro, era per il problema sociale di questi uomini “tra le classi”, in questo senso il suo eroe moderno sarà soprattutto ambiguo come il suo ambiente sociale, il sottoproletariato. Non è, dunque, un eroe antico, di ceto nobile, esemplare per coraggio e virtù raffinate con cui difende degnamente la sua città e si fa carico del suo destino.

Biberkopf è un uomo semplice, anche buono, forte fisicamente, per certi versi coraggioso ma senza lungimiranza, ingenuo e brutale. Ha difeso la Germania come soldato nella prima guerra mondiale ed è stato operaio edile e dei trasporti, ma in seguito ha trascorso quattro anni in prigione per aver picchiato la sua compagna, Ida, che finì per morire. Uscito dal carcere – qui inizia la narrazione – si stabilisce faticosamente in Alexanderplatz, sentendosi veramente libero solo dopo aver costretto la sorella di Ida ad avere rapporti sessuali con lui con una certa violenza.

Senza riflettere né sentirsi in colpa per nulla, si propone di condurre una vita dignitosa e si sforza davvero di farlo. Ma a causa della sua ingenuità, presto l'ambiente sociale a cui apparteneva, come se possedesse la forza del destino o della legge naturale, gli impedisce di realizzare la sua intenzione. Innanzitutto, viene ingannato da un collega. Poi viene coinvolto per sbaglio in una rapina con un gruppo di banditi e finisce per perdere il braccio destro a causa di Reinhold, uno dei ladri. A questo punto, incapace di capire cosa sta succedendo e di resistere a tali battute d'arresto, Biberkopf si arrende e decide di non essere più decente, diventa deliberatamente un magnaccia e sembra che stia bene con la sua nuova vita. Partecipa anche a riunioni di gruppi di sinistra e anarchici, ma piuttosto per difendere la sua condizione di farabutto, orgoglioso di non essere né operaio, né disoccupato, né borghese.

Si unisce volontariamente allo stesso gruppo di banditi di prima, riconnettendosi con Reinhold, che considera il suo migliore amico nonostante tutto. Questo, però, uccide crudelmente il suo compagno. Biberkopf finisce in un manicomio. In toto delirio mortis  riesce ad assumere la sua colpa: “Sono colpevole, non sono un essere umano, sono un animale, un mostro”, e muore.

Ma la narrazione non finisce qui. Döblin racconta anche la rinascita di un altro Biberkopf, che esce dal manicomio, diventa aiutante di un facchino, conducendo una vita dignitosa. Risvegliato, sembra aver capito – ecco l'epico insegnamento – che da solo non può superare il destino o l'ambiente sociale che gli impedisce di essere decente, allo stesso tempo non si tratta di marciare alla cieca con gli altri, è necessario sapere con chi si unisce prima di agire di conseguenza: "Agli uomini è stata concessa la ragione, i buoi formano una corporazione".

Un insegnamento non trascurabile se considerato come allarme contro il fascismo e il nazismo, ma comunque ambiguo per non assumere una posizione politica definita, provocando così disagio tra i critici della sinistra dell'epoca. Per Benjamin, qui c'è anche una mancanza di definizione tra epico e romanzo, poiché Biberkopf, messo alle strette e passivo nel corpo di guardia della fabbrica, abbandona il suo personaggio esemplare e si isola dal lettore. Döblin ha ammesso il carattere improvvisato del finale, dicendo che dovrebbe essere inteso come un ponte verso un altro libro, che probabilmente includerebbe il proletariato, come ha suggerito in una conversazione con Sternberg e Brecht.

Tuttavia, quella che sarebbe stata in realtà un'epopea del proletariato non è stata scritta. Questo fatto, a mio avviso, sfida – soprattutto i lettori di oggi – a comprendere l'ambiguità della fine di questa quasi epopea non come una debolezza che viene meno all'impareggiabile ritratto sociale ed epocale che offre, ma come un'apertura che ci lascia con l'insegnamento appunto di un compito irrisolto. Un monito contro altri tipi di totalitarismo.

*Francisco de Ambrosis Pinheiro Machado è professore di filosofia all'Unifesp. Autore, tra gli altri libri, di Immanenza e storia: la critica della conoscenza in Walter Benjamin (Ed.UFMG).

Riferimento

Alfred Doblin. Berlin Alexanderplatz. San Paolo, Martins – Martins Fontes (https://amzn.to/3OUc7hI).

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