da CARLOS EDUARDO ARAÚJO*
L'opera di Byung-Chul Han, rivestendo il suo messaggio di una retorica seducente, diventa un prodotto di consumo culturale che, pur apparendo critico, rafforza la logica del dominio e dello sfruttamento.
1.
Byung-Chul Han è un fenomeno editoriale, ma la sua opera merita di essere esaminata con occhio critico e senza la riverenza che solitamente la accompagna. Sebbene venga presentato come un “filosofo” che diagnostica i mali del neoliberismo e della società contemporanea, la sua produzione sembra più una variazione incessante sugli stessi temi, ruotando attorno a concetti come trasparenza, performance, positività e autosfruttamento.
C'è qualcosa di industriale nella sua scrittura, nel senso più fordista del termine: i suoi libri seguono un modello di produzione di massa, dando vita a prodotti intellettuali facili da consumare, rapidamente digeribili, ma con scarso valore nutrizionale per un pensiero veramente critico.
La principale critica che si può muovere a Byung-Chul Han è la superficialità. Spesso usa concetti filosofici come se fossero slogan, riducendo idee complesse a formule seducenti e accessibili. L'effetto è ingannevole: la sua prosa è concisa e coinvolgente, dà l'impressione di profondità, ma a un esame più attento si rivela ripetitiva e incapace di sviluppare le proprie premesse con rigore.
Questa semplificazione eccessiva porta all'impressione che Byung-Chul Han non proponga una critica decisa del neoliberismo, ma si limiti a descriverne le dinamiche con un certo tono malinconico, senza offrire soluzioni o alternative. La sua diagnosi è sempre la stessa: viviamo in una società della prestazione, ci sfruttiamo e siamo nauseati da un eccesso di positività. Ma cosa succederà ora? Byung-Chul Han non entra nei dettagli.
Inoltre, la sua popolarità fulminea suscita sospetti. I filosofi autenticamente radicali non sono solitamente ben accolti dal mercato editoriale, soprattutto quando criticano presumibilmente la struttura dominante. La proliferazione delle sue opere, che spesso sono semplici sviluppi di quelle precedenti, senza aggiunte significative, suggerisce che abbia trovato una nicchia perfetta: una critica leggera e gradevole che non sfida realmente nessuno ma offre una parvenza di riflessione ai lettori che vogliono sentirsi intellettualmente coinvolti senza dover affrontare il peso di una filosofia rigorosa.
Non offre strumenti concettuali solidi per una vera trasformazione della realtà. Il suo approccio estetico e lo stile aforistico lo avvicinano più a un guru che a un pensatore veramente sovversivo. Alla fine, Han non è un problema perché sbaglia, è un problema perché è insufficiente.
Byung-Chul Han è diventato un fenomeno editoriale mondiale, con libri tradotti in diverse lingue e una schiera di lettori che trovano nella sua opera una diagnosi dei mali dei tempi contemporanei. Tuttavia, uno sguardo critico – e, più precisamente, marxista – rivela che la sua filosofia è non solo insufficiente, ma anche innocua per una vera critica del capitalismo.
Nel descrivere le dinamiche della società della performance e dell'autosfruttamento, Byung-Chul Han evita di indicare i responsabili specifici della situazione, rendendo la sua analisi più un'elegia malinconica che una critica trasformativa.
2.
I suoi libri seguono uno schema ripetitivo: siamo vittime di un'eccessiva positività, di una trasparenza obbligatoria, di un'ipercomunicazione digitale e del burnout causato dal superlavoro e dall'autosfruttamento. Ma formulando questa critica in modo così astratto, Byung-Chul Han ignora gli elementi strutturali dello sfruttamento capitalista. Dov'è il valore aggiunto? Dov'è l'espropriazione dei mezzi di produzione? Dov'è la figura del capo, del borghese, del proprietario del capitale?
Ponendo il lavoratore come sfruttatore di se stesso, Byung-Chul Han sposta la responsabilità dal sistema capitalista all'individuo stesso, come se l'esaurimento e l'ansia fossero solo sintomi di un malessere diffuso e non il risultato diretto dello sfruttamento economico.
La nozione di “autosfruttamento”, tanto cara a Byung-Chul Han, è un modo velato di svuotare il concetto marxista di sfruttamento. Se ora il lavoratore sfrutta se stesso, chi trae vantaggio da questo sfruttamento? Il capitale continua ad accumulare ricchezza, i mezzi di produzione restano nelle mani della borghesia e la disuguaglianza strutturale viene perpetuata. Ma Byung-Chul Han non ce ne parla. Descrive l'angoscia del soggetto neoliberista, ma non denuncia la struttura economica che lo imprigiona. La tua critica, quindi, non è altro che un lamento impotente.
Anche la sua popolarità merita attenzione. Byung-Chul Han è celebrato, venduto negli aeroporti e consumato come un pensatore pop. Questo perché la sua filosofia, nonostante il tono critico, non minaccia il capitalismo, anzi, si adatta perfettamente ad esso. Offrendo critiche innocue e personalizzate, consente ai suoi lettori di rimanere immersi nel sistema senza doverlo veramente affrontare.
Byung-Chul Han è un sintomo della società che afferma di criticare. La sua filosofia non è un'arma contro il capitalismo; Si tratta di un prodotto sofisticato del capitalismo stesso, venduto come un sollievo intellettuale a coloro che ritengono che qualcosa non vada ma non sono disposti – o non sono in grado – di affrontare le radici del problema.
3.
Il lavoro di Byung-Chul Han funziona come un simulacro della filosofia critica, un prodotto culturale che offre ai suoi lettori un senso di profondità senza chiedere loro alcuno sforzo reale per riflettere o confrontarsi con le strutture che sostengono lo sfruttamento capitalista. Il suo pensiero è l'epitome dell'intellettualismo del fast-food: facile da digerire, elegante nella forma, pieno di termini seducenti, ma sostanzialmente privo di contenuti trasformativi.
Questa caratteristica rende Byung-Chul Han particolarmente apprezzato da un pubblico che desidera ostentare un'apparenza di erudizione senza tuttavia impegnarsi in studi rigorosi o in una critica veramente rivoluzionaria. Fornisce il vocabolario per i dibattiti da salotto, per le conversazioni da bar tra professionisti e accademici superficiali che vogliono apparire impegnati, ma il cui impegno per il cambiamento sociale si limita a una lettura sporadica di brevi saggi e vaghi aforismi.
Byung-Chul Han, impreziosindo la sua critica con un linguaggio elegante e una profondità apparente, offre un palliativo seducente per un pubblico che cerca di ostentare intellettualità, anche se superficiale e superficiale. Il suo lavoro, quando si occupa di “società della performance” e di “autosfruttamento”, presenta concetti che, pur potendo apparire innovativi, non sono altro che riformulazioni di critiche già note – senza però indicare i veri responsabili dello sfruttamento.
Questa analisi, impregnata di una vernice stilistica, maschera l’assenza di una diagnosi che vada alla radice della contraddizione capitalista, allontanandosi dal nucleo marxista che individua nel detentore del capitale e nell’espropriazione del plusvalore gli elementi centrali dello sfruttamento.
Da questa prospettiva, la critica di Byung-Chul Han diventa un esercizio di auto-esaltazione intellettuale, in cui il lavoratore, costretto a sfruttare se stesso, viene indirettamente incolpato della propria condizione. Il sistema capitalista, con i suoi meccanismi di accumulazione e concentrazione dei mezzi di produzione, rimane intatto: la sua funzione espropriatrice viene messa da parte a favore di una narrazione che mira a confortare il soggetto neoliberista con riflessioni superficiali e stilizzate.
Così, invece di rivelare il vero sfruttatore – il detentore del capitale – Byung-Chul Han alimenta l’illusione che la soluzione ai problemi contemporanei risieda nell’autoanalisi malinconica, e non nella trasformazione strutturale della società.
L’effetto di questa “vernice” è duplice. Da un lato, conferisce un'aura di profondità che attrae un pubblico desideroso di riflessioni che suonano rivoluzionarie ma che, nella pratica, restano prive di un impegno di vera critica delle strutture di potere.
D'altro canto, questo approccio superficiale funge da strumento ideologico che perpetua lo status quo, offrendo soddisfazione estetica senza provocare i cambiamenti necessari per superare le contraddizioni fondamentali del capitalismo.
In sintesi, l'opera di Byung-Chul Han, rivestendo il suo messaggio di una retorica seducente, si trasforma in un prodotto di consumo culturale che, pur apparendo critico, finisce per rafforzare le logiche di dominio e sfruttamento che una vera analisi marxista ci imporrebbe di denunciare.
*Carlos Eduardo Araujo Master in Teoria del diritto presso PUC-MG.
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