Di LUIZ RENATO MARTINS*
Csulle considerazioni sulle innovazioni pittoriche di Édouard Manet
preambolo e schema
Le scene di gruppo ei ritratti realizzati da Édouard Manet (1832-1883), come la sua opera in generale, furono sottoposti a letture storiografiche formaliste. Questi risalirono e predominarono dal periodo della restaurazione borghese, aperto con il massacro della Comune di Parigi (1871) che inaugurò la cosiddetta bella epoca.
Teniamo presente che, da allora, a parte brevi episodi rivoluzionari, crisi e devastazioni (conseguenti al colonialismo, al crollo finanziario del 1929 e alle due guerre mondiali intramperialiste), ha prevalso l'espansione capitalistica e, con essa, l'espansione formalista letture nel campo della critica e della storiografia artistica. Senza entrare nei motivi e nei dettagli di questa interrelazione, che non è qui il luogo di analizzare, l'egemonia del canone formalista, per le arti, si è protratta per circa un secolo, fino agli anni Settanta, quando il formalismo ha ceduto il passo all'eclettismo del chiamato "postmodernismo", che non è nemmeno il luogo per discutere qui.
In questo caso, è importante notare, in questo schema, che all'interno del ciclo storico che coinvolse e plasmò l'interpretazione dell'arte di Édouard Manet, essa si sviluppò, quasi interamente, sotto gli effetti dell'espansione economica (durante il II Impero [1852- 70] e la sua ripresa nella Terza Repubblica, dal 1870 in poi). Tempi eccezionali in questo senso furono solo quelli della guerra intramperialista franco-prussiana del 1870-1, con l'assedio di Parigi, e quelli della rivolta politica della Comune, che durò circa due mesi.
Letture del contatore sulla contro marea
Per i formalisti, da Julius Meier-Graefe (1867-1935) in poi, passando per Clement Greenberg (1909-94), la pittura di Manet sarebbe fondamentalmente atematica o protoastratta, nei termini della concezione di fondo della dottrina della “pura visibilità ”. Questo è stato proposto (basato su elementi di neokantismo) dal collezionista, marchand e anche uno scrittore, che ha studiato critica d'arte: Konrad Fiedler (1841-1895).[I] Seguendo Fiedler, la questione dei temi è stata intesa da un certo numero di storici e critici come irrilevante per i progetti artistici di Manet, che hanno privilegiato, secondo loro, l'emancipazione della pittura rispetto alla funzione narrativa.
In questo senso Manet fu sbandierato e venduto dalla critica come il pioniere della distruzione dell'“illusionismo pittorico”, cioè come colui che rifiutava – oltre alla centralità tematica nella composizione – la grammatica del chiaroscuro e profondità. Presunto precursore della “planarità” e della pittura antinarrativa, Manet è stato inteso in tale chiave come il “terreno zero” dell'arte moderna – considerata, in questo senso, arte astratta e fondamentalmente autoreferenziale. In questo senso, è chiaro che la questione (specifica solo dell'angolo del realismo) sul significato dei ritratti e delle scene parigine di Édouard Manet non si pone.
In controtendenza rispetto a tale interpretazione, la presente indagine presuppone, fin dall'inizio, l'azione critica e inventiva del pittore di fronte al linguaggio pittorico dell'epoca, nonché il contenuto impegnato e radicalmente repubblicano della sua opera. Cercherò quindi di mostrare che le innovazioni linguistiche introdotte, così come i temi scelti, facevano parte dell'unità di una riflessione in cui la pratica innovativa della pittura era inscindibile da una sintesi critica del momento storico.
Le innovazioni pittoriche di Édouard Manet – fossero quelle evidenziate (con un errore di parzialità) dai formalisti, o altre di cui questi ultimi non erano a conoscenza – erano proprio ciò di cui il pittore aveva bisogno per discutere e riflettere criticamente e pittoricamente sulla marea montante del nuovo sistema produttivo di merci. Quali erano le tensioni che circondavano l'opera estetica in quel contesto e qual era, inversamente, la struttura critico-pittorica che Manet conferiva a tali forze? Cosa contraddistingue, rispetto al dipinto precedente, tali ritratti e scene di vita nella metropoli, allora in fase di accelerata e programmata trasformazione, come si dirà in seguito? Senza affrontare tali domande, non c'è modo di dare un senso alle innovazioni pittoriche intraprese da Manet.
fisiologia del disincanto
Manet era uno studioso della tradizione internazionale. Compì viaggi in Italia, Spagna e Olanda per visitare musei e conoscere altre matrici della pittura europea. Le sue operazioni di spostamento, inversione e rottura dei codici pittorici non sono casuali, ma hanno un contenuto critico e riflessivo e sono guidate storicamente. Durante tutta la sua formazione, e anche tramite il pittore Thomas Couture (1815-1879), nel cui studio iniziò, mantenne stretti contatti con lo storico Jules Michelet (1798-1874) ritratto da Couture (1843, Parigi, Musée Carnavalet) e anche vicino alla famiglia Manet.[Ii]
Partiamo dai ritratti realizzati da Manet. Questi presentano una certa inespressività e indeterminatezza. I volti mostrano stati intimi incerti, fisionomie svuotate e segni comportamentali di dissociazione, visibili anche nella mancata corrispondenza degli sguardi. Dissociazione, discrepanze, inespressività... Cos'è questa insolita miscela di qualità negative? La questione calza, tanto più se si considera quanto costoso e difficile fosse – sia nell'antichità che dal gotico in poi nel periodo tardo medievale – sviluppare in pittura i termini del dialogo, della manifestazione affettiva e della sfera interiore o soggettiva.
L'apparente indeterminatezza delle morse che domina le scene di gruppo di Manet è ben diversa da quella carica di promesse (di seduzione, malinconia e altro), tipica di feste galanti di Watteau (1684-1721). In Manet si annulla il senso dell'azione e della comunicazione nei volti e nei corpi. Il risultato è una pittura dell'autodisincanto o dello svuotamento della spontaneità del sé come vera origine dell'azione.
pittura negativa
Indubbiamente ciò contraddice direttamente il carattere della sua annotazione pittorica: cioè la pennellata legata alla sensazione, come pretendeva Baudelaire (1821-67)[Iii] e che sembra, allo stesso tempo, vigoroso e spontaneo. Ma una tale contraddizione è solo apparente e può essere spiegata con altri motivi.
Qual è il significato di inespressività Cosa attribuisce Manet alle sue figure? Un confronto con il dipinto che ha mostrato la genesi dell'individualismo e la struttura visiva del soggetto classico è utile per chiarire questo paradosso. I ritratti di Manet hanno la zavorra della pittura olandese. E similmente includono l'istantaneità dell'atto, tipica di Chardin (1699-1779), seguace del realismo olandese. Ma Manet dialetticamente supera e nega tali fonti. COME?
I tipi umani della pittura olandese – le cui azioni e ambienti si opponevano per precisione e funzionalità al contenuto irreale, immaginario o abusivo di comportamenti e situazioni della pittura barocca, in voga nelle corti assolutiste dell'epoca – si distinguevano per interesse e attenzione con chi svolgeva qualche compito o maneggiava qualcosa: versare il latte, leggere una lettera, suonare uno strumento, ecc. – vedi le tele di Vermeer (1632-75). Allo stesso modo, le figure di Hals[Iv] (1582/3-1666), anche nelle scene di dissipazione e sperpero, quando manifestavano giubilo, rivelavano anche una forte coesione interna e un senso di presenza individuale, tipico del momento storico. Tali segni erano coerenti con la secolarizzazione, la semplificazione dei mezzi, la nascente ma generale convinzione nella facoltà di giudicare. Infine, il set riecheggiava la fiducia nell'istituto della libertà economica impiantato in Olanda e denotava il razionalismo e il presunto universalismo dell'etica borghese che nel XVII secolo infondeva un nuovo valore alla forza di giudizio e alla vita individuale.
Al contrario, l'atonia risiede al centro delle soggettività tratteggiate nelle tele di Manet. Scollegati da tutto, assenti da se stesso e da ciò che lo circonda, gli atteggiamenti presentati dal pittore moderno non hanno nulla dell'attenzione concentrata e potente dei tipi di Chardin o della tradizione olandese.
Consideriamo anche che l'inespressività, la discrepanza e la dissociazione – le qualità negative dei personaggi di Édouard Manet – sono distribuite al di là di un volto o dell'altro. Essi infatti acquistano un valore generale e oggettivo come tratto comune a tutti i ritratti e le scene parigine. Se questo è vero, abbiamo a che fare con una “forma oggettiva”. Si tratta di una “sostanza storico-pratica” – secondo il significato coniato da Roberto Schwarz (n. 1938), dispiegata dalla nozione di forma materialista costruita da Antonio Candido (1918-2017).
Si tratta, in questi termini, di una forma che implica – per il suo consolidamento specificamente estetico – la riduzione strutturale del “ritmo generale della società”, dice Candido. Il processo avviene in modo tale che il ritmo sociale non appaia come modalità avvolgente, ma come elemento interno attivo e nella forma di un proprio e specifico dinamismo. La forma in questione, come condensazione estetica di ritmi sociali, manifesta così, secondo Schwarz, l'esito coerente di un potere all'interno del romanzo.[V]
In una tale prospettiva, le forme pittoriche dell'inespressività, della discrepanza e della dissociazione – quali qualità negative dei personaggi di Édouard Manet o deficienze della sua pittura (secondo la visione dei critici dell'epoca) – rivelerebbero quelle che erano modalità specifiche della soggettività e della socialità, per Manet, correnti nella Parigi del II Impero (1852-70). Di nuovo, cosa porta e implica questo?
"Vita moderna"
L'opera critico-riflessiva di Baudelaire (1821-1867) è stata decisiva al di là dei termini dell'arte, cioè per stabilire, per Manet, il senso generale della modernità. Il pittore mantenne un intenso dialogo – trascurato dai formalisti – con il critico e poeta i cui esordi nella critica d'arte precedettero di circa un decennio e mezzo la pittura di Manet e, quindi, contribuirono certamente alla formazione di quest'ultima.
Qual è la radice della nozione di modernità, in Baudelaire? Oltre al motto anticlassico di Diderot (1713-84), “non è l'ultima volta ["devi essere del tuo tempo]"[Vi] – che apre la strada a Baudelaire – è chiaro che la sua nozione di modernità risale a molto prima dell'Illuminismo. E che, inoltre, in questo senso – e per l'inedito e accelerato processo di urbanizzazione che viene insistentemente evidenziato da Baudelaire –, si impone il parallelo con almeno tre punti nodali (secondo France Vernier) delle tesi del Manifesto comunista (1848).[Vii]
La prima opera critica scritta da Baudelaire riguarda il Salon del 1845. La riflessione storico-estetica di Baudelaire, nata come puntuale valorizzazione dei dipinti esposti al Salon – quindi, sulla base dello schema critico discorsivo stabilito da Diderot –,[Viii] si distaccherà progressivamente dall'apprezzamento puntuale delle opere e acquisterà un carattere riflessivo e totalizzante, in una serie di lavori che culminano nel saggio Il Peintre de la Vie Moderne [Il pittore della vita moderna],[Ix] pubblicato in tre parti in Le Figaro (26, 29.11 e 3.12.1863), cioè proprio nell'anno in cui Édouard Manet inviò, al Salon, il Le Déjeuner sur l'Herbe (1863, olio su tela, 208 x 264 cm, Parigi, Musée d'Orsay). Semplice coincidenza?
Baudelaire, pur usando fin dall'inizio il termine “arte moderna” nella sua riflessione – forse mutuato da Délacroix (1798-1863), che lo usava, ma in modo casuale e impreciso –, evolverà verso una certa comprensione della modernità come attualità e struttura storia senza precedenti. Il critico traccerà progressivamente i contorni di una nuova arte, che chiamerà “moderna”, passaggio dal romanticismo all'”epopea” dei tempi nuovi.
Tre punti sono cruciali e meritano attenzione: (1) “l'arte moderna” è legata alla “modernità”, quindi riflessione estetica e riflessione storica sono, in questo caso, inscindibili; (2) l'interesse per entrambi sarà permanente e la loro elaborazione darà luogo a un progresso riflessivo lungo tutto il lavoro del critico; e (3) tale riflessione avrà sempre un carattere negativo – di cui il satanismo sarà l'emblema davanti all'ordine sociale e simbolico esistente –[X] vedere i ponti con il Manifesto…Di 1848.
In linea con il Manifesto
Così, nel passaggio in cui il Manifesto… sottolinea il carattere intrinsecamente rivoluzionario e allo stesso tempo distruttivo della borghesia – che, come sappiamo, rivoluziona costantemente i mezzi, i rapporti di produzione e i legami sociali, senza lasciare nulla in piedi –, la vicinanza delle analisi è notevole.[Xi] Tre motivi dell'estetica di Baudelaire, nei vent'anni e più della sua attività fino alla sua morte nel 1867, denotano l'armonia – forse per difetto, ma oggettivamente – con tale passaggio: l'effimero, passeggero o transitorio come tratto moderno; circolazione generale, movimento incessante come tipizzazione della modernità; e, infine, la distruzione che accompagna la modernizzazione secondo la logica dello sviluppo capitalistico e che guida l'appello di Baudelaire al senso tragico come nesso dell'arte moderna.
In tal senso, il senso dell'effimero in Baudelaire è inseparabile da quello del tragico, ed è da tale sintesi che si distilla l'epopea che egli chiama moderna, cioè la combinazione – delineata ancor prima del genocidio del 1848, in “Do heroísmo da vida moderne” –[Xii] tra il “transitorio”, in bella vista, e l'“eterno” – quest'ultimo percepito in una prospettiva satanico-materialista come un assoluto oggettivato; collocata cioè come storia o memoria tragica della distruzione – quintessenza della modernizzazione – come analogamente faranno notare: Marx, due anni dopo, nel Manifesto, e Benjamin, novant'anni dopo, nelle sue tesi sul concetto di storia.[Xiii]
La tragica negatività come nesso dell'arte moderna si contrappone alla positività e alla banalità della vita borghese quotidiana che Baudelaire denigra all'infinito. In questo senso, ciò che si poteva trovare in quelle circostanze come il più antitetico alla concezione baudelaire dell'arte moderna (fondata sull'austerità rivoluzionaria e repubblicana della pittura di David, dell'Anno II, e per di più legata alla memoria del massacro della rivoluzione del 1848 ? ) – [Xiv] dei motivi bucolico-pastorali, dell'edonismo urbano, dell'immediatezza e della frivolezza, che, nelle scene di svago in periferia o in città, appartengono al cuore della pittura impressionista? Pertanto, contrariamente a quanto si dà per scontato quando si afferma spesso che Manet fu il primo degli impressionisti, Baudelaire operò la negazione ante litteram, per così dire, dell'arte impressionista; infine, ha preparato in anticipo la sua antitesi.
In sintesi, le celebri sensazioni di freschezza di “joie de vivre” o dalla fruizione impressionista risuona il richiamo della sveglia del detto “Belle Époque”. Al contrario, la prima manifestazione espressa dell'arte moderna – e, come tale, del tragico e dell'epico come tratti moderni coniugati, secondo Baudelaire – consiste concretamente nella Marat assassinato (Marat Assassino [Maratà son dernier soupir], 1793, olio su tela, 165 x 128 cm, Bruxelles, Musées royaux des beaux-arts de Belgique), di J.-L. David (1748-1825), l'artista emblematico della Rivoluzione Repubblicana.[Xv]
città dell'oleodotto
Il metabolismo distruttivo del nuovo ordine sociale era sotto gli occhi di tutti: le riforme di Parigi sotto Napoleone III devastarono il centro urbano della capitale e sfollarono trecentocinquantamila abitanti (in cifre ufficiali) per l'installazione di una rete di viali, marciapiedi e vetrine in quali merci e truppe militari circolerebbero liberamente. Fu una mega-operazione di ricolonizzazione del territorio urbano, come ammise involontariamente l'affermazione del barone Haussmann (1809-1891), capofila della riforma, che la città non avrebbe più avuto abitanti, ma solo “nomadi”. Nella città riconvertita in sistema di condotti e finestre – e urbanisticamente “blindata” contro le barricate –,[Xvi] entrò in vigore l'impero della circolazione.
Se l'idea di modernità di Manet implicava un tale complesso di significati, cosa si può dedurre dai segni di inespressività, disallineamento e dissociazione sintetizzati pittoricamente – secondo l'ipotesi avanzata, “forme oggettive” proprie della soggettività e della socialità moderne?
esseri circolanti
Fu attraverso tali qualità negative che la pittura mappò la nuova posizione dell'io, cioè la ristrutturazione del soggetto secondo il ritmo dei mutamenti di Parigi durante il II Impero, visti i termini con cui il pittore tracciò le tracce di il ritmo generale nelle soggettività presentate pittoricamente. Il disaccordo tra gli individui e la dissociazione del gruppo fanno eco all'inespressività, allo svuotamento soggettivo.
Nelle scene di gruppo in situazioni di consumo o svago, tra i volti distaccati, alcuni fissano il pittore e poi lo spettatore, come a chiedere qualcosa. L'impotenza, il lassismo e la perplessità, divenendo funzione strutturale, avranno alimentato un nuovo principio di soggettività – ecco l'ipotesi in questione –, più che un sentimento o un accidente soggettivo. In questo senso, i volti vuoti nelle tele di Manet illustrano la fine degli autentici motivi psichici e delle relazioni di gruppo, insomma lo smantellamento della capacità decisionale di ciascuno e di ogni coesione sociale.
Costituirebbero, in questi termini, un abbozzo di una rappresentazione visiva dell'estraniamento da sé o del cosiddetto stato di “alienazione”? Esaminiamo la questione. Nelle lettere il fenomeno era già stato rilevato circa un secolo prima, vista la descrizione che Rousseau, nella sua terza lettera a Malesherbes (26.01.1762), presentava del sentimento acuto e indicibile di svuotarsi, pur in mezzo alla gioia di essere soli nella natura.[Xvii]
Cerchiamo un'ipotetica ragione dell'estraniamento da sé o dello stato di alienazione, tra gli effetti della modernità, individuati da Baudelaire. Ricordiamo che questo fu per il pittore un interlocutore prioritario e determinante. Secondo questo prisma intuiremo, sullo sfondo dell'atonia di ogni figura di Manet, la traccia dell'impotenza, la sensazione di essere trascinati davanti a un fenomeno incommensurabile, che distrugge irrimediabilmente tutto. A cosa attribuire tale impotenza? Come specificare un tale fattore, di portata apparentemente universale?
Automatismo imperativo che ingloba tutto, l'esperienza della circolazione emerge per ipotesi, per Baudelaire, come condizione universale e generale. Ora, è noto che le contiguità impreviste, le frequentazioni accidentali e informali apparivano come inerenti alla nuova routine delle situazioni parigine, secondo le cronache dell'epoca sulla circolazione dei passanti, l'affluenza ai grandi magazzini e agli spettacoli di massa, ecc. L'azione di Manet sarebbe consistita nel rilevare i segni visivi di nuove forme di contiguità, a dispetto dei codici di status – fattori che un tempo facevano parte di un rigido ordine spaziale che rispecchiava la segmentazione sociale.
In effetti, il palazzo, il villaggio, il villaggio e i suoi abitanti, in tutto si pongono come estranei e in disparte; intercomunicavano solo per eccezione e attraverso rituali. Invece nella Parigi del Secondo Impero, dai grandi viali e dai parchi, dalla folla e dalle vetrine dei negozi, dalle fiere internazionali e dai caffè-concerto, tutti vanno e vengono o si radunano attorno alle merci che ruotano incessantemente. Non lavori dove vivi. La riforma urbanistica arrivò infatti a liquidare strade artigiane e quartieri popolari.
Dalla tragedia alla farsa
Così, nella Parigi dove lavora Manet, capitale prototipo della città odierna-acquisti, niente ha radici, tutto circola e si scambia. Situazioni e relazioni sorgono speculativamente come contatti tra discontinuità, il che consente all'artista di concepire analogamente qualsiasi montaggio. Libertà di questo genere si praticano nei diorami e negli studi fotografici, dove è possibile posare davanti a scenari esotici e mettere in scena ogni sorta di “fantasmagorie”.[Xviii]
Così, nello stesso momento in cui i ritratti e le scene di Manet a Parigi esprimono l'intensa circolazione che rendeva flessibili le barriere di casta, ne derivano anche scene pittoresche (la cosiddetta pittura di studio di Manet), basate su scene tipiche montate, dette anche “spagnolismi ” (situazioni con motivi ispanici, di moda per l'origine iberica dell'imperatrice).
Di fronte a manifeste incongruenze, i formalisti hanno optato per affermare che le scene di Édouard Manet non intendevano narrare (sic). Questo spiegherebbe un falso torero, uno pseudochitarrista, un Cristo morto dallo sguardo stupefatto, angeli disinteressati o alieni, insomma l'elenco sterminato di figure poco convincenti. L'unità display sembra incrinarsi. I motivi spagnoli, che nel primo Goya ancora caratterizzavano, già in Manet cessano di essere autentici.
Tuttavia, vale la pena porre nuovamente la domanda: qual è il motivo delle incongruenze? Cinismo, come hanno sottolineato alcuni contemporanei? Rinuncia della pittura a discutere del mondo, come volevano i formalisti, o, infine, il giudizio critico di Manet su un processo storico – la fine dell'autenticità dei tratti nazionali – e di una certa arte, che aveva, insieme, nazione e arte, perdute substrato storico?
Perché non supporre, allora, che l'effetto dell'inautenticità, analogo a quello dell'inespressività, sia venuto a segnalare un nuovo ciclo storico? Quale? Se gli concediamo uno sguardo critico e una riflessione, Manet punterà, in questi termini, a una tipologia di relazioni decisamente mal assortite. Le sue scene negative – solo ironicamente “spagnole” – saranno autenticamente parigine nel loro desiderio di assomigliare agli altri, vere nella loro mancanza e falsità o nel loro contenuto di “fantasmagorie”, nel senso di Benjamin. Con un tocco di chanchada, questi dipinti combinano la parodia di maestri come Velázquez (1599-1660) e il ritratto di un fannullone parigino. Un modello rappresenta diverse scene pittoresche. Le "riviste maschili" lo fanno ancora oggi. La parentela di queste tele con la fantasmagoria degli studi fotografici non sarà casuale, ma strategica.
A che fine? Mettendo a nudo uno scarto tra la parvenza e il ruolo, Manet sottolinea, nella falsificazione del tipico, la complicità che presto apparirà come un'abitudine integrata, un anello di congiunzione nella logica dei diorami e degli altri divertimenti dell'epoca – sfruttati da Hollywood, che ha reso di routine l'uso di attori, senza nulla a che fare con i tipi che rappresentano.
uova di serpente
Ben al di là dell'ordine dello spettacolo, un tale processo presuppone l'ampia riorganizzazione sociale del lavoro, in corso in Inghilterra da molto prima, ma che in Francia cominciò a radicarsi solo con l'ascesa politica della borghesia proprietaria nel 1791 (che sciolse le corporazioni dei lavoratori).[Xix]
La riorganizzazione del lavoro si consolidò con le riforme di Parigi, nel II Impero, per poi essere completata con la strage del Comune, quando tra le trenta e le quarantamila persone vennero trucidate nella cosiddetta “Settimana di sangue” (21 – 28.05.1871. XNUMX), per volere della Repubblica dei Proprietari insediatasi a Versailles, con l'appoggio delle truppe prussiane invasori. Legioni di operai specializzati, maestri artigiani e le loro squadre di lavoro furono sterminate a colpi di baionetta e fucilazioni di massa.[Xx] Era l'inizio diBelle Époque".
Parigi entrò quindi nel ritmo dell'industrializzazione e della ristrutturazione della produzione, che - vista la riduzione della classe operaia in città - richiedeva manodopera immigrata. Manet, testimone delle riforme di Haussmann e del suddetto processo – che mutò completamente le caratteristiche della classe operaia parigina – ha potuto osservare bene, credo, la continuità dei cicli di liquidazione del modo di lavoro qualificato. Per questo sarebbe riuscito – con la lente d'ingrandimento del suo quadro – a raccogliere ed esaminare da vicino l'uovo di serpente.
Come l'hai registrato? Nelle discrepanze tra la soggettività e la sua funzione, costruite in studio, emerge uno stato generalizzato di vacanza dei ruoli sociali, mobilità e disponibilità delle figure. Tutti sono per ciò che viene e viene. Di qui l'indefinitezza e l'incertezza della veduta, lavorata da una pittura che evita di stabilire contorni e dettagli: il critico d'arte è pronto a diventare investitore; lo scienziato in un collezionista; il giornalista, in parlamentare; questo, in scrivente e viceversa; l'attrice o ballerina, per svolgere altri lavori e ruoli, ecc.
La dissociazione intrinseca tra soggetto e funzione è insita nella divisione sociale del lavoro e nelle pratiche di mercato. Manet ha distinto tali segni come manifestazioni delle leggi di un processo generale perché le riforme di Parigi hanno fabbricato lavoro mobile senza strumenti propri, cioè forza lavoro astratta.
Infatti, ritirando i lavoratori dal centro per riconvertire i vecchi quartieri in condutture di circolazione, le riforme polverizzarono l'unità secolare tra casa e officina, il legame organico tra abitazione e luogo di lavoro. Hanno funzionato in modo simile al recinzioni, il recinto delle terre comunali in Inghilterra, consolidato lì già nel XVII secolo.[Xxi]
Così, in Francia, la conversione tardiva dell'artigiano e dell'apprendista in manovali o moduli di lavoro astratti è stata preparata dall'urbanizzazione pianificata, che ha espropriato in maniera massiccia officine e abitazioni operaie. Come il pavimento e il sottosuolo di Parigi sventrato dalle demolizioni, la logica del processo sarebbe balzata all'occhio del pittore che l'ha scritta.
La riforma urbanistica ha catalizzato le leggi del processo in corso. Ha spogliato la sua faccia strutturale. Con l'ampia riorganizzazione della produzione basata sulla forza lavoro astratta e salariata, i mestieri non sono più permeati dall'origine familiare, storica o geografica. Hanno cessato di essere trasmessi di generazione in generazione. L'emigrazione dalla regione d'origine per ottenere un impiego diventa corrente e fattore costitutivo della metropoli come agglomerato di folle anonime senza origine. L'emergere storico della forma del “lavoro libero”, ovvero del lavoratore privo dei mezzi per produrre e ridefinito come lavoro astratto portato al mercato, è dunque anche quello della sua circolazione strutturale astrattamente posta, in assenza di qualsiasi determinazione concreta.
Venne così ampiamente e radicalmente dissolto il legame organico tra soggettività e ruolo sociale, legame che – dall'emergere dell'umanità fino alla fine delle corporazioni di mestiere – era stato determinante delle strutture di gregarietà, socialità e soggettivazione. E c'era un divario strutturale tra il soggetto e la funzione.
esseri per il traffico
In questo modo diventa chiaro perché i ritratti realizzati da Édouard Manet sono privi di psicologia. E perché, a differenza di quelli di Daumier (1808-1879) e Courbet (1819-1877), quelli di Manet non portano tratti comportamentali, psicologici o simili. La sua pittura registra la nascente massificazione come astrazione di storie soggettive e tratti concreti della personalità.
In questa luce, l'inespressività delle figure evidenziate dai dipinti equivale alla loro intercambiabilità o alla loro attitudine alla circolazione, cioè alla loro configurazione come forza lavoro astratta. Nei ritratti e nelle scene parigine, Manet espone la legge del mercato: tutto è mezzo circolante e potenzialmente convertibile e giunge alla stessa cosa, cioè al cosiddetto equivalente generale, la forma-denaro. In questo, il transitorio e il contingente, come insiemi di esperienze e relazioni sociali, si cristallizzano, nonostante le loro radici viventi e metaboliche, nella forma astratta oggettivata del valore (di scambio) o in unità monetarie, trasformate in uno standard generale.
Pertanto, la verità storica incarnata nel ritmo generale della vita sociale non è, dunque, sedimentata nelle individualità, ma consiste nell'ampia ristrutturazione delle soggettività, secondo un processo su larga scala. La modellazione schematica e sommaria – attraverso poche e rapide pennellate di Manet – descrive tale ribaltamento o conversione dei fattori metabolici in forme astratte, riducibili a un modulo o unità di valore che funge da base equivalente per tutte le forme, la cui le variazioni (varietà di valore) si distinguono solo come differenze di prezzo.
In altre parole, cosa che i formalisti intuirono in modo vago e confuso quando affermarono che la pittura di Manet si stava dirigendo verso l'astrazione. Ma si sbagliavano di grosso (per la natura stessa del modo feticistico con cui vedevano il processo sociale), quando supponevano che fosse la pittura, di per sé, autonoma e indipendente, a dirigersi verso l'astrazione – e non il processo sociale – , che la pittura realista di Manet ha cercato efficacemente di mappare, forgiando nuove modalità narrative o pittorico-discorsive.
Scena per scena, ritratto per ritratto, una processione di soggettività senza fondo, come mediate dall'astrazione, sfila efficacemente attraverso le tele di Manet. Protesi di identità transitorie perché incessantemente rifatte, le soggettività – senza determinare pietre miliari –, nell'ottica del pittore, funzionano come moduli. Le cameriere che servono, i signori che bevono, la coppia che passeggia, la signora che pattina, la signora che legge... Da dove vengono? Dove stai andando? Chi sono?
Se le determinazioni di origine non contano e non si avvertono nemmeno come false – d'altra parte, la destinazione di tutto è impressa nei volti e nelle posture indeterminate così come nell'improvvisazione programmatica, si potrebbe dire, del tessuto pittorico: sono esseri per il transito, sono destinati alla circolazione. Sono i passanti o i nomadi, apud Haussmann.
Si rinnova dunque come tematica, nella visione condivisa con Baudelaire, l'analisi della sfera pubblica, convertita da formazione idealizzata nell'illuminismo a dispositivo in mutazione, sottoposto al vortice incessante della circolazione – la sua nuova struttura matriciale in che eterno e transitorio sono modi dello stesso.
umanità-moneta
Pertanto, la visione materialista e la fabbricazione di Manet fanno di più che sfuggire alla norma accademica o trovare – attraverso l'improvvisazione – la forma dell'effimero e della sensazione passeggera. Mettono, però, in chiave materialistica, la svolta radicale dell'umano convertito alla forma-valore.
Una serie di ritratti individuali si concentra sulla pausa: lavoratori o consumatori immobili. Consegnato a cosa? Segno visibile del primato degli automatismi, lo stato apatico a riposo e durante la decadenza mostra il vuoto soggettivo come habitat del metabolismo del mercato: espone la forza astratta e senza i mezzi di produzione, espropriati e sotto la furia della “libera concorrenza”.
Così, l'ordine che forma l'essere per-circolazione plasma anche il non essere, ovvero l'andare in sospensione apparente (il fatto di rimanere soli e immobili nella non circolazione) come impotenza e assenza di sé. Nel volto attonito e apatico, una volta sospesa l'unica forma identitaria rimasta – quella dell'essere-per-il-mercato, mobile per la produzione –, è dimostrato che la ridefinizione visiva dell'individuo da parte di Manet cerca di presentare la forma del mero lavoro di forza astratto, non di più. L'ubriacone, il mendicante, il cantante, la cameriera, il critico d'arte, il politico, il notabile, il poeta, lo scrittore, il pittore, ecc. – nella pausa delle loro azioni – si assomigliano. Così, politici e statisti come Gambetta (1838-82), Rochefort (1831-1913), Clemenceau (1841-1929), ritratti attraverso la sintesi di Manet, rifiutano i suoi dipinti.
Infatti, oltre ai singoli ritratti, si collocano così frammenti di una nuova rete sociale, segno di un altro ordine produttivo, rilevato in modo inedito nella pittura come “forma oggettiva” della soggettività. Soggettività dissociate e inespressive, neutre e flessibili secondo Édouard Manet, offrono una visione panoramica dei percorsi astratti del mercato, potenziati nei vuoti e nella convertibilità di ciascuno in essere-per-scambio.
In questi termini, l'individualità che aveva reso ricca la diversificazione del Commedia umana di Balzac (1799-1850) nella prima metà del secolo, o le caricature di Daumier (1808-1879) nel regime precedente (1830-48), di Luís-Felipe (1773-1850). Anche quando le figure ritratte daranno luogo a una definizione particolare – nel 1866, il critico Zacharie Astruc (1835-1907); nel 1868, il critico Théodore Duret (1838-1927); nel 1866, 1867-8, Suzanne Leenhoff, sua moglie, e, nel 1868, Léon Leenhoff, loro figlio; nel 1876, Stéphane Mallarmé (1842-1898); nel 1879 lo stesso Manet; nel 1880, Émile Zola (1840-1902); nel 1880, il critico Antonin Proust (1832-1905)… –, nulla li distingue nella fisionomia o nell'aspetto. Li particolarizza, a volte e in residuo, appena un accenno di vigore o di disperazione contenuta, con cui portano il libro, il pennello, il materiale di lavoro o per altro scopo, lasciati così come sono vani o anche svuotati.
In sintesi, la mutazione strutturale della condizione umana e la trasformazione generale del senso delle azioni si sintetizzano come disposizione e riqualificazione generale alla circolazione e alla convertibilità. La forma chiave di Manet – e questa determinazione sarebbe il suo salto dal gatto, il passo oltre, forse, Baudelaire – è dunque la merce, la “forma elementare” della nuova società, come afferma la famosa frase del primo paragrafo Di La capitale.[Xxii]
carne sociale
In conclusione, nella città mercato, dove tutto circola e situazioni e relazioni sociali nascono speculativamente come contatti casuali tra termini discontinui, tutto o quasi è possibile, poiché tutto tende a trasmutarsi in un equivalente e così via. Tuttavia, nulla cessa di essere mediato o di diventare una merce, indipendentemente dal tempo e dalla forma del mutamento o del divenire. La duplice natura degli esseri viventi, delle cose e dei loro rapporti, da un lato concreti e dall'altro prezzati, astrazioni destinate al mercato, costituisce la struttura di governo del nuovo ordine storico, che doveva essere naturale o per sempre – ma la cui negazione Manet poteva intravederla nella tragica brevità della Comune (cui partecipò).
In questo processo di rilevamento e determinazione visiva della struttura della merce, il Olimpia (1863, olio su tela, 130,5 x 190 cm, Parigi, Musée d'Orsay), di Manet, assume il carattere di un manifesto. Corrispondeva a una sintesi o corollario dei vari ritratti di lavoratrici realizzati da Manet dal 1862 in poi (anno di una grande fiera internazionale).
Olimpia esplicitata la struttura visiva dell'opera-in-vendita, quindi della merce. Ma mi fermo qui, con una simile proposta o suggerimento di discussione.[Xxiii]
* Luiz Renato Martins è professore-consulente di PPG in Storia economica (FFLCH-USP) e Arti visive (ECA-USP). Autore, tra gli altri libri, di Il complotto dell'arte moderna (Haymmercato/HMBS).
Versione originale (in portoghese) del cap. 7, “Scene parigine”, dal libro La Conspiration de l'Art Moderne et Other Essais, edizione e introduzione di François Albera, traduzione di Baptiste Grasset, Losanna, Infolio (2022/ prevista per la seconda metà dell'anno).
note:
[I] Sulla visione formalista della pittura di Manet, vedi LR MARTINS, Manet: una donna d'affari, un pranzo al parco e un bar, Rio de Janeiro, Zahar, 2007, pp. 11-22.
[Ii] Per i dettagli, vedere Michael FRIED, Modernismo di Manet o, Il volto della pittura negli anni Sessanta dell'Ottocento, Chicago e Londra, The University of Chicago Press, 1996, pp. 118-23, 128-131, 142.
[Iii] Si veda LR MARTINS, “La cospirazione dell'arte moderna”, in idem, Rivoluzioni: poesia dell'incompiuto, 1789 - 1848, vol. 1, prefazione François Albera, São Paulo, Ideias Baratas/ Sundermann, 2014, pp. 27-8.
[Iv] Vedi, per esempio, Frans Hals: Giovane uomo e donna in una locanda / Yonker Ramp e la sua fidanzata ([Giovane e donna in una locanda], 1623 ca., olio su tela, , 105,4 x 79,4 cm, New York, Metropolitan Museum of Art ) e Lo zingaro ([Boemia], 1626 circa, olio su tela, 58 x 83 cm, Parigi, Musée du Louvre).
[V] Vedi Antonio CANDIDO, Il discorso e la città, Rio de Janeiro, Ouro sobre Azul, 2004, pp. 28, 38; per i commenti di Schwarz in proposito, vedi Roberto Schwarz, “Ipotesi, se non erro, della dialettica di Malandragem”, in Che ore sono?, San Paolo, Companhia das Letras, 1989, pp. 129-55, in particolare, p. 142; v. anche, idem, “Adeguatezza nazionale e originalità critica”, in idem, Sequenze brasiliane: saggi, San Paolo, Companhia das Letras, 1999, pp. 24-45, in particolare, pp. 28, 35-6, 41. Vale la pena notare, data la contiguità con gli altri elementi coinvolti nel rapporto tra Manet e Baudelaire, che Schwarz nei suoi commenti osserva un'analogia tra la preoccupazione di Candido di stabilire una “sostanza pratico-storica” di la forma estetica e la ricerca in “linea stereoscopico di Walter Benjamin, con la sua acutezza, ad esempio, per l'importanza del meccanismo di mercato per la configurazione della poesia di Baudelaire” (sottolineatura Schwarz), cfr. idem, “Idoneità…”, pp. 30-1 (per la nozione di sostanza) e 28 (per la prospettiva stereoscopica di Benjamin).
[Vi] apud Giulio Carlo ARGAN, “Manet e la pittura Italiana”, in idem, Da Hogarth a Picasso/ L'Arte Moderna in Europa, Milano, Feltrinelli, 1983, p. 346.
[Vii] Vedi France joxe [Vernier], “Ville et modernité dans les fiori di mal", nel Europa, XLV, n° 456-457, Parigi, ed. Europa, aprile-maggio 1967, pp. 139-162. Francia VERNIER, “Città e modernità nel I fiori del male di Baudelaire”, trad. Maria Hirzmann, Rev. tecnico LR Martins, sulla rivista Ars/ Rivista del Corso di Laurea in Arti Visive, nº 10, São Paulo, Graduate Program in Visual Arts/ Department of Plastic Arts, School of Communications and Arts, Università di São Paulo, 2007, p. 63. Si veda anche LR MARTINS, on. cit., Pp 23-7.
[Viii] Vedi Denis Diderot, Saloni (1759-1781), introduzione. Laurent Versini, in D. DIDEROT, oeuvres, prendere IV/ Estetica – Teatro, ed. établie par L. Versini, Parigi, Robert Laffont, 1996, pp. 169-1011.
[Ix] Vedi Charles Baudelaire, «Le peintre de la vie moderne '., idem, Opere complete, texte établi, présente et annoté par C. Pichois, vol. II, Parigi, Gallimard/Pléiade, 2002, pp. 683-724.
[X] Sul satanismo di Baudelaire, vedi LR MARTINS, “Il complotto…”, op. cit., pp. 35-40.
[Xi] “La borghesia non può esistere senza rivoluzionare costantemente gli strumenti di produzione e, in tal modo, i rapporti di produzione e, con essi, tutti i rapporti della società. La conservazione dei vecchi modi di produzione in forma inalterata era, al contrario, la prima condizione di esistenza per tutte le vecchie classi industriali. La rivoluzione continua della produzione, i perturbamenti ininterrotti di tutte le condizioni sociali, le incertezze e le agitazioni permanenti distinguevano l'epoca borghese da tutte le precedenti. Tutti i rapporti saldi, solidi, con la loro serie di pregiudizi e opinioni antichi e venerabili, sono stati spazzati via, tutti i nuovi sono diventati antiquati prima che potessero ossificarsi. Tutto ciò che è solido si scioglie nell'aria, tutto ciò che è sacro viene profanato e gli uomini sono finalmente costretti ad affrontare con sensibilità le loro reali condizioni di vita e le loro relazioni con i loro simili. Vedi Karl MARX e Friedrich ENGELS, Il Manifesto del Partito Comunista, trad. Maria Lucia Como, Rio de Janeiro, Paz e Terra, 1998, pp. 13-4; Karl Marx e Federico ENGELS, Il Manifesto comunista, a cura di Phil Gasper, Chicago, Haymarket, p. 44.
[Xii] "Toutes les beautés contiennent, como tous les phénomènes possibles, quelque chose d'éternel et quelque chose de transitoire, - d'assolu et de particulier [Tutte le bellezze contengono, come tutti i fenomeni possibili, qualcosa di eterno e qualcosa di transitorio – assoluto e particolare]”. Cfr. C. BAUDELAIRE, “XVIII. De l'héroïsme de la vie moderne”, in idem, Salone del 1846, a Stesso, Opere complete, texte établi, présenté et annoté par C. Pichois, Paris, Pléiade/ Gallimard, 2002, vol. II, pag. 493.
[Xiii] Si veda in particolare la tesi IX, sull'«angelo della storia», in Walter Benjamin, Sul concetto di storia, in Walter Benjamin, Sul concetto di storia, trad. dalle tesi JM Gagnebin, M. L Müller, in Michael Löwy, Walter Benjamin: Allarme incendio, trad. WNC Brandt, San Paolo, Boitempo, 2005, p. 87.
[Xiv] Si veda LR MARTINS, “La cospirazione…”, op. citazione…
[Xv] Cfr. C. BAUDELAIRE,, “Le Musée classique du Bazar Bonne-Nouvelle”, in idem, Opere complete, vol. II, C. Pichois (introduzioni e note), Paris, Gallimard, 2004, p. 409-10. Vedi anche LR MARTINS, “Marat, di David: fotogiornalismo”, in idem, Rivoluzioni…, operazione. cit., pp. 65-82.
[Xvi] Cfr. W. Benjamin, “Paris, capitale du XIX siècle/ Exposé (1939)”, in idem, Écrits Français, introduzione e note di Jean-Maurice Monnoyer, Parigi, Gallimard/ Folio Essais, 2003, pp. 373-400; si veda anche Michael Löwy, «La ville, lieu stratégique de l'affrontement des classes. Insurrezioni, barricate et haussmannisation de Paris dans le Lavoro passeggero di Walter Benjamin», in Philippe Simay (a cura di), Capitali della modernità. Walter Benjamin et la Ville. Parigi, Éclat, « Philosophie imaginaire », 2005, p. 19-36. DOI: 10.3917/ecla.simay.2005.01.0019. URL: https://www.cairn.info/capitales-de-la-modernite–9782841621088-page-19.htm, “La città, luogo strategico del confronto di classe: insurrezioni, barricate e la haussmannizzazione di Parigi nel Biglietti di Walter Benjamin”, in rivista Rive Gauche / Saggi marxisti, San Paolo, n.o 8, p.59-75, nov. 2006; si veda anche TJ CLARK, “The view from Notre Dame”, in idem, La pittura della vita moderna/Parigi nell'arte di Manet e dei suoi seguaci (1984), New Jersey, Princeton, University Press, 1989, pp. 23-78; ed. fratello. : “La vista da Notre Dame” in idem, Modern Life Painting/Parigi nell'arte di Manet e dei suoi seguaci (1984), trad. José Geraldo Couto, San Paolo, Editora Schwarcz, Companhia das Letras, 2004, pp. 59-127.
[Xvii] « Je m'en formalis une société charmante dont je ne me sit pas indigne, je me faisais un siècle d'or à ma fantaisie, et remplissant ces beaux jours de toutes les scènes de ma vie, qui m'avaient laissé de doux souvenirs , et de toutes celles que mon cœur pouvait désirer encore, je m'attendrissais jusqu'aux larmes sur les vrais plaisirs de l'humanité, plaisirs si délicieux, si purs, et qui sont désormais si loin des hommes. Ô si dans ces moments quelque idée de Paris, de mon siècle, et de ma petite gloriole d'Auteur, venait troubler mes rêveries, avec quel dédain je la chassais à l'instant pour me livrer sans distraction, aux sentiments exquis dont mon âme était plein! Cependant au milieu de tout cela, je l'avoue, le néant de mes chimères venait quelquefois la contrister tout-à-coup. Quand tous mes rêves se seraient tournés en réalités, ils ne m'auraient pas suffi ; j'aurais imaginé, rêvé, désiré encore. Je trouvais en moi un vide inexplicable que rien n'aurait pu remplir; un certo slancio del cuore rispetto a un'altra sorta di godimento non mi viene in mente, e non mi sento a mio agio [Ha creato nella mia fantasia un'età dell'oro e mi ha commosso fino alle lacrime quando ho pensato alle vere gioie dell'umanità, quelle gioie così deliziose e pure che ora sono così lontane e rimosse dagli uomini. Però, in mezzo a tutto ciò, confesso che ho sentito a volte un'improvvisa afflizione. Anche se tutti i miei sogni si fossero avverati, non mi sarebbe bastato; Avrei continuato a dedicarmi alla mia immaginazione, ai miei sogni e desideri. trovato in me un vuoto inspiegabile che nulla sarebbe in grado di colmare; un impulso del cuore per un altro tipo di felicità che non poteva concepire e che tuttavia desiderava ardentemente]” (sottolineatura mia). Cfr. Jean-Jacques Rousseau, “Quatre lettres à M. le président de Malesherbes: Contenant le vrai tableau de mon caractère, et les vrais motivi de toute ma conduite”, 1762, in Opere complete di J.-J. Rousseau, Tomo V, Ière Partie, Paris, Chez A. Belin, 1817, p. 321; trans. fratello. : “Terza lettera a Malesherbes, 26 gennaio 1762″ [Hachette, X, p. 304-6] apud E. Cassirer, La questione Jean-Jacques Rousseau, trad. EJ Paschoal, J. Gutierre, rassegna Isabel Loureiro, São Paulo, UNESP, 1999, p. 85. Cfr. nota 62, a p. 85, di Cassirer, notando in una delle frasi citate una modifica introdotta dall'autore tedesco, per accorciarla. Tuttavia, questo non è un cambiamento di significato rispetto a ciò che conta qui.
[Xviii] Sulla nozione di “fantasmagoria” come analogo della merce e sul suo ruolo decisivo nell'esperienza urbana della Parigi ottocentesca, si veda W. Benjamin, “Paris, capitale…”, op.cit.. Vedi anche Susan Buck-Morss, La dialettica del vedere/ Walter Benjamin e il progetto Arcades, Cambridge (MA), The MIT Press, 1991, (cap. 5) pp. 110-58; Dialettica dello sguardo / Walter Benjamin e il progetto dei passaggi, trad. Ana Luiza Andrade, rev. tecnico David Lopes da Silva, Belo Horizonte/Chapecó (SC), ed. UFMG/ Ed. Universitária Argos, 2002. Vedi anche J. Crary, Tecniche dell'osservatore/ Su visione e modernità nell'Ottocento, Cambridge (MA), Libro di ottobre/ MIT Press, 1998.
[Xix] Una serie di misure, attuate nel 1791, pose fine al regime corporativista. Così, la legge Allarde (02.03.1791) soppresse le corporazioni e le manifatture privilegiate, in conformità con il principio della libera impresa e del libero accesso ai datori di lavoro: “A compter du 1er Avril prochain, il sera libre à tout citoyen d'exercer telle profession , art or métier qu'il trouvera bon après s´être pourvu d'une patent [Dal 1° aprile prossimo, ogni cittadino potrà esercitare una professione, un'arte o un mestiere che riterrà opportuno, dopo essersi munito di un brevetto]". Settimane dopo, un secondo provvedimento (23.04.1791), anch'esso attribuito al legislatore barone de Allarde (1749-1809), abolì le cariche di giurato e di maestro delle corporazioni. La legge Chapelier, votata il 14.06.1791, completò l'opera che istituì un nuovo regime padronale, vietando tutte le coalizioni, le mutue e le associazioni operaie, nonché gli scioperi. Si vedano le voci “Allarde Pierre”, di J.-R. Suratteau, e “Corporations”, di R. Monnier, in Albert SOBOUL, Dizionario storico della rivoluzione francese, Parigi, Quadrige/ PUF, 2005, pp. 15, 294-5.
[Xx] Ai morti si aggiunsero i deportati, gli scomparsi e gli evasi, tanto che il rapporto “L'Enquête des conseillers municipaux de Paris sur l'état de main d'oeuvre de la capitale”, dell'ottobre 1871, stima in più di centomila il numero dei lavoratori che “tués, prisonniers ou en fuite, manquent aujourd´hui à Paris [morti, prigionieri o in fuga, mancano oggi a Parigi]”. Figura che, è stato aggiunto, “ne comprend pas les femmes [non capisce le donne]”, apud Giorgio SORIA, Grande Storia del Comune, prendere 5/ “Les Lendemains”, pp. 43-50. Il brano include anche il rapporto del generale Félix Appert che, nei successivi quattro anni, ha tenuto un resoconto degli arresti e delle condanne eseguiti dalla giustizia militare, suddivisi per mestieri e professioni. L'indagine serve anche all'osservatore di un'altra epoca, come documentazione di innumerevoli mestieri e pratiche artigianali che sarebbero scomparse a causa del riordino del processo produttivo in stampi industriali.
[Xxi] Cfr. K. MARX, “L'espropriazione della popolazione agricola dalla terra/capitolo 27” e “Legislazione sanguinaria contro gli espropriati dalla fine del Quattrocento. L'abbassamento salariale con atto del Parlamento/capitolo 28”, in idem, Capitale, volume 1, traduzione Ben Fowkes, introduzione Ernest Mandel, London, Penguin Classics, 1990, pp. 877-904. Per le testimonianze concrete degli scontri di classe che hanno coinvolto recinzioni nell'Inghilterra del XVII secolo, vedi Christopher HILL, Il mondo capovolto: idee radicali durante la rivoluzione inglese, Penguin Books, Londra, 1991, pp. 19-56; trans. it.: Il mondo sottosopra / Idee radicali durante la rivoluzione inglese del 1640, traduzione e presentazione di Renato Janine Ribeiro, São Paulo, Cia. das Letras, 2001, pp. 36-71; vedi anche idem, L'inglese di Dio Oliver Cromwell e la rivoluzione inglese, Weidenfeld & Nicola, Londra, 1972; ; trans. it.: Gli eletti di Dio / Oliver Cromwell e la rivoluzione inglese, traduzione e presentazione di CE Marcordes de Moura, São Paulo, Cia das Letras, 2001.
[Xxii] “La ricchezza delle società in cui predomina il modo di produzione capitalistico appare come una 'mostruosa collezione di merci'; e la singola merce, come sua forma elementare”. Cfr. K. MARX, la merce, trad., apres. e commenti Jorge Grespan, S. Paulo, Ática/ Ensaios Commentados, 2006, p. 13; K. MARX, Capitale, vol. 1, op. cit., Pinguino, p. 125.
[Xxiii] Su Olimpia, sbocco per una cartografia visiva del lavoro femminile e punto di partenza della riflessione visiva di Manet sulla forma merce, oltre che Un Bar aux Folies-Bergères (1881-2, olio su tela, 96 x 130 cm, Londra, Courtauld Institute Galleries) – un pannello a scala corporea che forse porta il primo giudizio critico-riflessivo in pittura sulle forme in generale nell'età del mercato –, ultimo tela del genere storico di Manet, ultimata poco prima della sua morte (che tra l'altro avvenne nello stesso anno di quella di Marx), vedi LR MARTINS “Due scene sulla merce”, in rivista Critica marxista, NO. 54, Campinas, Cemarx/IFCH-UNICAMP, 2022 (in stampa).