da ROBERTO NORITOMI*
Commento al classico film del cinema politico diretto da Francesco Rosi.
il bandito Giuliano non è una biografia cinematografica di Salvatore Giuliano. Il cadavere è la massima vicinanza, e intimità, che si può ottenere dal famoso e breve fuorilegge. Giuliano vale più da morto che da vivo. Non c'è da stupirsi, il film inizia con il corpo presente.
Nella sequenza iniziale, un preambolo, la telecamera alta inquadra il corpo di Giuliano steso a terra e diversi uomini intorno a lui, come se lo inquadrassero. Sono gli agenti di polizia e la scientifica che setacciano la scena del crimine. La posizione prona di Giuliano a terra, e le sue armi adagiate accanto a lui, formano una sorta di emblema del guerriero. Pare ci sia stato uno scontro che ha portato alla morte quella variante siciliana di Robin Hood, immagine accennata dal venditore di bibite a un giornalista. Là giace un eroe del popolo, che, a quanto pare, è caduto resistendo alle forze oppressive.
Francesco Rosi, però, non è un cineasta dedito all'eroismo o alla personalità. Pertanto, invece di saltare all'origine del bandito, alla sua infanzia o ai motivi che lo hanno portato a trasgredire la legge, il racconto risale a cinque anni prima della sua morte, alla fine della seconda guerra, nel 1945. Il narratore, nel documentario chiave, spiega le circostanze della lotta per l'indipendenza in Sicilia.
La telecamera mostra, in una panoramica dall'alto, le masse che portano bandiere indipendentiste e combattono per le strade di Palermo. Il movimento della macchina da presa arriva da destra a sinistra e, nel momento esatto in cui arriva la voce ancora accenna agli interessi (“americani, inglesi, latifondisti e mafiosi”) dietro al separatismo siciliano, diversi signori allo sportello sono inquadrati in un disegno complessivo. Quelli sono i leader separatisti, rappresentanti diffusi dei suddetti interessi, che osservano dall'alto, distinguendosi dalle basi popolari che sono nelle battaglie campali. Poi, tornando all'interno di una sala, discutono su come reagire alle incursioni del governo centrale e, nello stesso istante, progettano il reclutamento dei banditi (i picciotti) per comporre il braccio armato della causa.
La sequenza successiva inizia con una vista panoramica sui monti di Montelepre. Così Salvatore Giuliano entra nella storia. Come un pezzo d'artiglieria nelle mani di quella collusione di interessi separatisti. Ma se Giuliano apriva il film nella plastica concretezza del suo cadavere, ora nella vita appare appena in scena. Sarà solo una figura fugace, che cammina nell'ombra o invocata per nome o soprannome (“Turiddu”).
Le sue rare apparizioni, immancabilmente con indosso il suo soprabito bianco, avverranno in lontananza, rapide, come quando accompagna lo scontro contro i soldati che tentano di arrestarlo in montagna. Non agisce in modo efficace. Non c'è individualizzazione dei gesti e delle decisioni. Quelli che vedete sono simulacri di azioni, di attentati, la cui funzione non è proprio drammatica, ma indicativa (salvo una sequenza fondamentale, che si vedrà più avanti).
Il processo decisionale o gli accordi politici del gruppo avvengono dietro le quinte. Giuliano non ha quasi voce, la parola è minuscola. Nulla si sente, nulla si vede dei loro atteggiamenti o reazioni. Comandi e informazioni arrivano da terzi, da qualche subordinato che ha sentito da chissà quale fonte. Il soggetto è indeterminato. La narrazione è ellittica, discontinua. Ci sono eventi, ma non c'è imbastitura; il senso è debole, presuntuoso. In fondo, i seguaci di Giuliano agiscono al buio, senza coscienza. Certo nemmeno lui ce l'ha, ma al regista non importa.
Il fatto è che l'ordito della narrazione non è in montagna; va in scena nelle sedi comunali e cittadine. È dal salotto di Palermo, prima, che è scattata la trasferta a Montelepre. È nelle scene degli uffici o degli scantinati, dove si radunano polizia, mafiosi e politici, che si definiscono i comandi e le manovre che si ripercuotono sui banditi e su tutti gli altri residenti. C'è, dunque, un ordine di cose, il cui asse è ben al di là del potere regionale, che sfugge alla comprensione e che mette e dispone di quella povera popolazione che vive nelle aride terre siciliane.
E proprio mentre costruì Giuliano, quell'ordine lo scartò. Distrattamente, senza alcuno sfarzo. Se l'esordio nella storia di Giuliano è avvenuto fuori campo, ora accade la stessa cosa con la sua partenza. La sua fine, contrariamente a quanto promesso dalla sequenza iniziale, non è stata il risultato di una fuga forzata e di uno scontro con le forze dell'ordine. Secondo la buona ricetta del genere poliziesco, c'era qualcosa dietro. L'esecuzione del bandito è infatti scaturita da un atto di tradimento formulato tra autorità di polizia e capi mafia. Il colpo fittizio, compiuto sul palco, è più importante dell'omicidio, di cui si sentono solo i colpi sparati dal braccio destro di Giuliano, che dormiva impotente. L'esecuzione è irrilevante. Non c'è motivo di ispirare simpatia per lui. Anche la sua morte è stata una bufala.
Una farsa che ha servito così bene le forze dominanti, che alla fine hanno consegnato alla giustizia un capro espiatorio e al popolo un mito. Il capro espiatorio, risolto dalla chiave del genere poliziesco, si è confermato come un artefatto nelle mani di un intricato consorzio di criminali, polizia e politici. Quanto al mito, Francesco Rosi rende drammatica l'implacabile resa dei conti. Come se non bastasse aver spogliato Salvatore Giuliano di ogni capacità attiva o individualizzazione, il film compie una sorta di profanazione del suo cadavere.
C'è un punto, praticamente a metà del film, in cui il susseguirsi di due sequenze, cronologicamente invertite, finisce per rendere esplicito un contrasto di grande effetto. Sono le uniche due situazioni cariche di intenso dramma.
La prima sequenza è dove la madre e la sorella sono al cimitero per il riconoscimento di Giuliano. Appena si apre la porta della camera di veglia, dal punto di vista della madre, la cornice ha al centro il corpo su una lastra di marmo, a torso nudo e scalzo, e in ciascuna delle due estremità laterali, sullo sfondo, è posto a piedi un aiutante funebre. La parete è rustica, senza intonaco. Dal punto di vista di chi entra, l'ambiente sembra emulare una tomba custodita da guardiani.
La madre è tutta in nero, compreso il velo che le copre la testa. Porta dei rami, che depone sul corpo del figlio mentre sussurra una preghiera e comincia a baciarlo, come se baciasse le sue ferite. Dopo aver riconosciuto il figlio al carabiniere, la madre evoca il suo soprannome (Turiddu) in un lamento acuto e ammaliante. La fotocamera cattura dall'alto, dentro profondo, il corpo in primo piano e la dama in alto, chinata a baciarle il braccio sinistro. Al lamento si sovrappone una crescente e grave percussione orchestrale, che conferisce alla scena il carattere di un corteo funebre. L'ultimo gesto, accompagnato dal tono più alto del brano, avviene quando la madre viene lentamente allontanata dal dipinto, lasciando sulla lastra di marmo solo il corpo “scolpito”. È come se il dolore si evolvesse in una scultura epifanica – il vero Pieta. Giuliano è fatto monumento.
La sequenza successiva rompe l'atmosfera solenne con un determinato obiettivo. Torna tre anni prima, al 1947, e la voce ancora discute il trionfo del Blocco Popolare (una coalizione di partiti di sinistra, inclusi socialisti e comunisti) nelle elezioni per il parlamento regionale siciliano. Nel dipinto un pastore che guida il suo gregge viene interrogato dagli emissari di Giuliano. Lo stanno arruolando, si saprà poi, per un grosso attentato contro i comunisti, in cambio di una presunta amnistia. La mattina del 1° maggio si vede marciare la banda dei briganti con Giuliano in testa.
Nella valle di Portella della Ginestra una folla di contadini e militanti di sinistra inizia a radunarsi per la consueta rievocazione della data e della vittoria del Blocco Popolare. Sventolano diverse bandiere, tra cui la falce e il martello del Partito Comunista Italiano. È il momento della politicizzazione verbale lungo tutto il film, con discorsi che ricordano che, “con o senza fascismo”, i lavoratori hanno sempre occupato quel posto; si pone inoltre l'accento sugli orientamenti per la democratizzazione agraria, educativa, sanitaria, ecc. Nel frattempo, la telecamera fa una panoramica dall'altoparlante, mostrando le persone intorno fino a quando non sale e inquadra l'immensa montagna, da dove si sente il crepitio delle mitragliatrici.
Non puoi vedere i tiratori; la codardia del carnefice è oscena. Nel campo visivo si diffonde il frastuono e si scatena la corsa caotica, come in un'eco einsensteiniana. Padri e madri disperati raccolgono i loro figli massacrati. In un primo piano iconico, una signora tutta in nero, sdraiata, piange e bacia la terra; altri due si rannicchiano come per proteggersi. La colonna sonora seria, come la sequenza nel cimitero, continua in un crescendo, ma qui il fascino è terrificante. La ferocia della carneficina è impressa in una veduta panoramica a pianta aperta, con gli innumerevoli corpi sparsi tra rocce e cespugli, i sopravvissuti che si trascinano e le urla diffuse.
Il contrasto tra le due sequenze, quella del cimitero e quella della Portella, stabilisce una dialettica ineludibile. Nella prima la madre piange il corpo del figlio morto, che le immagini elevano alla condizione di santità. Nella seconda accade il contrario; le madri, anch'esse in nero, piangono la morte dei propri figli causata da un Giuliano venale e sanguinario. Il parallelismo è rafforzato dall'identificazione stabilita tra le colonne sonore. La tomba del bandito crolla. Rosi mette a nudo Giuliano e lo consegna al posto che gli spetta, accanto ai nemici della classe operaia.
La soluzione del film è luminosa. Invece di smontare il mito direttamente, e in apparenza, enunciando i delitti e le alleanze di Giuliano, Rosi lo fa solo per contrasto visivo, investendo tutto il suo vigore drammatico in queste due sequenze ed esponendole al confronto. È lo scontro di due tempi, in cui si chiede al passato di scuotere il presente dei vincitori. Qualsiasi risorsa verbale è superflua, poiché esiste il cinema.
Ed è attraverso il cinema, con un meticoloso taglio di elementi, che Francesco Rosi fa di Salvatore Giuliano il pretesto per lasciare aperto uno dei delitti politici più efferati d'Italia: la strage di Portella della Ginestra. Portando quell'episodio in primo piano, il bandito Giuliano non solo ripristina la memoria degli oppressi, ma espone anche, in modo inedito, tutto un ingranaggio politico-criminale ed economico di assoggettamento di classe che, come è noto, ha conquistato il mondo.
Rosi ha ereditato e attualizzato il neorealismo su un robusto piano politico, il che ha significato mettere la sua macchina fotografica al servizio di un progetto di classe. È il regista di un'epoca in cui molti artisti non erano esenti dall'assumere un impegno storico aperto.
*Roberto Noritomi è dottore di ricerca in sociologia della cultura presso l'USP.
riferimento
il bandito Giuliano (Salvatore Giuliano)
Italia, 1962, 123 minuti.
Regia: Francesco Rosi
Cast: Frank Wolff, Tranne Randone, Federico Zardi