Cinema in quarantena: Prêt-à-Porter

Paulo Monteiro (Diario delle recensioni)
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da AIRTON PASCHOA*

Commento del film sull'alta moda di Robert Altman

"Nel mondo davvero invertito, la verità è un momento di ciò che è falso” (Guy Debord).

Il film sull'alta moda parigina appartiene al miglior Altman,, quella che impariamo a riconoscere e ad ammirare, con le sue storie variegate e intersecate, capaci di tracciare un intero quadro sociale suggestivo, come Short Cuts (Scene di vita), del 1993, e il suo universo sociale delle classi medie, e da Un matrimonio (Nozze), del 1978, e il suo universo delle classi agiate, — composizioni eseguite, tra l'altro, con raro equilibrio, senza cedere ai facili richiami degli estremi, senza generalizzare troppo e cadere in un sociologismo rozzo, senza individualizzare troppo, immergersi in quel banale esistenzialismo, che rende così infelice la maggior parte del cinema cosiddetto serio dei nostri giorni.

Ripetiamo, non scivola in questi estremi questo nostro Altman, una sorta di Fellini americano, che quando colpisce la bacchetta ci riesce in grande stile, facendo sfilare luminosamente sulle tele individui e gruppi sociali, senza dover nulla a l'un l'altro, uomini che hanno gran parte dei loro raggruppamenti ma non si riducono ad essi, e l'astrazione sociologica di classi vivificate e arricchite dalla materia umana, composta da quelle particelle così riconoscibili nella loro precaria singolarità.

Prete a porter, del 1994, è uno di quei film. Come altri affreschi altmaniani (scusate il sacrilegio), in questo dipinto domina la risata, anche se a volte gialla o forzata, ma, a differenza di loro, non è esattamente una commedia o una satira. O meglio, è commedia, è satira, ma tendenzialmente farsa, e questa distinzione generica, più che un gusto classificatorio, ci permetterà di comprendere a tempo debito il movimento più complesso dell'allegoria che mobilita il film. Non anticipiamo.

Vari elementi farseschi punteggiano qua e là, come la cacca di cane, diciamo, il film divertente, e se eviti di innaffiare i tuoi vicini con l'urina, come facevano le farse medievali, o se eviti i famosi colpi di canna, che ancora oggi deludono pubblico dagli otto agli ottanta, non mancano altri tratti maleducati ad invadere la scena.

Così, le fermate, modernizzate sulle passerelle; cambiamenti di identità; escatologia (Parigi fa schifo); la commedia di costume; la satira di figure professionali contemporanee, come lo Stilista, il Reporter televisivo, l'Ispettore di polizia, il Fotografo di moda, se non si vuole vedere in quest'ultimo anche la satira di personaggi morali, i Pedanti, o anche nazionali, i Irlandese; per non parlare della cattiveria, della volgarità, dei giochi di parole, dell'uso di astuzie e trucchi diversi da parte dei personaggi, tutti tratti che creano quell'inconfondibile clima di “confusione”, di “mescolanza”, favorevole alla comparsa di sorprese, imprevisti, quid pro quos., infine, e che già dava il tono, per esempio, a un film del 1969, dal titolo sintomatico — MASH.

Non è un caso che facciano eco a questo moderno vaudeville militari sulla guerra di Corea alcune scene più crude del Prete a porter, come la morte soffocata del potente capo del mondo della moda, alla vigilia del lancio delle collezioni, o il medico legale, accanto al cadavere e insanguinato, che parla e fa uno spuntino tranquillo, con la stessa alterigia e indifferenza di l'altrettanto sanguinario sole del tramonto in primo piano.

Come se queste indicazioni non bastassero, un tratto tipico della farsa costituisce il principio organizzativo dell'opera: il travestimento generale. E, con maggiore o minore dispiegamento, a volte letteralmente, a volte in senso figurato, vedremo che dà forma agli aspetti decisivi del film.

La farsa è nei titoli di testa, scritti in russo, compreso il nome del regista americano; la farsa è nei personaggi, — nell'amante travestita da “vedova” del potente Olivier de La Fontaine, che riceve le condoglianze di tutti i suoi amici, invece della legittima vedova; nell'oscuro fashion director di un negozio di Chicago, la cui moglie trascorre il film, apprendiamo in seguito, comprandogli abiti femminili per un evento di travestitismo; nel marito italiano, che torna dalla Russia per vedere la moglie, poi sposata con Olivier, ma, accusato dell'omicidio, vive travestito, cioè nei panni dell'uno e dell'altro, il giornalista sportivo, il “travestito” conservatore ” e, infine, il fotografo irlandese; nel calzaturificio texano, che acquista il marchio da Simone Lo, in quanto aveva già acquistato di nascosto il lasciapassare dal “fotografo anni 90”, apparentemente redneck e volgare, come si addice a un barcaiolo texano, ma un gran briccone, uomo di i piccoli scherzi ei grandi affari (farmacia, bestiame, cotone, ecc., come la sua guida declina nel nuovo e prospero investimento); in “Paristroika”, i tre fashion editor, identici nemici, che, pur di mantenere la loro “identità”, chissà? richiedere il cambio di stanze assolutamente uguali, gemellate; nelle due sorelle modelle, non modelle, talmente simili da condividere addirittura il marito di una di loro, il figlio di Simone Lo, e così via.

La farsa è nell'azione, nel quid pro quos armato ma già disattivato, come il sospetto omicidio del potente boss, quando tutti sappiamo che la morte è stata accidentale; in questo accelerato ribaltamento di posizioni e situazioni, come le liti amorose e commerciali che compongono la trama, come la feroce guerra per l'ingaggio del fotografo blasé che muove la “Paristrojka”, voltafaccia a volte spettacolare, come nella repentina trasformazione di un espositore di cani di razza, appena sceso dalla passerella, in un ispettore di polizia, o come nel caso di stilisti che si oppongono pubblicamente, ma che in realtà sono amanti, oltre che, simmetricamente, i loro “coniugi”… La farsa può anche camminare qui nuda, come nell'incontro di due giornalisti, uno sportivo e l'altro della zona, che, avendo perso le borse e costretti a vivere nella stessa stanza per una settimana, passare le giornate, giustamente, a volte senza vestiti, a volte in accappatoio...

Leggera e deliziosa, la farsa non stride con il sentire più o meno diffuso e comune sul pianeta moda e le sue liti, le sue ambizioni, le sue meschinità, le sue ipocrisie, le sue futilità, le sue frivolezze, insomma. Ma il film sarebbe davvero sciocco, come esplode alla fine l'irritabile cronista, e non meriterebbe un minuto di riflessione, se si riducesse a questo, la rete di intrighi nel mondo dell'alta moda., Che gli uomini non siano buoni, o che siano egoisti, o che siano egoisti, ecc., ecc., per qualsiasi motivo, storico, psicologico, biologico, morale, religioso, mistico, non sorprende nessuno, spero, dai moralisti francesi. La cosa interessante è che le cose cominciano a complicarsi quando, a poco a poco, emerge un personaggio positivo, stonato da questo mondo di farsa, farsa generale.

Simone Lo, senza essere esclusivamente l'unico personaggio serio di questo universo, merita tuttavia un trattamento diverso, in chiave drammatica; la sua stampa reca un'aura di dolore contenuto, di dignità sofferta, diciamo, che il racconto francamente non giustifica, poiché sappiamo che non è dovuta alla morte dell'amante, che non ha amato. Il suo calvario deriva, lo sentiamo, da qualcosa che è sospeso nell'aria e che arriviamo a capire solo man mano che la trama si svolge. Insomma, è seria, perché seria è la sua arte, e seria è la minaccia per lei. Lo rappresenta l'artista di questo mondo, che cerca eroicamente di resistere all'avanzata del Capitale. È un'artista integerrima, quindi, tradita dal figlio cafajeste, che la vende, in sua assenza maniglie per l'industriale texano preferisce rinunciare alla sua arte piuttosto che tradirla, promuovendo così – e chiudendo così una carriera ventennale – la parata del nudo.

Qualsiasi somiglianza con la condizione di Altman non è casuale. Stilista, regista, l'identità si impone, perché entrambi gli artisti soffrono l'imbarazzo della loro arte, sia nell'industria della moda che in quella culturale. Questo è il primo passo dell'allegoria, e lungo, la cui portata e aspirazione all'universalità sono mostrate nelle scene iniziali. Osserviamo il di viaggio metonimica dell'apertura, che collega Mosca e Parigi; il dialogo in aeroporto tra Sergio e Olivier, attraverso il quale si apprende che, se in Russia c'è carenza di prosciutto, lo stesso non vale per le cravatte Christian Dior, seppur superate, dimenticate o già ridicolizzate in Occidente, che Sergio aveva comprato a Mosca per identificare i due uomini, e osserviamo, soprattutto, il ruolo di moderna (in)differenziazione che la moda gioca in questo mondo unificato dai media. Pertanto, la differenza tra un russo (orientalizzato) e un francese o italiano (occidentalizzato) non va oltre un copricapo. Ecco come, all'aeroporto, durante il viaggio, Serguei si trasforma in Sergio, cambiando solo il suo berretto di pelliccia russo con un berretto francese.

Ma siccome il mondo della moda non è esclusivamente il mondo della moda in questa voluta allegoria, come dimostra il sacrificio di Simone Lo, l'artista stilista, il film tematizza, allora, in verità, l'opposizione tra arte e industria, o il doloroso situazione dell'autentico artista al culmine dell'industria culturale. Questo primo passo dell'allegoria costituisce dunque il suo primo movimento positivo.

Senza pretendere o insinuare alcun dovere di coerenza autoriale, che sarebbe una contraddizione in termini, si può notare che questa intenzione allegorica non è del tutto estranea alla filmografia di Altman, almeno quella disponibile nei migliori negozi del settore. Quindi, dentro filanti (L'esercito inutile), del 1983, uno dei film accurati sulla guerra del Vietnam, anche se non è esattamente un'allegoria, è visibile l'intenzione di allegorizzare, per sottolineare che è altro la guerra, quella guerra è intestina, quella società americana è in guerra, in guerre razziali, sessuali, di classe.

Ebbene, come la vera guerra, anche la vera arte si svolge altrove, seppur minacciata e sinistramente minacciata di estinzione dai barcaioli texani, e dai produttori hollywoodiani (barcaioli?) Ma se il film si riducesse solo a questo, sarebbe meglio, senza dubbio, che l'assurdità dell'ipocrisia e della meschinità umana, ma comunque non andrebbe molto lontano. Meriterebbe qualche minuto di meditazione, certo disincantata, un altro po' di nostalgia, e presto finiremmo con quella, recitando ai piedi della tela un qualsiasi Elogio funebre dell'Artista. Accade, però, che il travestitismo non risieda solo nella messa in scena, nell'azione o nei personaggi del film e nelle loro relazioni. Ti contamina nel suo insieme. il travestimento é la pellicola.

La farsa, insomma, è soprattutto nella rappresentazione stessa, la cui narrazione, guidata dall'indaffarato cronista, sempre preoccupato di strappare ai “pensatori di moda” la loro concezione del bello e dello stile, dà la misura della sua ambiguità. Più precisamente, siamo di fronte a una fiction che a volte simula una cronaca, a volte addirittura una cronaca; prima di una finzione che a volte rappresenta un documentario, a volte è appunto un documentario. Niente scosse, niente transizioni brusche, quasi nessun cambio di registro, la rappresentazione assume a volte una veste, a volte un'altra... naturalmente.

I vari momenti davvero ricorrenti di registrazione di sfilate di moda, interviste a stilisti famosi, Thierry Mugler, Jean-Paul Gaultier, Gianfranco Ferré, Christian Lacroix, Sonia Rykiel, ecc., feste, come l'Haute Bijou Bulgari, che prevedono incontri tra il mondo dell'alta moda, il mondo dei media e il mondo della sistema stellare, di coesistenza sistematica tra personaggi della moda, personaggi mediatici e personaggi cinematografici, personaggi che a volte rappresentano se stessi, a volte rappresentano il loro ruolo nel film, a volte rappresentano il loro ruolo sociale, — questi lapsus, insomma, introdurrebbero, in linea di principio, un grande problema, dovuto alla permanente instabilità, all'eccessiva promiscuità dei piani di rappresentazione, problema formale di difficile risoluzione estetica, se non impossibile, nell'ambito di una rappresentazione naturalistica, ad esempio.

Tali momenti documentaristici, tuttavia, numerosi e rumorosi, non mettono in discussione, curiosamente, lo status del film. Perché? Semplicemente per la naturalezza con cui tutti questi mondi, moda, media, cinema, si uniscono formando un complesso spettacolare di rara bellezza, e tra i più suggestivi.

Ed è da questa contaminazione reciproca, da questa stupefacente ma non sorprendente naturalezza, con cui il registro cambia quasi impercettibilmente, che nascerà il secondo movimento dell'allegoria, il movimento negativo. Perché cosa indica la naturalezza di questa rappresentazione instabile e ambigua? Prima ancora, come rappresentare – di conseguenza – la connaturalità dei tre mondi, moda, media, cinema?

È così che l'opzione estetica per farsa legittima la naturalezza del travestimento, implicando una sorta di imposizione dell'oggetto, un'opzione, o sottomissione intelligente, che racchiude un successo artistico di ampio respiro, capace di garantire la qualità e la permanenza di la pellicola. Mondo della leziosità per eccellenza, mondo dello spettacolo per eccellenza, mondo della rappresentazione per eccellenza, la rappresentazione della rappresentazione non poteva che essere esteticamente adatta alla veste della farsa, poiché, per sua natura, il genere disprezza la rottura radicale tra realtà e realtà, rappresentazione, piuttosto, sa incorporarle nel suo movimento.

La non opzione per l'autentico documentario o la finzione realistica, inoltre, l'impossibilità, per l'artista coerente, di scegliere, la promiscuità quindi naturale con cui si passa dall'uno all'altro, con cui la finzione si traveste da documentario, e viceversa .versa, insinua che, nel regno del puro spettacolo, non c'è più nulla da documentare, né da rappresentare. La realtà è spettacolare, e lo spettacolo è l'unica realtà.

Così anche la finzione, quando appare, lo fa nello stato degradato di a I Girasoli di Russia (I girasoli della Russia), del 1970, o anche da a Ieri, Oggi, Domani (Ieri, oggi e domani), del 1963, film che, nonostante possibili differenze estetiche tra loro, sono già lontani dal neorealismo originario. Va da sé che, nel fumetto di cui sono protagonisti, e nell'immancabile campo della farsa, Marcello Mastroianni e Sophia Loren, più che personaggi, interpretano se stessi, attori, divi, idoli, miti, insomma, della Storia del Cinema (in maiuscolo ontologico, obbligatoriamente).

Non che la spettacolarizzazione sia solo una parte di ambienti naturali apparentemente spettacolari, comuni alle arti performative; la spettacolarizzazione raggiunge la realtà apparentemente extra-spettacolare. È allora che il film fa un altro passo avanti e si allontana dalle conseguenze. Così, le stesse sequenze finali smentiscono gli abbozzi di positività che il gesto affermativo di Simone Lo e la sua altezzosa rassegnazione mettono in atto, con la sfilata dei nudi.,

Come se non bastasse il clamoroso successo dell'evento, applaudito dal pubblico e allineato continuamente alla Storia della Moda dal nuovo cronista di turno, interrompendo completamente il segnale dell'atto critico, l'ultima scena non lascia dubbi: tra vita nascente, con bambini nudi che aspettano l'exDai un'occhiata degli anni '90”, sdraiato in fasce, tanto quanto il suo sconosciuto collega di sventura, Sergio, senzatetto, accasciato sulla panchina, e con indosso ironicamente gli abiti neri del fotografo caduto, che tanto lo contraddistinsero, ma che poi divennero segno di lutto, capace di fargli fare un giro alla fine del corteo funebre... — tra la vita, insomma, e la morte che passa sullo sfondo, al funerale del grande capo, il richiamo della realtà si dà, ma con messaggio pubblicitario , attraverso outdoor da Trussardi, pubblicizzando il suo nuovo “atteggiamento”: torna coi piedi per terra! Diventi reale, sì... ma nella realtà dello spettacolo.

Se questa contaminazione è un dato di fatto, se l'equivalenza, per dirla in modo obsoleto, tra i piani della rappresentazione e ciò che è rappresentato è un fatto, diluendoli magistralmente, se lo spettacolo come cifra storica della forma-merce, dunque, è l'unica vera e il fatto estetico che può mantieni il record il film, qualcosa che lo riscatta nella sua interezza, garantendogli, per quanto possibile, l'immortalità cinematografica, l'oggettiva ironia costringe alla riflessione. Il movimento ironico dell'allegoria si impone, e l'identità si ricostruisce ma in direzione opposta, negativamente. Se lo stilista condivide le stesse difficoltà dell'artista nell'industria culturale, ora è il regista che gode del prestigio di uno stilista. Con la sua fama, e il suo riconoscimento da parte di Hollywood, non si è poi creato il maniglie Altman, e i tuoi film non rischiano di diventare una passerella illuminata dalla sfilata di stelle e stelle?

come prova Prete a porter in modo esemplare, la critica più efficace, sia all'industria culturale sia, più ambiziosamente, alla realtà spettacolare, di cui è emblema, non è necessariamente diretta, né necessariamente intenzionale, come il primo, positivo movimento dell'allegoria dimostra, né volutamente parodica. ricorda il Giocatore (Il giocatore), del 1992, un film presumibilmente critico, ma in realtà semplicemente geniale, tanto per il gusto dell'Accademia, che ama innovazioni così proficue.

Incontriamo un'efficace critica controcorrente, nel secondo movimento dell'allegoria, negativo, e nel corso del quale la trasformazione del cineasta in stilista, dobbiamo sottolinearlo, non ha nulla a che fare con la debolezza personale o l'opportunismo, o qualcosa di quel tipo, ma con la forza del buco nero, irresistibile, che esercita la realtà spettacolare, inghiottendo tutto e tutti.

Più che intenzione, dunque, la critica effettiva è opera della forma, oggettiva, come la realtà, e oggettiva come l'ironia, che la realtà a volte ci predica spettacolarmente.

Non potevamo determinare con certezza, oggettivamente, sullo schermo, se Altman fosse o meno autoironico, se fosse consapevole di questa illuminante interruzione, della sua conversione, possibile e pericolosa, in uno stilista di punta dell'industria culturale. Se solo fosse comparso brevemente in passerella, a colpo d'occhio, solo una volta, in maniera hitchcockiana… Non ci pare., In ogni caso, consapevolmente o meno, ironicamente o no, il film è tremendamente istruttivo, come tutte le buone allegorie.

*Airton Paschoa è uno scrittore, autore, tra gli altri libri, di la vita dei pinguini (Nanchino, 2014).

Riferimento

Prete a porter

USA, 1994, 132 minuti

Regia: Robert Altmann

Interpreti: Julia Roberts, Marcello Mastroianni, Sophia Loren, Jean Pierre Cassel

note:

, Pubblicato male sulla rivista cinema, n. 14, novembre/dicembre/1998. La "revisione" l'ha trasformata in una passerella di orrori...

, L'accoglienza del film da parte delle principali organizzazioni di stampa dell'asse Rio-San Paolo è rimasta generalmente in linea con questo piano. Curioso che sia stato lodato o deriso per gli stessi motivi, vuoi per la devastante satira del circo della moda, vuoi per la superficialità di quella satira. L'unica critica più sostanziale che ha toccato, pur non elaborando, comprensibilmente, il punto decisivo della nostra visione del film, lo statuto ambiguo della sua rappresentazione, è stata purtroppo non firmata (“Corte e cultura”, Guardare, 19/4/95).

[3] Il gesto di rassegnazione di Simone Lo è però negativo, per l'aria di vittoria morale dell'Arte sull'Industria, se positiva, inserita che lo è, ricordiamolo, nel primo movimento dell'allegoria.

[4] Si può obiettare che nel film compare il cinema, ed è un dato di fatto. Appare nelle citazioni del giornalista, appare come uno scherzo in quel film dell'orrore descritto da Belafonte (la rielezione di Reagan, Nancy Reagan che forma un governo parallelo, Oliver North come Segretario alla Salute e alle Risorse Umane e Sidney Poitier come presidente dell'American Express) e che indirettamente fa svenire dallo spavento anche la bella Isabella, sempre così padrona di sé; appare soprattutto nella citazione di quelle versioni del brodo De Sica, e il fatto che appaia già in versioni diluite del neorealismo potrebbe rappresentare un indizio della consapevolezza, almeno, della voracità usurpatrice dell'industria culturale, tematizzata ancora, visibilmente, nella camicia Che Guevara dello stilista sotterraneo… Sono d'accordo. Ma continuo a dubitare che questa consapevolezza dello spettacolo, che non implica necessariamente la consapevolezza di farne parte, e ancor meno la consapevolezza di farne parte talvolta in una condizione che negli altri maggiormente deploriamo, — non mi sembra, insomma, che la coscienza dello spettacolo, manifestata in questa coscienza riflessiva del cinema, espressione della modernità, come si dice, ed espressa nella molteplicità delle citazioni, si confonderebbe con l'autoironia. Crediamo di no.

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