da LUIZ RENATO MARTIN
Commento al libro organizzato da Glória Ferreira & Cecilia Cotrim
l'interesse di Clement Greenberg e il dibattito critico (Jorge Zahar) inizia con la sua acuta attualità. Raccoglie un vivace dibattito nei paesi centrali sulla nozione di modernità e in particolare sul critico d'arte nordamericano Clement Greenberg (1909-1994). Senza riprodurre un'opera esistente, assembla la raccolta sotto forma di un cerchio di dibattito – includendo alcuni testi che, fino ad oggi, non erano stati raccolti in un libro, nemmeno negli Stati Uniti.
A questa inedita iniziativa si aggiunge l'impegno ad ampliare il dibattito attraverso un ampio e meticoloso materiale di supporto, raccolto in riviste rare e preparato con cura dagli organizzatori. Ogni testo è moltiplicato in note con indicazioni precise su ciò che precede e su ciò che svolge la discussione. Insomma, considerando l'ampiezza del patrimonio bibliografico e il pluralismo della raccolta, ci imbattiamo in un libro dal modello insolito, sovraautoriale e quasi interattivo, in cui ideazione ed esecuzione privilegiano il confronto aperto.
A parte questi contributi, qual è il dibattito? Viene discusso il processo di costituzione della modernità e Greenberg è un autore centrale in questa discussione. Toccò a lui delineare con rara chiarezza un sistema artistico d'avanguardia, con una forte influenza negli USA. Inoltre, in Brasile, è arrivato a prendere il posto di obiettivo d'avanguardia precedentemente occupato dai critici di Mário Pedrosa (1900-1981), negli anni '1950 e '1960.
È questa concezione propria della scena artistica del dopoguerra negli Stati Uniti che si manifesta in Arte e cultura (1961),[I] nella critica occasionale e negli studi dei maestri modernisti, da Manet (1832-1883) in poi. Tra gli scritti di Greenberg, le analisi su Monet (1840-1926) e Cézanne (1839-1906), sul cubismo e sul collage (che genera la scultura come costruzione), di Miró (1893-1983) e Matisse (1869-1954), come post- Cubisti, che, secondo il critico, hanno gettato le basi per la pittura astratta nordamericana post-1945.
Senza tener conto dei fattori di rottura storica – come il male nazista, la corsa atomica, la nuova divisione del mondo iniziata con l'ascesa di USA e URSS –, Greenberg, contrariamente all'esistenzialismo marxista di Harold Rosenberg (1907 -1978 ), sostiene l'essenziale continuità dell'ordine culturale nel periodo successivo al 1945, confidando che le arti evolvano da sole e prescindendo dai fatti storici, secondo il presupposto dell'irriducibilità trascendentale dell'atto estetico.
Crede in un'idea di progresso parziale di fronte all'avanzare della barbarie che denuncia – sotto le spoglie della cultura di massa. Così riassume la “x” della questione modernista in postulati: planarità (pianura), l'otticità, la purificazione crescente e immanentista del medium (medie, cioè pittura, scultura, ecc.) che conduce alla letteralità dei segni plastici. In questo senso, il miglior esempio concreto nel modernismo europeo di una tale evoluzione antiillusionista – in convergenza con la ragione moderna (sul modello del kantianesimo, secondo Greenberg) – sarebbe il cubismo.
Negli Stati Uniti del dopoguerra Greenberg fu uno dei primi a battersi per la nuova pittura astratta. Afferma: "dai tempi del cubismo non si vedeva una galassia di pittori vigorosamente talentuosi e originali come formata dagli espressionisti astratti". Ma rifiuta il termine espressionismo astratto e altri simili pittura d'azione, e nel 1955 propone la “pittura in stile americano”. Proporrà ancora – invano – il termine astrazione pittorica (astrazione pittorica), tra il 1962 e il 64. Sempre per sminuire l'importanza dell'espressionismo tedesco, intriso di influssi extrapittorici, e per sottolineare il rigore cubista: l'esempio dell'autolimitazione al piano.
Contro chi vede un tono spontaneo o espressionista nella pittura americana del dopoguerra, come vogliono i critici (Rosenberg, per esempio) che si affidano a categorie non pittoriche, Greenberg pretende molta attenzione solo a ciò che è sulla tela. E la sua argomentazione è che l'arte di Pollock (1912-1956), de Kooning (1904-1997), Hofmann (1880-1966), Gorky (1904-1948), Still (1904-1980), Motherwell (1915-1991 ), Rothko (1903-1970), Kline (1910-1962) e Newman (1905-1970) attualizzano l'obiettivo principale del modernismo (da Cézanne, dai cubisti) di evidenziare il carattere planare della pittura, portandolo all'essenziale; cioè verso una “coerenza scientifica”, già intravista nell'“insistenza degli impressionisti sull'ottica”. Con questo gruppo di pittori, gli Stati Uniti entrano nella linea evolutiva della storia dell'arte.
Giusto o no, un tale insieme di riflessioni – radicalmente antispeculativo nella sua osservanza della letteralità dei fatti plastici – adempie efficacemente al compito del momento: sintetizzare/superare il modernismo europeo nella storia dell'arte statunitense. Comunque il dibattito è aperto.
Greenberg, socio abituale di Meyer Schapiro (1904-1996), a differenza di quest'ultimo, non entrò a far parte di istituzioni accademiche. Limitato al giornalismo oa conferenze ed eventi episodici, si è distinto come autore scrivendo in periodici sulle grandi retrospettive dei maestri europei negli Stati Uniti e sui libri d'arte o argomenti correlati. Il suo lavoro critico assume quindi un aspetto enigmatico o incompiuto di fronte alla fermezza e alla convinzione dei suoi giudizi, che, pur supportati dalla qualità di un'attenzione visiva unica e di ragionamenti strutturati e coerenti sulla storia dell'arte, solo fugacemente riescono a mettere in luce premesse e corollari.
Ora, in questo libro, la prima sezione riporta i rari testi teorici di Greenberg in cui l'autore ha l'opportunità di esporre più ragioni e riflettere sui suoi giudizi. Appare il critico del critico e il teorico che vede l'arte moderna come essenzialmente autocritica o come ciò che, secondo Kant (1724-1804), si configura (questa è la “massima espressione” dell'autocritica kantiana, dice Greenberg) come scienza, in quanto espone il principio stesso come dato universale e si autolimita. Greenberg annunciava così ciò che oggi è più attuale in più ambiti, poiché il nome di Kant ruota come un rafforzamento positivo nell'asse dell'agenda mondiale delle idee consolidate, spingendo le riforme della cosiddetta modernità, secondo un sistema con un singolo standard o che presuppone universale.
Nella seconda sezione entriamo in contatto con testi da diverse angolazioni, riguardanti la performance o l'eredità del critico. Sono di cinque autori statunitensi e tre francesi, questi legati alla rivista d'arte contemporanea macchia. Ad eccezione di Barnett Newman e Rosenberg, tutti hanno partecipato al Greenberg Colloquium (Centro Pompidou, Parigi, 1993). Ci sono i testi dell'evento, ma non solo; quelli di Rosenberg, Leo Steinberg (1920-2011) e Rosalind Krauss (1941) testimoniano scontri con i criteri di Greenberg in diversi momenti storici.
Nel 1961 il rivale Rosenberg polemizza aspramente con Greenberg, contestandone sia il formalismo che le implicazioni sociali e ponendo un “sé attivo” alla base della pittura astratta che chiama pittura d'azione; nel 1968 Steinberg evidenzia i limiti del canone di Greenberg di fronte all'opera di Rauschenberg (1925-2008) e JasperJohns (1930), che avvia la pop art negli anni Cinquanta, e anche contro il pop art e l'arte minimalista degli anni '1960; Krauss, nel 1972, ex discepolo di Greenberg, si affida, in questo testo giovanile, alle idee di Steinberg, per discostarsi dall'ex maestro (per lo stesso scopo, utilizza oggi il post-strutturalismo francese).
Tra questi testi di opposizione spicca quello di Steinberg, che indica la rottura con l'idea di un piano pittorico verticale, legato all'opposizione tra coscienza e natura, a favore di una superficie operativa orizzontale opaca (flatbed), “riaprirsi al mondo”, ideato da Rauschenberg, ma già suggerito da Duchamp (1887-1968) – artista rifiutato da Greenberg.
Gli altri testi, invece, recenti e senza la foga dello scontro, fanno un inventario dell'eredità di Greenberg. Spiccano gli studi di TJ Clark (1943),[Ii] che critica la trasmutazione dell'arte moderna in scienza e l'idea di avanguardia come attività specializzata, al di sopra delle fratture sociali; e Hubert Damisch (1928-2017), che arriva con il fardello della retorica tortuosa e frivola dell'heideggerianismo gallicizzato, caratteristico di un contingente di intellettuali francesi.
Ma, nell'elaborare l'idea dell'autoeducazione, Damisch ha due momenti positivi: il primo, quando situa l'autoeducazione di Greenberg come caratteristica comune a opere fondamentali della critica d'arte: Winckelmann ([1717-1768], La storia dell'arte nell'antichità, 1764), Diderot ([1713-1784], Il Salone del 1765) e Lessing ([1729-1781], laocoonte, 1766). E la seconda, quando si conclude con un parallelo tra le prospettive di Marx (1818-1883) e Freud (1856-1939). Presenta così l'autoeducazione come la via dell'apprendimento per la classe operaia (non ancora soggetta a un partito dirigente), e anche la via della psicoanalisi di Freud.
*Luiz Renato Martins è professore di PPG in Storia economica (FFLCH-USP) e Arti visive (ECA-USP). È autore, tra gli altri libri, di Le lunghe radici del formalismo in Brasile (Haymamercato/ HMBS).
Revisione e assistenza alla ricerca: Gustavo Motta.
Originariamente pubblicato con il titolo “Made in USA” su Giornale delle recensioni, no. 29 / Giornale, in 09.08.1997.
Riferimento
Glória Ferreira & Cecilia Cotrim (a cura di). Clement Greenberg e il dibattito critico. Traduzione: Maria Luiza X. di A. Borges. Rio de Janeiro, Jorge Zahar Direttore / Funarte.
note:
[I] C.Greenberg, Arte e cultura (Boston, Beacon, 1961), selezione di testi critici, curata dall'autore stesso (versione brasiliana: Arte e cultura/ Saggi critici, prefazione di Rodrigo Naves, traduzione di Otacílio Nunes, São Paulo, Ática, 1996). Per una raccolta completa dei saggi di Greenberg, vedere idem e John O'Brian (a cura di), I saggi e la critica raccolti, 1939-69, 4 vol., Chicago, University of Chicago Press, 1993.
[Ii] Vedi TJ Clark, “Clement Greenberg's Theory of Art” (1982), pubblicato in Nuovi studi Cebrap, no. 24, San Paolo, Cebrap, lug. 1989, pp. 131-146, con diversa traduzione, in questo caso, di Marco Gianotti.