Con Fellini al cinema, e poco oltre

George Grosz, Matusalemme. Disegno dei costumi per la commedia Methusalem, 1922
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da REMY J. FONTANA*

Commenti al libro di interviste di Fellini

Nelle prime righe di Abbasso le sacre verità, Harold Bloom si riferisce al Libro dei Giubilei, composta da un fariseo intorno all'anno 100 a.C. come avente un titolo esuberante per un'opera così mediocre. Qui mi imbatto in una valutazione opposta quando faccio alcuni commenti su Fellini: Intervista sul cinema, interpretato da Giovanni Grazzini. È un'opera notevole sotto un titolo prosaico, nella forma di un modesto libro tascabile. Questo libriccino discreto – del genere interviste a personaggi famosi o personaggi di spicco che di solito trattano amenità, curiosità o fatti pittoreschi della loro vita ed eventualmente delle loro opere, non di rado sotto un approccio agiografico indigesto – è diventato più di una piacevole sorpresa.

Il libro dice dunque più di quanto suggerisca la copertina, sorprende per l'intelligente interlocuzione tra chi chiede e chi risponde, essendo le risposte di Fellini ampie divagazioni sui suoi ricordi d'infanzia, gli anni formativi nell'Italia fervente cattolica sotto il fascismo, la sua attività iniziale come illustratore, fumettista, sceneggiatore e regista; il suo “metodo” di lavoro, i suoi riferimenti e le sue influenze e su tante altre cose oltre il cinema, quasi una piccola autobiografia. Tutto sommato, quello che ci racconta di sé, del cinema, della vita, del suo mondo, della sua creazione, dell'arte, ci conduce in un viaggio affascinante. Come altri talenti eccezionali, Fellini è accessibile, anche se non sempre percepito come tale, loquace, concreto, pratico e, soprattutto, geniale.

C'è un'intera letteratura su questo regista, compresi i suoi libri,, concentrandosi su diversi aspetti del suo lavoro, ma in questa piccola pubblicazione di 158 pagine qui commentate, ci sono tante informazioni, analisi, argomentazioni, indicazioni, allusioni sull'arte di fare cinema, esposte in modo così illuminante, così accattivante dal fioritura di un'intelligenza così acuta che sembra che si tratti di un trattato teorico piuttosto che di un'intervista, sia pure ampia. Va detto, per inciso, che l'approccio teorico o un'esposizione scientifica è tutto ciò da cui Fellini prende le distanze; i suoi riferimenti, il suo stile, il suo “metodo” rivelano sì una raffinata cultura, ma si realizzano piuttosto nella pragmatica di un'opera unica, personale, vis-à-vis una realtà che cattura ad occhi spalancati, per trasfigurarla con la forza di un'immaginazione, la cui intraprendenza è vicaria di sogni più o meno deliranti.

Vicino a un certo barocco, come la vedono alcuni, cercando di prendere le distanze da una “arida lucidità intellettuale razionale”, ponendo al suo posto una “conoscenza spirituale, magica, di religiosa partecipazione al mistero dell'universo”, come scrive Italo Calvino , Fellini può passare dalla caricatura al visionario senza pregiudicare una rappresentazione espressiva, in modo tale che anche utilizzando un linguaggio più sofisticato non perda una matrice comunicativa popolare. Ma tali risorse espressive, in particolare quelle di tipo caricaturale, per quanto grottesche, per quanto sanguigne, portano sempre qualcosa di vero, anche se tali implicazioni a favore della verosimiglianza, o della fedeltà alla verità, non sono un requisito di un giudizio estetico.

Tra il progetto o l'idea di ciò che intende fare e la sua realizzazione ci sono delle mediazioni, qualcosa di intenzionale che segue un copione, e molto di ciò che è improvvisato. Le tue idee, intuizioni, le intuizioni gli vengono a caso, da percezioni fortuite, da apprensioni circostanziali, dove né la coscienza né la volontà sembrano intervenire. È così che trova la risoluzione di un'impasse, sia la caratterizzazione di un personaggio, sia la scelta dell'attore che dovrebbe incarnarlo. Non si tratta di puro capriccio idiosincratico, ma di una disposizione soggettiva aperta, di una libera interiorità che non si lascia imprigionare dalla sola esistenza esterna, pur traendo da essa i suoi elementi sensibili e immediati.

Parimenti, da questo procedimento non si deve dedurre che in Fellini tutto è volontarismo, caso, trascuratezza e falsità. Piuttosto è attento a ciò che vede, a ciò che emerge da zone profonde della costellazione di sentimenti, percezioni, anticipazioni di immagini, personaggi e atmosfere. È pienamente consapevole della sua responsabilità, “di non ingannare, di non accontentarsi, di testimoniare, con gli strumenti espressivi a mia disposizione, la follia in cui a volte mi trovo”.

Non gli mancavano formazione, riferimenti eruditi, raffinate conoscenze estetiche o esperienze arricchenti nel suo mestiere, accanto a geniali creatori nelle arti grafiche o cinematografiche. Tuttavia si è servito di questi saperi e di queste pratiche, appropriarsene, elaborandole “dentro” e dentro la sua opera, senza chiedere allo spettatore di fare nulla, guardando i suoi film, se non semplicemente guardali. Vedere i suoi film ed esserne commossi, come, ad esempio, il modo in cui Roland Barthes (in Camera Lucida), nel bel mezzo di un'ampia, profonda ed esasperante analisi che fa della fotografia, nell'ultimo libro che ha scritto, ci racconta che vedendo una scena da Casanova i suoi occhi furono colpiti da una sorta di intensità dolorosa e deliziosa, “(…) come se all'improvviso sperimentassi gli effetti di una strana droga: ogni dettaglio, che vedevo così esattamente, assaporandolo, per così dire, fino all'ultima evidenza, mi travolgeva (…)”.

Nel presentare i suoi film non induce né suggerisce che vengano apprezzati sotto nessun tipo di lettura, sociologica, psicoanalitica, semiologica o altro; anche se ovviamente possono passare attraverso tali filtri e registri critici. Ma, vale la pena insistere, per quanto oniriche, metaforiche, sensibili, fantastiche o fantasiose le scene di Fellin siano, non si riducono alla produzione di facili emozioni, né rimandano a una divertente evasione; sono piuttosto stimoli di riflessione, un percorso immaginifico, ma comprensivo di aspetti universali della condizione umana, della sua come condizione affettiva fondamentale, ma anche di ciò che essa comporta di profonda leggerezza e dolcezza.

Certo, lungi dall'essere alienato, ciò che potrebbe incuriosire alcuni è il fatto che Fellini, come alcuni altri grandi cineasti, ricordiamo Bergman, trascurasse preoccupazioni o approcci alla politica, almeno nelle sue forme esplicite, impegnate o radicalizzate. . Le sue passioni sono di natura diversa, il suo lavoro ha altri assi, altre motivazioni, sebbene di solito critiche o addirittura demolitrici della società borghese, della sua cultura e delle sue istituzioni.

I suoi film, in varia misura, hanno oltrepassato i propri confini, influenzando costumi e morale. Non poche le sue invettive sulla cultura di una società, quella italiana, nei suoi aspetti più retrogradi, autocelebrata e rappresentata dall'aristocrazia terriera, dalla nobiltà pontificia o dal fascismo, sulla quale “mi piaceva esercitare la mia propensione al finto ”.

La reazione clericale a Dolce Vita, è illustrativo; L'Osservatore Romano, intendeva censurare il film, bruciare i negativi e confiscare il passaporto del regista. Sulla porta di alcune chiese si leggeva, in un manifesto segnato dal lutto: “Preghiamo per la salvezza dell'anima di Federico Fellini, peccatore infame”.

Non sono mancate anche le critiche da sinistra, accusandolo di insistere troppo sulla “poetica della memoria”, nel caso di le buone vite, o non stabilire collegamenti chiari tra la narrazione e le questioni sociali o le intenzioni politiche, Sulla strada della vita.

Se è un dato di fatto che l'arte è condizionata dalle formazioni sociali, non esistono determinazioni senza mediazioni che spaziano dalla psicologia alla morale, dall'estetica alla metafisica, introducendo temi come l'amore, la morte, la felicità, la razionalità, il male, il caso, la tentazione. del male o del bene, l'appetito faustiano, la memoria, l'angoscia, l'alienazione. Temi e condizioni lavorati sotto forma di un susseguirsi di immagini, nel caso del cinema, di visioni oniriche, illusorie che, come controparte del mondo reale, rimandano all'esperienza, in un flusso continuo, attraverso la coerenza di uno stile dato .

Se volessimo illustrare in una figura singolare l'affermazione hegeliana del cammino universale della storia verso la coscienza della libertà, forse Fellini potrebbe essere un primo classificato. In una dialettica evolutiva, lui e la sua opera sembrano risalire da una libertà ancora personale e autoriale al livello dell'universalità, dell'autocoscienza, della realizzazione della sua opera e della sua fruizione da parte di tutti.

Tra i requisiti per essere un regista, Fellini elenca la curiosità, l'umiltà di fronte alla vita, la voglia di vedere tutto, la pigrizia, l'ignoranza, l'indisciplina e l'indipendenza. Qualità che si vedono nei suoi film, con enfasi sulla curiosità e l'apertura al mondo, per vederlo senza riserve o giudizi. Alcuni critici inglesi fanno delle approssimazioni tra le sue opere e quelle di Charles Dickens, per la loro capacità di immedesimarsi nei personaggi, per l'esagerazione e il caos di quanto narrato o mostrato. I suoi tipi preferiti sono i estranei, gli emarginati, le vittime della vita, della società, guardati in faccia, mai dall'alto, né fuori dal contesto delle loro difficoltà.

La loro capacità di meraviglia è illimitata, c'è il caos, ma sono di tipo creativo, i loro punti di vista non sono fissi, la loro concezione della vita rimane aperta.

Nel 1982, durante il 35°. Festival di Cannes, Wim Wenders ha invitato alcuni colleghi registi, uno alla volta, li ha messi da soli davanti a una telecamera in una stanza d'albergo, per rispondere a un'unica domanda, "Qual è il futuro del cinema?", che ha portato alla documentario “Stanza 666”. Tra gli altri che hanno riflettuto sul loro mestiere, spiccano Godard, Fassbinder, Antonioni, Herzog, Spielberg, Ana Carolina.

Il risultato sembra rivelare più della personalità di ciascuno che l'esposizione di argomenti o una digressione più coerente. Cito questo fatto perché contemporaneamente, nel 1983, veniva pubblicata in libro l'intervista a Fellini, oggetto di questo commento. È vero che tra una breve riflessione davanti a una macchina da presa, dove la parola è mediata dall'immagine in movimento, e l'intelligente interlocuzione con qualcuno, nel corso di alcuni incontri, che prenderanno poi forma di testo stampato, è un'enorme differenza di contesto, tempi e linguaggi.

Ma rimaniamo ancora incantati dall'ispirata profusione delle riflessioni di Fellini, in contrasto con la frammentata verbosità di alcune menti geniali di nuova ondata, del cinema tedesco o hollywoodiano; alquanto frustrante. Oltre alla complessità della questione, coperta dal modo scarno con cui era stata formulata da Wenders, quei registi faticarono, nella loro freddezza e dispersione, ad andare un po' oltre enunciando alcune perplessità con l'avvento della concorrenza televisiva e alcuni altri punti, a differenza del modo caloroso, amichevole e pacato con cui Fellini ha affrontato il futuro del cinema, nel testo qui citato.

È qualcosa di sorprendente la goffaggine, l'imbarazzo persino, con cui si trovano davanti alla macchina da presa, avendo la testa, in quel momento, e di solito, dietro di essa (come dice Godard). Ha diverse percezioni sul futuro del cinema, sia come linguaggio, che sembra perdersi di fronte ad altri media, TV e pubblicità, ad esempio, sia con i cambiamenti tecnologici che sembrano avere un impatto o minacciarlo come forma d'arte breve.

Tra pessimisti e relativamente ottimisti, esprimono incertezze e angosce, vuoi perché alcuni pensano che l'industria e la commercializzazione dei film lascino poco spazio alla creazione autentica, che si ritirerebbe in nicchie marginali, vuoi perché i critici hanno demolito il cinema in quanto tale, vuoi per la spostamento dal focus dei personaggi ai registi, alla fotografia, ecc.

Diversi dicono di non andare spesso al cinema o di guardare film, alcuni, meno preoccupati, non prendono così sul serio le questioni menzionate o li rimandano a cicli in cui si alternano film buoni e cattivi. C'è un certo consenso sul ristabilirsi del cinema nella contemporaneità, come un'arte degna della sua natura e originalità, purché fatta con passione, vigore, amore e riflessione (Susan Seidelman, Ana Carolina), come espressione dell'individualità ( Fassbinder), connesso con la vita (Herzog), risolve problemi di budget (Spielberg), equipara la contraddizione tra cinema-industria e cinema-arte per non alienare le masse, da un lato, e non alienarle, dall'altro (Yilmaz Guiney).

Antonioni, con più serenità e loquacità, riconosce la gravità delle minacce al cinema, vuoi per l'emergere della tv, che impatta sulla mentalità e sull'occhio dello spettatore, vuoi per le difficoltà di adattamento, anche di fronte alle nuove tecnologie (si è ciò che meglio anticipa le innovazioni, all'epoca ancora solo abbozzate). La questione, dice, è adattarsi alle esigenze dello spettatore e dello spettacolo di domani; affermando di essere un praticante, non un teorico, vede le trasformazioni come inevitabili, non solo a livello tecnologico, ma anche in termini di mentalità e sentimenti, il che implica sperimentare le nuove possibilità che si presentano, provare cose nuove, farle invece di parlarne, per mostrare finalmente ciò che sentiamo, ciò che pensiamo di dover dire, o, d'accordo con Godard, che il compito del cinema è mostrare, con il suo linguaggio, con il suo mondo immaginario, ciò che non si vede.

Tornando a Fellini, come ogni opera, i suoi film possono essere criticati per criteri estetici, sociali o politici, ma è difficile non riconoscere in essi un'“anima”, che ingloba sensi, significati e sentimenti di un'esistenza, le cui determinazioni, sia perentorie e quelli prosaici illustrano la vita come la viviamo o come potremmo viverla con l'immaginazione.

Se il linguaggio del cinema è soprattutto metaforico, non sorprende che Fellini abbia definito se stesso “un grande bugiardo” e la sua arte un'autentica fabbrica di illusioni, ma ciò non significa che abdica, operando attraverso tali mezzi e sotterfugi, consentendo aiutarlo a sbloccare qualcosa del mondo o della condizione umana, rendendoli suscettibili di una maggiore comprensione, permettendoci di vedere qualcosa di loro che altrimenti non vedremmo. Fellini eccelle nell'arte di suscitare un'emozione, e di portarci al di là di essa, al di là di un affetto fugace, verso la chiarificazione, l'intelligibilità, in quanto facilita l'instaurazione di un rapporto di empatia o affinità elettiva con ciò che stiamo vedendo.

Il tempo e l'esperienza del tempo – oltre allo stesso tempo cinematografico, che presuppone immagini in successione temporale –, tema ricorrente e asse di alcune delle sue opere più notevoli, non ci appaiono come momenti singolari o come mera cronologia, ma scorrono con fluidità, lasciando tracce di esperienze che vediamo con il fascino di una poetica nostalgia, ma non con un banale sentimentalismo, e indica un percorso che i suoi personaggi seguiranno un percorso da percorrere, le cui vicissitudini e destinazioni non sono date e tanto meno possiamo intravederli.

Un film può essere apprezzato in molteplici modi, tema, sceneggiatura, conduzione narrativa, uso delle inquadrature, colonna sonora, luci, recitazione, ecc. È da questo set che nasce un'opera che può affascinarci o annoiarci, ma nel caso di Fellini, forse potremmo evidenziare il lavoro dell'attore (sia chiaro, di entrambi i sessi o di molti altri sessi) da tutti questi elementi . Se è vero che un personaggio può essere compreso solo dalle situazioni che deve rappresentare, con questo regista è dotato di una tale espressività che sembra essere colui che tipizza ciò che accade, prima di esserne tipizzato. Attore e situazione sono notevolmente intrecciati, ma sono le diverse tipologie di personaggi e la diversità dei modi di rappresentarli – che nel caso della letteratura costituiscono gli elementi essenziali di una narrazione -, che permettono a Fellini di ritrarre con grande maestria la ricchezza, la diversità e la profondità psicologica della condizione umana.

Dice di non aver mai avuto problemi con gli attori; gli piacciono i tuoi difetti, le tue vanità, le tue nevrosi. È grato a loro per quello che fanno per lui, meravigliandosi di vedere come i fantasmi con cui vive nella sua immaginazione, prendono vita, parlano, si muovono, fumano e fanno quello che dice loro, interpretano i dialoghi del film come lui li immaginava. Considera gli attori comici come benefattori dell'umanità; un meraviglioso mestiere.

Un regista che, in mezzo al neorealismo, sa riferirsi alle dimensioni reali e concrete della vita, alla “pura testimonianza del reale”, ma, soprattutto, a trascenderle attraverso il filtro della sua soggettività creativa, dando loro un trattamento cinematografico pieno di aperture e problematizzazioni.

Riconosce di essere stato privilegiato in termini di libertà creativa, mai costretto a fare ciò che non aveva intenzione di fare, nel suo rapporto con i produttori. Anche in “America”, quando ha accettato quasi scherzosamente un invito a prospettare le condizioni per fare un film, quando gli è stato offerto tutto ciò di cui aveva bisogno, risorse, finanziamenti, relazioni, contatti, ecc., dopo aver letteralmente girato per gli Stati Uniti per due mesi, sotto l'egida di generose gratifiche, disse bruscamente ai suoi ospiti, nonostante “America” gli piacesse, che non poteva girare lì, perché anche se il paese gli sembrava un immenso e geniale set per la sua visione di cose, "Non saprei metterlo in un film". solo in Cinecittà, in Studio 5, si sentiva davvero creativo e di buon umore, sostenuto dalla “grande rete delle mie radici, dei miei ricordi, delle mie abitudini, della mia casa, insomma del mio laboratorio”.

Per raccontare un'esperienza, per esprimere un sentimento di fronte a una nuova realtà, per darle credibilità, per darle vita, senza errori o distorsioni, credeva che si potesse fare solo nella sua lingua, “solo così si può avere disponibilità a comunicare con se stesso, prima ancora che con gli altri. L'equivoco nasce dal fatto che si pensa che il cinema sia una macchina da presa... e, dall'altro, una realtà pronta per essere fotografata”. A proposito, un opportuno promemoria ora che tutti con un cellulare in mano pensano di essere registi. Il suo lavoro, chiarisce, richiede un riferimento al linguaggio come visione del mondo, dei miti, delle fantasie collettive. Il sostrato delle sue creazioni implica le speculazioni che vengono costruite dai diversi sistemi di rappresentazione, tra giornali, televisione, pubblicità e la sintesi delle immagini che conosciamo.

Fortunatamente per noi, non devi essere immerso nella cultura del tuo paese per goderti i suoi film; in relazione alla sua arte, ci poniamo come spettatori capaci di goderne e comprenderla, allo stesso modo in cui Goethe, in relazione ad un'altra forma espressiva, quando coniò il termine, la possibilità e la necessità di una Letteratura Mondiale, attraverso il ampio scambio di opere attraverso traduzioni, che sono esse stesse creazioni a sé stanti (in un registro opposto all'adagio traduttore, tradizionale), il cinema, arte della società di massa per eccellenza, può anche rivendicare lo status di cinema mondiale, indipendentemente dalla provenienza delle sue produzioni, dei suoi registi e dei suoi attori.

Alla domanda su come affrontare la realtà, capire il momento storico in cui viviamo, riconosce modestamente di non avere né strumenti né maturità di riflessione, né distanza per capire chi e come è governata la società. Ma non smette mai di interrogarsi su quali siano stati gli oscuri labirinti che l'hanno portata qui, a queste situazioni di stagnazione, sospettando che continuerà ad inciampare piuttosto che secondo modelli o progetti che portino a più alti livelli di civiltà. In tal senso, egli accenna al “mostruoso egoismo che si impadronisce dell'umanità di fronte all'impoverimento delle risorse naturali del pianeta. La prospettiva è catastrofica (…)”. Anticipando le odierne crescenti preoccupazioni sul cambiamento climatico, indica i limiti del progresso, in modo tale che il futuro sia già finito, di fronte a una “eccitante irreversibilità per chi, …, vorrebbe ritrovarsi su un'altra arca di Noè e viaggiare in mezzo al disastro con pochi eletti e alcuni animali”.

Senza trascurare le preoccupazioni in cui siamo immersi, l'angoscia e la paura pervasive del nostro tempo, ci ricorda che l'espressione artistica ha anche un aspetto ludico, un invito alla fantasia. Se questo può sembrare un'eresia o una perversione di fronte a tanti disagi, traumi o minacce, è comunque necessario alzare gli occhi da terra, riacquistare il senso della gratuità, non lasciarsi sottrarre tempo libero, renderlo più un vuoto, un impedimento a stabilire un rapporto con se stessi e con la vita. “La bellezza sarebbe meno ingannevole e insidiosa se cominciassimo a considerare bello tutto ciò che dà un'emozione, (...). E questo, l'emozione, nel modo in cui viene suonata, irradia energia, “(…) questo è sempre positivo, sia dal punto di vista etico che estetico. Anche la bellezza è buona. L'intelligenza è bontà, la bellezza è intelligenza: entrambe comportano una liberazione dalla prigione della cultura”.

Come ho accennato, ci sono molti altri temi, storie e fatti nel libro oltre a quelli che si riferiscono al cinema e all'arte; sono situazioni pittoresche, esperienze, peregrinazioni, incontri con il regista, riflessioni e ricordi, quando è entrato nella sua sesta decade di vita.

Racconta, ad esempio, come, per sfuggire alla coscrizione militare durante la guerra, abbia simulato malattie misteriose, corrompendo medici italiani; una volta che si è comportato da matto, ha trascorso tre giorni in un manicomio, in mutande, con un asciugamano in testa, come un maragià. Con l'Italia occupata, i medici nazisti non furono così condiscendenti, ordinandogli di presentarsi al suo reggimento, nello stesso momento in cui il luogo, un ospedale di Bologna, veniva bombardato dagli americani, cosa che gli permise la fuga.

Stare con Rossellini, durante le riprese di Paese, Si erano persi mentre cercavano una capanna sulla riva fangosa del fiume Po, che doveva fare da sfondo, quando furono sorpresi da un bambino di circa tre anni, uscendo dai boschetti di bambù, che, dopo aver detto in dialetto veneto: Sono socialista, li ha guidati rapidamente nella posizione desiderata.

Divenne amico del poeta Evtushenko, quando lo incontrò in occasione del Otto e mezzo, al Festival del cinema di Mosca. Anni dopo si sono conosciuti una notte, bella e un po' fredda, alla periferia di Roma, passeggiando lungo il fiume. Improvvisamente Sergej era in mutande e recitando dei versi entrò in acqua. Fellini e alcuni amici lo hanno perso di vista per molto tempo; quando erano preoccupati, pensavano già di chiamare aiuto, l'ambasciata sovietica, chiamando Krusciov, già lamentandosi: "Era un grande poeta", ecco, dopo aver nuotato per alcuni chilometri, appare la figura, che vuole sapere chi era più grande, se Tasso o Ariosto. quanto glorioso vitello, conclude Fellini.

Personaggi come Fellini ci mostrano come l'arte arricchisce la vita, sia a livello individuale che a livello più ampio della società. Ci aiuta anche a capire che, nonostante la sua apparente mancanza di utilità immediata o pratica, al di là dei riduzionismi, delle trappole ideologiche o strumentali o di un'astrazione di tipo arte per l'arte, in cui sembra contenersi, presentarsi o scomparire, l'arte è un'affermazione del potere creativo dell'umanità, un'espressione della sua complessità, delle sue contraddizioni, delle sue possibilità, della sua realtà, della sua verità.

Condizioni fondamentali e imprescindibili sotto le quali continuiamo a cercare un senso, una pienezza per l'esistenza, nel tempo che spetta a noi viverla, qui e ora, resistendo alla frammentazione, alla dispersione, allo sgretolamento di valori e obiettivi, sostituiti da altri, fugaci e parziali che si succedono senza sosta, senza poter scoprire vie per raggiungerli.

*Remy J.Fontana, sociologo, è professore in pensione presso l'Università Federale di Santa Catarina (UFSC).

Riferimento


Fellini. Intervista cinematografica. Regia di Giovanni Grazzini. Rio de Janeiro, Civiltà brasiliana, 1986.

Nota


[1] Si veda in particolare Federico Fellini, Fare un film. Rio de Janeiro, Civiltà brasiliana, 2000.

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