da RENATO DAGNINO*
Il processo politico in corso per generare una reindustrializzazione del Paese non pensa in termini di reindustrializzazione solidale
Questo testo vuole essere il primo di una serie pensata per cercare il dialogo con coloro che stanno seguendo il processo di elaborazione politica della “neo-industrializzazione”. Un processo che, molto prima che fosse possibile enunciarlo come politica pubblica, abbiamo discusso e chiamato, seguendo la letteratura dell’epoca, “reindustrializzazione delle imprese”. E, contrapponendola alla, evidentemente non esclusiva, “reindustrializzazione solidale”.
In questa occasione mantengo questa posizione ideologica. E anche il fulcro dell’analisi politica. Quell'approccio multidisciplinare che lo intende integrato da movimenti di politica e politica svolte dagli attori coinvolti. Ed evidenzia che è sempre necessario esaminare le relazioni che intercorrono tra loro durante tutto il ciclo sistemico, anche iterativo e interattivo, dei momenti di formulazione, attuazione e valutazione.
Le persone che privilegio qui e che hanno letto i documenti governativi sulla neoindustrializzazione nei media concorderanno con me che il suo attore chiave è la compagnia nazionale. Appare lì come responsabile del suo successo.
Al punto che un collega del Dipartimento di Politiche Scientifiche e Tecnologiche di Unicamp (insospettabile, visto che è ben lungi dall'ammettere, tra l'altro, il concetto di “tecnoscienza solidale”) ripete in modo ironico tono la massima garrinchiana: “E voi siete già d’accordo con i russi?”
Nell’impossibilità di rispondere alla domanda, e poiché non conosco le possibili “combinazioni” (intese come condizioni) in cui è coinvolto questo attore, la manifestazione pubblica più importante che ho trovato, e per questo la prendo a riferimento, è il discorso d'insediamento pronunciato il 31 ottobre dall'attuale presidente della Confederazione Nazionale dell'Industria (CNI), Ricardo Alban.
Non lo ripeto qui, ma l'esercizio che ho fatto leggendo il testo era simile a uno di quegli enigmi in cui, date due liste, bisognava unire ogni frase di entrambe con un trattino.
Il primo elenco è quello che si evince da quanto pubblicato nei documenti a cui ho fatto riferimento e l'altro le dichiarazioni esplicite e, soprattutto, implicite che contengono il magistrale discorso del presidente del CNI. Che presumo, con tutte le riserve, sia quello dell'attore uomo d'affari.
Il materiale che fa riferimento al discorso lo presenta con un linguaggio patinato (che, mi ha aiutato Google, significa: accurato, perfetto, corretto, chiaro) che ammette due interpretazioni: una basata su una lettura “razziale” e, un'altra, orientata a scrutare le intenzioni che sono state comunicate a chi lo ha preparato. Inoltre è “articolato” in modo tale da consentire che le affermazioni fatte in ogni momento sulla base di argomenti forti, anche empirici, nazionali e internazionali, possano essere indebolite nel periodo successivo. O anche come suscettibile di essere interpretato in modi antagonisti.
Sebbene lo stile sia spesso ellittico, il discorso dialoga con ciascuna delle richieste governative che l’attuale fase di politica pubblica neoindustrializzazione pone all’impresa. Quelli che, nel mio esercizio (che vorrei proporre come ricerca ad uno studente del dipartimento), compaiono nel primo elenco.
È come se, riconoscendo le istanze e sostenendole come pertinenti, l'attore economico realizzasse ciò che lui (e buona parte del responsabili politici) intende il suo ruolo. In altre parole, presentare le condizioni – da soddisfare attraverso misure di altre politiche pubbliche – che renderebbero possibile la loro necessaria partecipazione (citata come chiaramente deducibile da quei documenti).
Dal discorso si ha l'impressione che l'attore imprenditore esprima, o meglio riproduca, un “senso comune” presente nella società. Che, come spesso accade, viene spacciato per “buon senso”.
Inoltre, sostenendo la neoindustrializzazione e accettando implicitamente l’idea che potrebbe diventare qualcosa di simile alla politica di industrializzazione attraverso la sostituzione delle importazioni (quando le politiche, l’economia, la cognizione, la società, ecc., ne fossero guidate), egli è allineandosi ideologicamente con coloro che lo formulano.
Ciò che il discorso riproduce è la narrazione del difesa politica formato dall’élite scientifica e dalla tecnocrazia della politica cognitiva brasiliana (quella con cui ho combinato Istruzione e IST). Quella che, egemonicamente, da decenni guida il modo in cui ci rapportiamo alla conoscenza.
Come altri compagni allineati al pensiero latinoamericano sulla scienza, la tecnologia e la società, anch’io ho cercato per decenni di decostruire questa narrazione (che ho chiamato innovatorista), concentrandomi sui punti che sembrano degni di critica.
Oggi, ciò che mi preoccupa di più è cercare di evitare che la narrativa innovazionista ci porti a sprecare l’opportunità, contenuta nella curricolarizzazione dell’estensione, di riorientare le agende di insegnamento, ricerca e estensione dell’università pubblica.
In mezzo a una molteplicità di aspetti pressanti e di azioni di diversa natura legati a questo riorientamento, c’è una preoccupazione che più mi mobilita.
Si tratta della necessità per noi, lavoratori e lavoratori della conoscenza, di imparare a identificare, nei bisogni materiali collettivi attualmente insoddisfatti, la domanda tecno-scientifica che spetta alla nostra università “professore”.
È in questo contesto che appare il concetto, visto sulla scena globale e nelle sue diverse denominazioni come essenziale per prolungare in pace la nostra vita su questo pianeta, di “economia solidale”.
E associato, come condizione per la sua espansione, il concetto di “tecnoscienza solidale”. Quella che dobbiamo sviluppare attraverso la riprogettazione e l’adattamento socio-tecnico della tecnoscienza capitalista. Quella fatta da e per le aziende, che interagisce con la guerra e contribuisce a rendere irrealizzabile la vita che vogliamo lasciare a chi verrà dopo.
Più di quanto ho fatto nel caso precedente, dato che ho già pubblicato i risultati della mia analisi, intendo proporre un altro enigma.
Perché la proposta di reindustrializzazione solidale non viene nemmeno presa in considerazione nei documenti governativi? Qual è la colpa degli argomenti e delle azioni che contiene? E, se ce ne sono alcuni che sono difendibili, come possono essere resi operativi nell’attuale correlazione di forze?
* Renato Dagnino È professore presso il Dipartimento di politica scientifica e tecnologica di Unicamp. Autore, tra gli altri libri, di Tecnoscienza solidale, un manuale strategico (lotte anticapitali).
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