da PAOLO MARTIN*
Commento al libro di Luciano di Samosata
Di Luciano de Samosata si sa poco o nulla. Essendo vissuto sotto l'Impero Romano tra il 125 e il 181, ben rappresenta una produzione letteraria “romana” che si estese dopo Augusto e che fu veicolata e consolidata sotto le prescrizioni della lingua greca e, quindi, avvezza al discernimento retorico greco-romano acclimatata nel urbs. Così, se da una parte il suo verbo è greco, dall'altra la sua materia è romana.
Luciano, come Filostrato (170-250), Pausania (115-180) e anche Marco Aurelio (121-180), autore greco e capo da Roma, sono icone di questa produzione letteraria – avvalorando la tesi di Paul Veyne che l'Impero Romano sia in realtà greco-romano, poiché non c'è modo di sottrarre ad esso la tonalità ellenica e la sua colorazione, per così dire. Questo dato si poteva già cogliere nei versi di Orazio del I secolo: “Catturata la Grecia prese la falce vittoriosa e portò le arti al Lazio incolto”.
Il consolidamento delle lettere greche a Roma tra II e III secolo (tra Antonino e Severo) si confonde con una modalità artistica, filosofico-letteraria, che nasce sulla scia della critica di Platone (principalmente dal Sofista e Gorgia), in cui Filostrato in La vita dei sofisti dà il soprannome di Secondo Sofistico. Una delle sue caratteristiche principali, oltre allo stretto rapporto con i sofisti del tempo di Pericle, è che il suo agente deve dimostrare le sue capacità artistiche, sia performance oratorio, o per la sua destrezza nella gestione retorica dei generi. Un'altra questione che interessa al sofista è la piena consapevolezza del registro linguistico, soprattutto per quanto riguarda la virtù dell'elocuzione: puriti (purezza).
Se ci atteniamo a questi due elementi, abbiamo in Luciano un paradigma sofistico, poiché la sua opera è varia per generi ed è riconosciuto come adoratore del “buon greco”. Vale la pena ricordare la lezione di Fozio, patriarca e studioso bizantino del IX secolo, il quale afferma che l'espressione di Luciano è eccellente, avvalendosi di uno stile distintivo, attuale ed enfaticamente brillante. Si può anche dire che la somma di questi due elementi rappresenti retoricamente ciò che Barbara Cassin ha indicato come la pietra di paragone del Secondo Sofistico: il mimesi culturale. Dice: “L'ellenismo del primo sofistico (…) è legato all'universalità del diritto e dell'istituzione politica, mentre quello del secondo è legato, senza mediazioni e non a caso, a quello della cultura”.
il trattato Come scrivere la storia è un perfetto esempio di opera del Secondo Sofistico. Partendo da un genere letterario estremamente apprezzato dagli antichi: la storia, Luciano rivendica il suo posto come critico della storiografia dato che, secondo lui, gli autori di storia sono innumerevoli: “non c'è nessuno che non scriva storia. Anzi, per noi sono diventati tutti Tucidide, Erodoto e Senofonte”.
Il primo dato differenziato che vale la pena sottolineare in questo proemio è l'umorismo sottile e ironico di Luciano nel proporre il suo libretto di storia, che denota la sua posizione sistemica di non arrendersi al genere, diciamo così, puro. È piuttosto un difensore del plasma generico, che trapela incessantemente dalla sua produzione – vale la pena ricordare la “satira menippea” –, e che, nella sua opera didascalico-storiografica, cattura lo sguardo del lettore nelle prime righe, quando paragonando gli autori di storie, suoi contemporanei, ai pazienti di Abdera che, pieni di manie, si aggirano recitando versi tragici dopo essere stati colpiti da una febbre alta.
Pertanto, non propone una storia esemplare della guerra di Marco Aurelio contro i Parti, né una sua critica, scrivendo. Lui, come un pepedeuménos, prescrive A pharmakon per coloro che sono afflitti dal male morbo scrivere: “Quello che proporrò agli storici è una piccola esortazione e qualche consiglio, per partecipare alla costruzione della vostra opera, se non l'iscrizione, almeno toccando il mortaio con la punta della mano. dito".
L'opera, dunque, assume il discorso didascalico e, come tale, opera la prescrizione retorica che delimita il vizio affinché risalti la virtù. Questo binarismo, che accentua i vizi e chiarisce le virtù, punta dunque all'epidittico, ma come va letto sotto il prisma del consiglio, come indica il verbo dei (dovere) del titolo greco, Luciano dà evidenza di articolazione con il deliberativo – il cui bersaglio non è il boule o il senato, ma il gruppo dei “maniaci” delle lettere e dell'adulazione, decisi a fare gli storici. Questo segno plasmatico riappare e rafforza il sale dell'opera, la sua raffinatezza.
Tra i vizi da evitare, Luciano inizia la sua critica agli adulatori/narratori e, a tal fine, registra la distinzione di genere tra storia ed elogio: “la maggior parte delle persone, trascurando di narrare l'accaduto, si prende il tempo sia per lodare i comandanti e generali, elevando i propri in alto e svilendo oltre misura i nemici, per aver ignorato che l'istmo che delimita e separa la storia dall'encomio non è stretto, ma vi è un alto muro tra loro”.
Luciano va oltre, utilizza il paragone aristotelico tra poesia e storia per indicare che la seconda si occupa di ciò che fu e, la prima, di ciò che potrebbe essere. Sulla base di questa premessa, informa che la storia scritta da adulatori è più legata alla poesia ispirata che alla storia stessa. In questo caso introduce un elemento in più che può essere letto in chiave ironica, poiché l'idea di questo tipo di poesia è essenzialmente platonica, solo osservando il dialogo Puro.
Questo paragone circoscritto, cioè quello della poesia ispirata e della storiografia, per così dire, adulatoria o maniacale, è però interessante, poiché non si riferisce al passaggio da Poetica la teoria aristotelica alla quale, pur sottolineando le differenze tra arte poetica e arte storica, tratta sia la poesia che la storia come mimesis. Questa poesia a cui si riferisce Luciano è quella ispirata, costruita da un bardo, che è pieno di dio (entheos), funge solo da anello di una catena di ispirazione, interponendosi tra il divino e l'umano. Egli, poeta ispirato, non è dunque avvezzo ai tecnicismi necessari ed essenziali di un'arte poetica, così come non sono avvezzi a quelli della storia gli storici di cui si occupa Luciano. Così il suo trattato, letto come pharmakon, indica una soluzione al male incurabile di chi immagina che la scrittura non richieda ars et genium (arte e ingegno), ma solo “buona volontà”.
* Paulo Martins Docente di Lettere Classiche all'USP e autore di Elegia romana: costruzione ed effetto (Umaniti).
Riferimento
Luciano di Samosata. Come scrivere la storia. Belo Horizonte, Tessitura, 2009.