da RENATO DAGNINO*
Non si può tacere di fronte a quella che appare una direzione inadeguata allo sforzo di reindustrializzazione che il Paese richiede
Un collega coinvolto nella formulazione della Nuova Industria Brasiliana (NIB) mi ha rivolto due critiche giustificate articolo. Il primo, che non affronterò qui, era che ero più interessato a difendere la Reindustrializzazione Solidale, che ho dimostrato essere sia essenziale che complementare alla Reindustrializzazione Aziendale, che ad analizzare il NIB.
Il secondo, a cui mi riferisco ora, è che non sono riuscito a riconoscere che la proposta, poiché si basa su ciò che lui considera il meglio che esiste oggi al mondo in termini di politica industriale, è il meglio che possiamo fare.
Il fatto che a articolo di Mariana Mazzucato, una delle massime autorità interessate a riformare il capitalismo attraverso misure di politica industriale, essendo stato pubblicato accogliendo la proposta lo stesso giorno in cui è stata annunciata, è stata presa come prova di quanto sostenuto dalla collega.
Privilegiare, quindi, come filo argomentativo questo testo, a discapito di altre manifestazioni apparse prima e dopo questo illuminante articolo. Rivisita e intreccia didatticamente molti degli argomenti da lei sviluppati negli ultimi anni. E, più che sintetizzare la razionalità (ed evidenziare le presunte relazioni causali) su cui si basa il NIB e a cui hanno alluso i responsabili della sua formulazione, esso assomiglia ad una “tabella di marcia” che può servire a questo scopo.
Le condizioni al contorno del NIB
In quanto segue, menziono telegraficamente condizioni al contorno generiche che appaiono esplicitamente nella “copione” e, implicitamente, a ciò che lei indica altrove. E anche, in modo ripetuto e sistematico, dalla corrente che da più di tre decenni si propone distopicamente di emulare in America Latina esperienze di recuperando Europei. E, in particolare, quello del capitalismo sudcoreano fabbricato per servire da vetrina contro la nostra allora lotta antimperialista per il socialismo.
Questa corrente, che è diventata una sorta di prescrizione tradizionale per i paesi considerati emergenti, ha portato alla convivenza tra noi, a partire dall’inizio degli anni Novanta, dell’orientamento offerista lineare dello sviluppo scientifico e tecnologico del Rapporto Bush con quello innovazionista, derivato dalla narrativa neo-schumpeteriana emanata dalla propagazione idee neoliberiste.
Uno sguardo attento rivela che, nonostante le differenze che NIB presenta rispetto al passato, questa convivenza si percepisce chiaramente. Spiega anche perché, nell’attuale situazione di ridimensionamento delle agende politiche della sinistra, questa corrente è stata da essa sostenuta con l’obiettivo di espandere la propria governabilità.
Un punto centrale dell’analisi che ho svolto e che sintetizzo in questo testo è che la prevalenza delle condizioni al contorno (o precondizioni contestuali) di quelle esperienze non è stata adeguatamente verificata nel nostro contesto, da chi intende emularle. Sia le proposte di politica interna che quella esterna relative alla produzione e al consumo, che comprendono le politiche industriali e agricole, nonché la politica cognitiva – Istruzione e STI –, che costituiscono il focus analitico di questo testo, non sono state precedute da diagnosi soddisfacenti
Per raggiungere il mio obiettivo di garantire il successo della nostra reindustrializzazione, delineo queste condizioni al contorno. Si riferiscono a (1) l’esistenza di capacità o comportamenti prevedibili degli attori coinvolti in queste politiche (le aziende e i loro decisori appartenenti alla classe proprietaria, lo Stato e le sue tecnocrazie, gli istituti di insegnamento e di ricerca e la loro élite scientifica); (2) fatti o tendenze stilizzati deducibili dall'evoluzione del contesto produttivo, economico, sociale e politico brasiliano, identificandone l'aderenza a quelli osservati nelle esperienze che NIB intende emulare.
Possono essere espressi in modo molto succinto:
- Capacità di indurre investimenti pubblici nell'incremento degli investimenti produttivi privati (che, a giudicare dall'evidenza globale sulla quota di investimenti pubblici sul totale, si è rivelata, oltre che molto esigua, in diminuzione);
- Impatto quantitativo positivo sull’occupazione generata dall’azienda (che qui sono 37 sui 175 milioni di persone in età lavorativa, la maggioranza in condizioni di scarsa “occupabilità” e che non hanno mai avuto o avranno un contratto formale) dell’aumento della sua spesa per la produzione di beni e servizi;
- Impatto qualitativo positivo, sull’occupazione, della spesa delle imprese nei settori ad alta intensità tecnologica (contrariamente a quanto si vorrebbe emulare, quando qui l’occupazione nei segmenti intensivi con la digitalizzazione è aumentata, ciò ha comportato, in oltre il 90%, salari minimi fino a due );
- Impatto positivo, intersettoriale, sistemico e compensato, come avviene nelle esperienze che vogliamo emulare, delle tecnologie emergenti (quelle relative, ad esempio, all’“auto elettrica”, non “dialogano” e tenderanno a disarticolare segmenti importanti già colpiti dalla deindustrializzazione);
- Esistenza di due attori all'interno della classe proprietaria differenziati in relazione alle opzioni produttive e finanziarie (o inclini a comportamenti duali o, quantomeno, diacronici);
- Significativa capacità di ricerca e sviluppo nelle aziende locali e disponibilità alla ricerca e sviluppo nelle tecnologie emergenti;
- Elevata capacità del potenziale tecnico-scientifico locale di soddisfare gli interessi dell'azienda;
- Esistenza di imprese a capitale nazionale localizzate in settori ad alta intensità tecnologica (l'industrializzazione, a differenza di quanto avviene in quelle esperienze, e con numerose eccezioni che confermano la regola, le “riserva” alle multinazionali);
- Esistenza di imprese multinazionali rispondenti all'autorità statale (NIB, a differenza di quanto avviene in quelle esperienze e a giudicare da quanto propone, tenderà a mantenere privilegi sproporzionati per le multinazionali);
- Esistenza di imprese statali con capacità di ricerca e sviluppo o localizzate in settori ad alta intensità tecnologica (le successive ondate di privatizzazioni hanno indebolito questa condizione al contorno);
Anche se ritengo che nessuna di queste dieci condizioni al contorno necessarie per la riuscita attuazione di tali esperienze sia presente nel contesto brasiliano, i numeri 5, 6 e 7 meritano di essere analizzati in dettaglio per valutare le possibilità di successo del NIB. Procederò facendo riferimento a passaggi dell'articolo citato che, a mia discrezione, ritengo rilevanti per metterne in dubbio la validità.
La quinta condizione al contorno
Per illustrare l’“Esistenza di due attori all’interno della classe proprietaria differenziati in relazione alle opzioni produttive e finanziarie (o, almeno, di comportamenti duali o diacronici)”, ho selezionato il seguente passaggio:
“Un approccio orientato alla missione… è sostenuto dalla comprensione del ruolo dello Stato nel plasmare un’economia che, ex-ante, sia sostenibile e predistributiva. Ciò contrasta con l’idea più tradizionale, che relega il ruolo dello Stato alla correzione dei fallimenti del mercato… [… deve avere…] … il potenziale per trasformare le sfide… in opportunità di business [… per le aziende…] e in canali di investimento.”
Per commentarlo, devo riassumere qui il panorama che ho tracciato su questi due attori – impresa e Stato – nell’ambito del processo che qui analizzo.
La nostra traiettoria di sviluppo capitalistico periferico è caratterizzata da un’elevata propensione a estrarre plusvalore assoluto e non plusvalore relativo. Ciò che, con il consolidarsi del modo di produzione capitalistico, a causa dell’organizzazione del movimento operaio, costringe l’imprenditore a introdurre innovazioni al fine di sfruttare la prerogativa che il “suo” Stato gli dà di appropriarsi del conseguente aumento delle produttività del lavoro.
Siamo una società le cui origini sono la conquista dello spazio in cui viviamo attraverso l'appropriazione della terra indigena. Per il genocidio di, si stima, otto milioni di indigeni che, alla fine del XIX secolo, si erano ridotti a meno di 19mila. I conquistatori che giungevano qui producevano beni a bassissimo costo (dato che la manodopera era composta da schiavi e la terra non costava nulla) che vendevano a prezzi internazionali ai parenti rimasti in Europa.
Questa propensione a godere di enormi tassi di profitto continua ancora oggi. Gli schiavi portati dall'Africa, gli immigrati europei affamati che furono espulsi dalla prima rivoluzione industriale e gli abitanti del nord-est espropriati dalle loro terre furono coloro che resero possibile il processo di industrializzazione, che contestualizza quanto qui analizzato.
Questo altissimo tasso di profitto che spiega la nostra enorme disuguaglianza è una caratteristica strutturale della nostra formazione economico-sociale che condiziona il rapporto che abbiamo con la scienza, la tecnologia, la ricerca e l’innovazione. Questa elevata propensione ad estrarre plusvalore assoluto e non plusvalore relativo fa sì che il nostro imprenditore non abbia bisogno di innovare; fa soldi sfruttando la “sua” classe operaia in un altro modo.
Poiché abbiamo una classe immobiliare abituata ad un tasso di profitto elevato, qui abbiamo un tasso di interesse elevato. Se è la più grande del mondo e non c’è nessuno che produce nemmeno uno spillo, è perché il nostro tasso di profitto deve essere il più alto del mondo. Ed è proprio questo rapporto causale, dal profitto all’interesse, e non viceversa, che ci permette di considerare un errore pensare all’esistenza di quel comportamento duale o diacronico che la condizione al contorno e la citazione da me scelta presuppongono.
Un altro punto da evidenziare è la domanda cognitiva condizionata dal nostro imitativo mercato periferico. Richiede beni e servizi già prodotti e, quindi, già ingegnerizzati al Nord. Come sappiamo noi del settore, “coloro a cui piace fare ricerca sono ricercatori; A un uomo d’affari piace (e deve) fare soldi”. E per fare soldi tende a importare conoscenza, tende a importare tecnologia perché questo è due volte il comportamento economicamente più razionale. Questa esigenza cognitiva del mercato imitativo esacerba, aggrava, quella scarsa propensione ad estrarre plusvalore relativo dalla nostra comunità imprenditoriale.
Vale anche la pena ricordare che la nostra industrializzazione, ancor prima che avvenisse attraverso la sostituzione delle importazioni, è stata fortemente sostenuta dal capitale straniero. Il fatto che il nostro mercato gli sia stato riservato è un terzo importante elemento che porta a comportamenti non innovativi e, soprattutto, avversi alla ricerca e sviluppo nel nostro ambiente imprenditoriale. È interessante notare che una multinazionale, che nel suo paese d’origine è innovativa, fa ricerca, ecc., quando si stabilisce in Brasile si dimentica addirittura di aver mai fatto questo…
Concludo la considerazione di questa condizione, che riguarda il comportamento atteso dell'attore aziendale, la cui importanza è fondamentale per il successo del NIB, riferendosi ad una questione più complessiva; a qualcosa che considero un difetto fondamentale del processo che l’ha originato.
Non è iniziato con un momento di riflessione all’interno degli organismi democratici, formativi e partecipativi a disposizione del partito di maggioranza a sinistra, che deve precedere, per garantirne il successo, i momenti di formulazione, negoziazione e attuazione delle politiche.
La critica che faccio al mancato rispetto di questo percorso, che è in definitiva ciò che anima questo testo, non sottovaluta la situazione in cui l’estrema destra fascista ci attacca ogni giorno con il complotto del golpe e la destra sta delineando un contenuto e forma antirepubblicani attraverso mezzi parlamentari spuri per portare avanti l'elaborazione delle politiche pubbliche. Al contrario, la mia critica – fraterna e costruttiva – cerca, attraverso la riflessione che propone, di evitare il declassamento anticipato, limitando la discussione, dell’agenda programmatica che difendiamo.
Credo che il rischio che corro, che questo testo venga assimilato ad una posizione immobilista, regressiva e reazionaria, sia minore di quello di restare in silenzio di fronte a quella che mi sembra una direzione inadeguata allo sforzo di reindustrializzazione che il Paese sta portando avanti. richieste. Soprattutto considerando che in questi casi sono state formulate alternative non esclusive al NIB, come la Reindustrializzazione Solidale.
In sintesi, e per rendere ancora più chiaro il punto che pongo, mi chiedo: è legittimo pensare che proprio attraverso la riduzione del tasso di interesse si possa incentivare la classe proprietaria e le sue imprese a destinare risorse alla produzione? e non alla speculazione?
Che offrirà alla classe immobiliare l’1% del Pil annuo promesso dalla NIB – 300 miliardi in tre anni –, magro rispetto al 6% del debito pubblico, al 10% dell’evasione fiscale, al 3% della corruzione, al Il 5% delle esenzioni fiscali e delle esenzioni su profitti, dividendi, esportazioni, proprietà e oltre il 15% degli acquisti pubblici – che si impegnerà in un processo di reindustrializzazione?
Che esso, che ha spostato il suo reddito e la sua ricchezza dall’industria alla più redditizia riprimarizzazione dell’agroindustria e dell’estrazione mineraria, alla speculazione immobiliare e finanziaria all’interno e all’esterno del paese, provocando la deindustrializzazione di cui ha beneficiato, si sommerà a una “… missione di strategia industriale -driven [… che] mira ad allineare gli obiettivi sociali, ambientali ed economici [… e sfruttare] il potenziale per trasformare le sfide… in opportunità di business e canali di investimento”?
Ritornando al passato a livello riflessivo, mi chiedo, che senso ha cercare di reificare l’attore di cui i partiti comunisti latinoamericani degli anni Sessanta credevano capace, allontanandosi dal feudalesimo, guidando la rivoluzione democratico-borghese antimperialista; un attore che conosciamo da tempo non soddisfa i criteri concettuali della borghesia o della nazionalità?
Oppure, nell’ambito di un’economia estremamente ingiusta, minacciata dal punto di vista ambientale e sempre più globalizzata, resuscitare un ipotetico imprenditore nazionale produttivo e non finanziarizzato per, abbassando il nostro status di nazione e sfruttando il nostro potenziale umano, inserirlo storicamente e politicamente narrazioni decontestualizzate che possono peggiorare queste condizioni?
Ha senso rimanere intrappolati nell’inefficace ma persistente trappola socialdemocratica di cercare di rendere l’economia e lo Stato capitalisti più efficienti per finanziare le politiche di socializzazione? E, allo stesso tempo, continuare a sprecare il potenziale di coloro che chiedono uno stile di sviluppo più giusto e sostenibile e che sembrano essere, ormai, nel breve termine, gli unici attori in grado di garantire la governabilità di cui l’attuale governo ha bisogno?
La sesta condizione al contorno
Adottando lo stesso procedimento, ma da qui in poi in maniera molto più sintetica, faccio riferimento alla “Notevole capacità di R&S nelle imprese locali e disponibilità alla R&S nelle tecnologie emergenti”, e seleziono il seguente passaggio dell’articolo di Mazzucato:
“Un simile approccio […per missioni] ha il potenziale per generare un effetto moltiplicatore, poiché ogni reale investito dal governo porta un impatto amplificato sul PIL. La missione Apollo... ha generato, per ogni dollaro investito, un ritorno compreso tra 5 e 7 dollari in termini economici. i problemi."
Una delle ispirazioni teoriche ricorrenti della corrente che propone il NIB si basa sui Cicli di Kondratieff-Schumpeter. Propongono l’esistenza di una relazione causale considerata deterministica e messa in discussione da decenni nel campo della scienza, della tecnologia e degli studi sociali tra l’introduzione di innovazioni radicali e il tasso di crescita economica. Cercano addirittura di prescrivere, come vogliono coloro che formulano il NIB, modi di organizzare il nostro capitalismo periferico.
Secondo loro oggi assisteremmo alla Quarta Rivoluzione Industriale o Industria 4.0 nel mondo. Oppure, secondo un’altra interpretazione, che menziona l’esistenza di cinque ondate precedenti, staremmo entrando in una sesta, della Sostenibilità, ovvero dell’ESG (Environmental, Social and Governance), che suggerisce a tutti un futuro promettente. Come risulta evidente dalla lettura del NIB, uno degli elementi centrali che permetterebbero ai paesi di “surfare” questa sesta ondata è la loro capacità di generare la conoscenza che ciò richiede.
L'affermazione contenuta nell'articolo secondo cui “[…] gli investimenti delle imprese nell'innovazione, che in Brasile sono storicamente bassi” ha un certo significato antiquato. Ancor prima che si disponesse di prove empiriche al riguardo, le analisi dei ricercatori latinoamericani di Scienze, Tecnologie e Società sulla scarsa propensione dell'azienda locale alla R&S non sono mai state messe in discussione.
Poiché ritengo innocuo ripetere i risultati di queste analisi di cui i decisori non hanno tenuto conto, evidenzio solo tre elementi di prova. Il primo è contrario all’aspettativa di un impatto economico positivo implicita nella mia citazione dell’articolo. Secondo PINTEC la risposta delle imprese innovative allo stanziamento di risorse pubbliche per la ricerca e lo sviluppo delle imprese non è stata solo sprecata. Ha portato ad una relativa diminuzione delle proprie spese, riproducendo il fenomeno dell' spiazzamento ciò avviene in altri settori delle politiche pubbliche che coinvolgono le imprese.
Il secondo, proveniente dalla stessa fonte, indica che tra le cinque attività innovative elencate dal Manuale di Oslo, che comprendono ovviamente la R&S interna, l'80% di quelle aziende dichiara di optare sistematicamente per l'acquisizione di macchinari e attrezzature.
Il terzo è ancora più travolgente. Tra il 2006 e il 2008, quando l’economia era in “boom” e gli imprenditori guadagnavano un sacco di soldi, la tendenza innovatrice prevedeva che assumessero maestri e dottori che ci eravamo diligentemente dedicati alla formazione nelle scienze dure per più di cinque decenni. Ci laureavamo, quindi, secondo i canoni delle università dei paesi centrali, trentamila all'anno: novantamila in tre anni. Se fossero negli Usa, sarebbero circa sessantamila assunti per fare ricerca e sviluppo nelle aziende; Dopotutto, è ciò per cui sono addestrati in tutto il mondo.
Il fatto che, secondo PINTEC, solo sessantotto siano stati assunti per svolgere attività di ricerca e sviluppo nelle nostre aziende innovative, e che preferiscano innovare acquisendo conoscenze esistenti, dovrebbe creare una profonda crisi esistenziale tra i policy maker cognitivi. Invece di formare i ricercatori, dovrebbero prendere una scorciatoia spinosa e dolorosa: formare buoni acquirenti di conoscenza.
Ancor prima di procedere, vale la pena notare che una politica che mira a rinnovare il parco industriale attraverso l’incorporazione di nuove tecnologie che conducono ad un circolo virtuoso di crescita economica dovrebbe implicare un cambiamento considerevole nella politica cognitiva.
La settima condizione al contorno
Considerare l'“elevata capacità del potenziale tecnico-scientifico locale di soddisfare l'interesse aziendale” esistente nelle esperienze che NIB intende emulare mi porterebbe ancora una volta a riassumere una panoramica retrospettiva. L’impossibilità di farlo qui mi costringe a sottolineare alcune delle sue conclusioni.
Comincio riferendomi all’attore egemonico della nostra politica cognitiva. L’élite della comunità scientifica, coltivata nell’enclave che è sempre stata la nostra università, irradia il suo modello sbagliato di politica cognitiva nell’ambito di una tecnocrazia sempre più influente nell’elaborazione delle politiche pubbliche di sinistra.
Contribuendo a cooptare altri attori, legittimando questa egemonia e questo modello nella società, questa tecnocrazia rafforza il mantenimento di programmi di insegnamento pubblico, ricerca e divulgazione coerenti con i valori e gli interessi dell’élite scientifica. Nonostante siano sempre più riconosciuti come mimetici, superati e sfavorevoli alla costruzione di uno scenario di giustizia e responsabilità ambientale, la loro coerenza con il dogma trans-ideologico della neutralità della tecnoscienza capitalista fa sì che questo modello venga mantenuto generazionalmente. Vengono così riprodotte le normative innovatrici e l’abbassamento delle agende politiche di sinistra diventa naturale.
L'influenza di questo coalizione politica nel formulare il politica di NIB è evidente. La sua capacità di cooptare, attraverso l'arena del politica costruito con la rivitalizzazione del Consiglio per lo sviluppo industriale, attori opportunisti, come quelli che stanno manifestando nell’ambiente imprenditoriale, e quelli all’interno della comunità di ricerca e della “loro” tecnocrazia, propongono politiche simboliche volte a ottenere benefici immateriali.
Tutto ciò non toglie che l’attività derivata dall’agenda di insegnamento, ricerca e divulgazione definita dalle élite scientifiche abbia portato alla formazione di persone che potrebbero, in uno scenario diverso da quello che NIB intende costruire, ammorbidire le condizioni strutturali imposto dal nostro stile di sviluppo.
Tuttavia, consapevole di questa realtà, e citando una presunta arretratezza del mondo imprenditoriale locale e la scarsità di politiche in grado di generare un “ambiente favorevole all’innovazione”, l’élite scientifica ha commesso due errori fondamentali.
Il primo è dovuto al modo in cui il suo modello di politica cognitiva “intende” il rapporto università-impresa nei paesi centrali di cui vuole emulare il virtuosismo. La sua percezione è che la bassa propensione della nostra azienda alla ricerca e sviluppo sia dovuta ad un deficit cognitivo e non ad una condizione strutturale del nostro stile di sviluppo. Di conseguenza, questa relazione è modellata come se la determinante del comportamento innovativo e della competitività delle imprese dei paesi centrali fosse dovuta al trasferimento all’impresa della conoscenza disincarnata prodotta dalla ricerca universitaria.
Questo modello impedisce di comprendere che l’azienda assume ricercatori con formazione universitaria, che portano con sé conoscenze su come condurre la ricerca – cosa che, come sappiamo, non avviene qui –, il che spiega il comportamento che vogliono emulare. Come accade in altre situazioni in cui l’idealizzazione della realtà oscura aspetti scomodi di questa stessa realtà, permane una bizzarra mancanza di conoscenza di analisi e di evidenze empiriche su come – lì e qui – avviene il rapporto università-azienda.
Il fatto che solo l’1% delle risorse investite dall’azienda nordamericana nella ricerca sia affidato a università e istituti di ricerca dovrebbe essere sufficiente affinché l’élite scientifica cambi la propria politica. In particolare, dovrebbe rivedere la propria azione nei confronti delle NIT, degli incubatori di imprese, degli uffici brevetti e di altri assetti istituzionali di natura chiaramente aziendale e scarsamente aderenti alla missione degli istituti di insegnamento e di ricerca. E, inoltre, considerando che le risorse provenienti dai contratti di ricerca con l’azienda rappresentano guarda caso anche solo l’1% del costo dell’università nordamericana, non vorremmo continuare a ripetere l’errore secondo cui la nostra università pubblica potrebbe finire per finanziarsi in modo significativo attraverso il vendita di servizi all'azienda.
Il secondo errore, associato al precedente, si riferisce alla capacità di identificazione dei latinoamericani ante litteram, alla periferia, aspetti del capitalismo che vengono rivelati solo in seguito dai ricercatori del centro. Si tratta di eccezioni alla regola della sottoutilizzazione del potenziale tecnico-scientifico locale.
Quando ci fu la peste del caffè qui a Campinas, alla fine del XIX secolo, chi lo sapeva? Nessuno. Così abbiamo creato l'Istituto Agronomico. E quando è comparsa la febbre gialla? Abbiamo creato quella che oggi è Fiocruz. Quando i militari sono tornati dalla seconda guerra mondiale con la voglia di un aereo quando noi non producevamo nemmeno automobili? Abbiamo creato CTA, ITA ed Embraer. Quando l’agroindustria voleva piantare la soia nel cerrado, chi lo sapeva? Abbiamo creato Embrapa. Quando il petrolio brasiliano è apparso in acque profonde, siamo diventati leader mondiali. In tutto il mondo, e anche in America Latina o in Brasile, quando un attore con un importante potere economico o politico ha un progetto politico intensivo di conoscenze nuove o non ottenibili, può, attraverso lo Stato, soddisfare questa domanda cognitiva, questa tecno-tecnologia. domanda scientifica.
Conclusione
Ora, per concludere, cito ancora Mariana Mazzucato:
“[…] Il Brasile potrebbe essere sulla buona strada per dimostrare al mondo cosa è necessario per portare la sostenibilità e l’inclusione al centro della strategia industriale. Per fare ciò, tuttavia, dovrà evitare la tentazione di moderare la capacità di trasformazione dello Stato… garantendo… che le voci di coloro che prima erano rimasti indietro siano al tavolo per aiutare a definire una nuova direzione radicale per la crescita economica”.
Sperando di essere riuscito a codificare queste voci in un linguaggio che possa essere compreso da coloro che stanno decidendo la nostra reindustrializzazione e sperando di contribuire a quella che altrove ho chiamato la transizione dallo Stato ereditario allo Stato necessario, saluto il mio partito di sinistra collega a cui ho dedicato questo testo.
* Renato Dagnino È professore presso il Dipartimento di politica scientifica e tecnologica di Unicamp. Autore, tra gli altri libri, di Tecnoscienza solidale, un manuale strategico (lotte anticapitali).
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