da AIRTON PASCHOA*
Considerazioni sul terzo cortometraggio diretto da Joaquim Pedro de Andrade.
“Memorie di un passato, / reliquie della vecchia Rio / ecco cosa ricorderemo (…) / Memorie di un passato / della vecchia Rio che non torna più” [Di Moacyr Soares Pereira e João Batista da Silva, samba cantata nel film Fiume, quaranta gradi]
Il tamburello, che di solito dà il via alla baldoria, segna anche il rovescio: “Quando si avvicina il Carnevale, i tamburelli non hanno prezzo. Nell'impossibilità di un materiale migliore, i tamburelli sono realizzati con pelle di gatto. a queste parole ancora di Joaquim Pedro, tra i piani per una sfilata di carnevale sul viale, i bambini della collina sembrano abbandonare i loro compiti quotidiani, lustrascarpe e venditori di noccioline, e dedicarsi temporaneamente alla caccia ai gatti, più redditizia in tempi di crisi degli approvvigionamenti.
Dei cinque ragazzi, braccati a turno dopo il furto di gatti domestici, solo uno, che ha rubato un gatto alla signora, riesce. Successo relativo, è vero, quella delusione non tarderà ad arrivare. Rifugiato in cima alla collina, l'idillio con il bellissimo angora bianco è di breve durata. Costretto dalla necessità a separarsi dall'amico appena conquistato, il ragazzo lo consegna al “liutaio” del tamburello, riceve il denaro e scende la collina, all'indietro, inghiottendo una lacrima involontaria.
Ecco il riassunto generale di Coro de Gato, del 1961, terzo cortometraggio di Joaquim Pedro de Andrade, suo esordio nel campo della fiction. Melodramma? Ci sarebbero elementi, figli, povertà, affetti impossibili, separazioni dolorose, ma il regista ha saputo evitare la trappola del sentimentalismo. Non è bastata la discrezione nel filmare le dimissioni del ragazzo, la cui reazione è come colta di nascosto, di spalle, perché è così che lo “vediamo”, una sola volta, asciugarsi il naso con il braccio, — la canzone finale, in crescendo , si impegna a smorzare qualsiasi singhiozzo ignaro.,
Fondendo melodicamente fine e inizio, il film chiude il duro cerchio in cui si muove la sopravvivenza dei più poveri, senza lasciarsi sopraffare da sentimenti pietosi, naturali, per così dire, al cuore umano, né alzare un grido di rivolta o un grido di giustizia, ugualmente cara ai nostri cuori. Il ragazzo scende dalla collina, ingoiando il suo singhiozzo, inghiottito dalla Città Meravigliosa, questa volta senza la vista da cartolina in fondo alla bellissima baia, coperta com'è dal muro di palazzi davanti a noi, una sorta di squadratura del cerchio della miseria, e che la macchina da presa, semiimmobilizzata, minaccia di lasciarsi mettere a fuoco, abbandonata quasi, forse scoraggiata, come gli spettatori chissà, con la brutalità della vita, ma affrettata a chiudere l'episodio prima dell'imminenza del melodramma in vista, come risvegliato dalla crescente partitura musicale, dissipando così ogni nebbia di malinconia borghese. Miagolii a parte, la città è in festa e il Carnevale continua...
Né melodrammatico né malinconico, il film è persino umoristico nel suo nucleo. Il montaggio verticale, del suono sull'immagine, aiuta a caratterizzare comicamente i personaggi. Nel ristorante popolare, dove uno dei ragazzi gioca con un gatto, i gesti comici, al ritmo di una fisarmonica di valzer francese, ricordano la commedia muta, tale è la stilizzazione delle interpretazioni, con il suo cameriere ficcanaso e certe tipiche tipo tossicodipendenti, irascibili, schizzinosi al pasto, popolari sofisticati blasé. Allo stesso modo nella casa ricca, con i suoi tipi fini e simili, l'autista Rodolfo, in piedi, rigido e fiero, posa accanto alla macchina, mentre il proprietario borghese, giovialmente americanizzato dai vestiti alla musica (una bossa nova orchestrata), rinfrescarsi in giardino. C'era il vigile del parco, commosso dal suono di una scatola e dall'ottavino delle parate militari, che tendeva un'imboscata a due ragazzi che, a loro volta, toccavano i vari gatti che nutrivano il latte della bontà di un'anziana signora. Ad accompagnare la brava signora accovacciata, un vecchio violino disorganizzato (un intestino anziano? gatti che si affilano le unghie, graffiano le corde?)…
A conti fatti però, e anche considerando la muta comicità del nucleo (circa 5'30”, quasi la metà del cortometraggio, dunque, con i suoi 12 minuti), ovvero i gatti a caccia dei ragazzi ( 3'30”) e la caccia di questi da parte degli adulti (2′), il tutto al suono del timpano e del corno, prevale il tono grave del film. L'apertura e la fine, in particolare, mettono a tacere il mezzo sorriso che la situazione del tom-and-jerry provoca, con i suoi capovolgimenti di cacciato e cacciatore. La tonalità è seria, perché la sua ambizione è realistica,, documentario, volendo essere rappresentativo della realtà sociale del paese. I panorami da cartolina restano sullo sfondo, colti ogni tanto, ma è la collina che emerge per prima. Semplicemente non emerge aiutato dai classici della povertà nazionale, della fame, della disoccupazione, dello sfratto e della nota coorte di disgrazie. Anche un po' pittoresco, l'articolo ha curiosamente molto "alienato", come si diceva all'epoca., Del resto, con tanti protagonisti di peso che popolano le nostre colline, perché tanti tamburelli d'acqua, pelle di gatto? E poi, detto tra noi, conoscendo il gusto nazionale (carattere? tara?) per gli schiavi, la cosa non è finita per essere uno scherzo?
Verrebbe da chiedersi, infatti, se, alla luce delle sue aspirazioni realistiche, fosse davvero un materiale adeguato, e come si potesse udire — ce lo immaginiamo — la replica a bruciapelo, però sussurrata, come era uso del regista: ma no essere, per “alienato”, proprio la materia idonea all'esame della realtà? a una sottile critica dell'“alienazione”? esponendo il rovescio della festa popolare per eccellenza? il sangue e le lacrime, le viscere ei nervi, il cuoio, insomma di cosa sono fatti i vostri strumenti?... “Strumenti”?! Ah, e questo spiegherebbe anche quell'inquadratura “magica”, la spettacolare metamorfosi alla fine dell'idillio, il momento in cui, rattristato, guardandolo a lungo, si rende conto che il cibo non basta per due… quel ragazzo faccia… quegli occhi tirati, i capelli a punta, spazzolati, quasi pelosi… Faccia da gatto?
In altre parole, non solo suscettibile di esame critico, il soggetto era forse anche propizio a una trattazione non alienante. L'evento poteva essere straordinario, un po' folcloristico, ma non mancava di presentarsi ordinariamente ad ogni carnevale, ad ogni penuria di mercato. Nel nostro ordine sociale i gatti a volte diventano tamburelli, qual è il dramma? come a volte vengono scuoiati i bambini (sempre in senso figurato, s'intende... almeno quarant'anni fa, al tempo delle reliquie).
Ma non era tutto. Il regista era sedotto anche dalla materia minore, dall'umile quotidianità, dalla poesia stessa della quotidianità, che aveva imparato dal Poeta del Castello, e che certamente sentiva presente nel variopinto carnevale locale della caccia al gatto. Ad accentuare ulteriormente la sua inclinazione lirica, probabilmente aveva già una certa tradizione neorealista,, con la sua poetica dell'umiltà, la sua preoccupazione sociale, i suoi bambini vittime di guerra, insieme alle sue forme di produzione a buon mercato, precarie (umili?), che hanno così aperto la strada ai nuovi cinema del Terzo Mondo. A riprova della feconda comunione di poesia e politica, incarnata in un prestigioso cinema internazionale, era da poco germogliato in patria un frutto famoso, perché esteticamente valido ed economicamente valido, e la cui sola esistenza era in grado di animare indubbiamente iniziative connesse.
Come nel primo film di Nelson Pereira dos Santos, Fiume, quaranta gradi,, realizzato qualche anno prima, nel 1955, nel cortometraggio di Joaquim Pedro non mancano scene di vita popolare in collina, il sali e scendi con una tanica d'acqua in testa, il fresco nella città dei ragazzi della collina, la routine dei poveri, infine, nella lotta per la sopravvivenza nelle condizioni avverse che tutti più o meno conosciamo o possiamo immaginare. Non manca evidentemente l'apprendimento che impone necessità ai sogni e agli affetti dell'infanzia. L'episodio, nel film di Nelson Pereira, dell'amore di un ragazzo per un animale (Catarina, la lucertola che viveva nella tasca di Paulinho e finì per essere mangiata da un serpente allo zoo), diventa, per così dire, centrale per Coro de Gato, una sorta di punto di fuga verso cui convergono tutti i movimenti, dai piedi agli occhi. Anche alcuni difetti del film di Nelson Pereira sono stati, come contrabbando, scambiati. La caratterizzazione un po' caricaturale è stata lasciata meno per la borghesia, la cui figura convince, e più per i tipi popolari, il cameriere, l'autista, la guardia, i clienti del ristorante.
La differenza è che, un po' perché è breve, la cui durata aiuta a prevenire le dispersioni, un po' perché è diverso il regista, la cui meticolosità è attestata da tante testimonianze, non bastava la faticosa preelaborazione della sua opera, la la differenza, infine, è che, invece della generale gratuità delle articolazioni, del montaggio naturalistico, teso ad attenuare gli effetti della discontinuità delle inquadrature, invece della dilatazione degli episodi, presente nel primo film di Nelson Pereira,, - Coro de Gato si presenta tutto legato insieme, tutto articolato, calcolato quasi cronometricamente e simmetricamente, mostrando la spiccata sfaccettatura razionalista di Joaquim Pedro, il cui “costruttivismo”, per così dire, era già stato colto nel primo cortometraggio, soprattutto nel suo Popular Flag.,
Il montaggio, ispirato a Eisenstein,, se non discorsivo, figurativo, intellettuale, concettuale, dialettico, ideologico,, o come lo si chiami, si confronta con i piani, alludendo alle lotte sociali in corso, il cui sviluppo delineava all'orizzonte – almeno – l'effettiva democratizzazione del Paese, per non parlare dei sogni più generosi, o deliranti, a seconda del punto di vista . L'atmosfera contagiosa, se eccessiva, soprattutto se vista in tempi di ritiro sociale, non era affatto irragionevole, come ricorda uno dei suoi protagonisti., La lotta sociale era andata crescendo dal decennio precedente, sotto l'egida del nazional-sviluppismo, e con essa le aspettative, la convinzione, la certezza che essa è, nei primi anni '60, nella rivoluzione brasiliana. Non sarebbe quindi irragionevole ispirarsi anche a una prassi cinematografica che ha convertito la lotta di classe in una lotta di piani.
Così, dopo essere passati dal gatto povero, adagiato su un tamburo, al gatto ricco, adagiato sull'erba, entrambi minacciati dalla mancanza di tamburelli in piazza, lo stesso si fa con i loro padroni: dal baraccone sulla collina, costruendo il suo recinto, martellandolo vigorosamente, tagliandolo a close in ricaça bevendo ristoro… L'“idea” è chiara: la gente che lavora sodo, si allena, suda, e la borghesia che si rifocilla! Dal volto spalancato del ragazzo al cancello, che ammira il bellissimo angora bianco della signora, stacchiamo su un registratore di cassa che si apre rumorosamente e su un ristorante. Il pensiero del ragazzo è indubbiamente suggerito, calcolando il valore del prezioso felino e cosa potrebbe farne, un buon pasto, per esempio. Ma l'intera sequenza del ristorante non farebbe scattare più "idee"? Mentre la gente muore di fame e la borghesia si annoia al sole ogni giorno, cosa fa la classe media? non ti ammazzi di consumare, vorace, quando non esistenzializzi, nausea, e muori di fame, inappetenza, sospiri chissà degli altri caffè?
Ideologico in senso politico, ma anche montaggio ideologico in senso puramente concettuale. Nella corsa dei ragazzi, la cattura di un pollo volante, spaventato dalla folla sulla collina, indica che non saranno catturati, ovviamente, "magri" come sono, come i polli. Ideologico in entrambe le accezioni, concettuale e politico, il corto propone apertamente la contaminazione simbolica tra gatti e bambini, che a volte cacciano, a volte sono cacciati. Dopo l'intervento del regista, per spiegare al pubblico internazionale la logica economica della caccia (fossero volpi...), un gatto nero si rannicchia, come spaventato dal suono del suo timpano, annunciando la caccia, piano subito sostituito da uno dei ragazzi. , quello rimasto sulla collina, che si muove come un gatto, pronto a cacciare. Ancora più felino, il bellissimo angora esce lentamente dall'inquadratura, lasciando al suo posto esatto (con la macchina da presa che si alza e si apre) il ragazzo al cancello della magione, tendendogli un'imboscata a bocca aperta… Un cuoio da bambino?
Quando non esprimono “idee” direttamente deducibili dallo shock, le inquadrature ironizzano, satirizzano, addirittura scioccano, nel loro montaggio interno. In apertura del film, descrivendo l'alba sulla collina, un ragazzo solleva con cautela una tanica d'acqua sulla testa, poi ne passa un'altra, come in continuità, portando l'acqua verso casa. Marca lattina: “Sol Levante”. In fondo alla collina, dall'angolo del residente depredato ma solidale, osserviamo la madame dall'alto, circondata dall'autista, dal cameriere e dal poliziotto: la borghesia e i suoi lacchè? Nell'idillio della collina, il ragazzo, sdraiato, giocando con il gatto, lo porta in cima e lo scuote... Mi esercito per il tamburello? Macabro sarcasmo?
Quando non sono chiari o completamente chiariti, certi piani danno luogo a ogni sorta di speculazione. In un'inquadratura, prima di uscire di casa per venderla, un ragazzo, alzando la lattina di noccioline, ci soffia sopra il braciere, tenendola calda, spiata dalla luna in alto, alla nostra sinistra. Inquadrature successive, un artista carnevalesco suona il tamburello, con la stessa luna in alto, solo a destra prima, poi a sinistra, come se prendesse il posto del ragazzo… Puro gusto per la simmetria? Lirismo ironico? con la luna lassù, in procinto di conquistare (ricordate l'Uomo e la sua epopea spaziale?), e quaggiù, i nostri problemi così meschini, così pedonali, così terrestri? Oppure un'allusione al futuro dei bambini, in una nuova continuità simbolica, la loro probabile “ascensione” sociale? Ora, venditore di noccioline, cacciatore di gatti, domani, a Dio piacendo, venditore di samba, suonatore di tamburello...
Il cinema stesso non verrebbe sorvolato nella sequenza centrale della doppia caccia? La linea alla fine della quale arriva una sardina che attira il gatto dalla collina, si spezza quando il ragazzo tira più forte. Subito dopo, il proprietario, impegnato nella costruzione della recinzione, si rompe un pezzo di legno sul ginocchio, sulla coscia... Clacket, che segnala l'inizio dell'inseguimento? Tanto più se si tiene conto, come abbiamo appreso, che il cinema classico, narrativo, è praticamente nato riuscendo ad esprimere la simultaneità dell'azione, proprio come la sequenza dell'inseguimento che dà inizio, ad esempio, al battito del ciak..., Ironia? Autoironia? Parodia? pastiche? Il corto racconterebbe allora, brevemente per forza, la storia del cinema, nei suoi momenti decisivi: dal muto al parlato, passando per la culla classica e il neorealismo, senza dimenticare la buona tradizione del cinema rivoluzionario di Eisenstein?... Postmodernista , Gioacchino , ante litteram? Allettante, non c'è dubbio. E se pensassimo che sta costruendo la storia del cinema, da un punto di vista eisensteiniano, rendendo chiara la sua scelta? Ancora più allettante, immaginate, vedere il film come un manifesto sibillino (nonostante la contraddizione in termini) proprio agli albori del Cinema Novo! In questo caso, fino al numero 55 della casa del soggetto che corre alle urla di “prendilo! maniglia!" del cameriere e attraverso il cancello trattiene la borsa che il ragazzo sta portando, facendogli perdere il prezioso carico, anche quel numero non numera l'anno d'esordio di Fiume, quaranta gradi, 1955, decisivo per il nuovo cinema nazionale?
Allontaniamo le tentazioni, tanto più quando conducono a cerchie sempre più ristrette. Il “trattamento classico del montaggio parallelo”, come afferma nella lettera a Bernardet,, ha cercato di declinare il suo uso naturale e naturalistico. Al posto dell'eroe individuale, ha preparato la sequenza finale, con l'ulteriore vantaggio di mantenere la "ragazza intera" come eroe collettivo. Per ironia della sorte, lo stesso modesto sistema di produzione, definito neorealista, se non semplicemente realistico per i paesi periferici, lo stesso sistema che lo ha incoraggiato a fare il film, e forse a iniziare una nuova carriera, lasciando il padre e Fisica a guardare le navi (e candele), ha alterato il tratto originario della sceneggiatura, mutandone la direzione collettivista (brechtiana?), più compatibile in linea di principio, a suo avviso, con le sue “convinzioni politiche” e con la sua estetica. Insaziabile, tuttavia, la fortuna a volte tende ad essere sarcastica. Tanto più con quelli lirici, poveri, contumaci, ciclici, critici che sono. Sistema di produzione a parte, la contraddizione tra eroe collettivo ed eroe individuale era radicata nel cuore della sceneggiatura., Era già previsto isolare dal gruppo un ragazzo e il gatto, indipendentemente dal fine (venderlo o cacciarlo via)., Una volta isolati, ovviamente si è imposta la fine, con il diritto a tutto, l'idillio e il martirio.
In ogni caso, nonostante il piccolo eroe individualizzato, Coro de Gato canta, nel suo modo discreto, la canzone del suo popolo. Il “personaggio documentaristico” di cui si parla nella lettera a Bernardet, prima di essere drammatico, o melodrammatico, contempla non solo il lirico, ma anche l'epico. Qui l'inno collettivo. Perché l'uomo sulla collina è forte. Mentre un altro ragazzo, probabilmente del quartiere, gioca con il suo gatto in giardino, il proprietario, segando legna su legna, costruisce dignitosamente la sua baracca. E non solo forte ma laboriosa e solidale. Corre dietro al ragazzo che ha cercato di rubargli il gatto, si ferma ai piedi della collina, in posa di sfida agli inseguitori dei quattro ragazzi che stavano correndo su per la collina in cerca di rifugio e si è imbattuto in quello che stava scappando giù per la collina. Inutile dire che nessuno osava andare oltre i limiti della civiltà borghese, né il cameriere, né l'autista, che manda la padrona a chiedere alla persona giusta, e provvidenzialmente al suo fianco — il poliziotto, che finge di essere invitato a prendere il suo turno e rifiuta le istanze dell'afflitta signora. Del resto, certamente tutti tenevano d'occhio i vari piani, come noi, di quel mondo inaccessibile, sospeso misteriosamente sopra l'asfalto, con i suoi vicoli scoscesi e le scalinate pericolose, capaci di inibire il piano dei navigatori più spericolati. Ma non solo l'uomo della collina è forte. Le donne sono anche, e dignitose, e laboriose, perfezionando le noccioline tostate, così come madri amorevoli, abbottonando la povera camicia del figlio, prima di mandarlo inevitabilmente fuori nella notte ad affrontare il freddo e l'umore non molto più caldo, di clienti rari .
Ma, a dire il vero, anche omaggiando il coro popolare o populista, il canto lavare a secco di Joaquim Pedro, appena innaffiato da una lacrima, non raggiunse mai altisonanze scomode. In questo senso, per contrasto, è istruttivo che l'anno successivo, nel 1962, fu inserito in un lungometraggio che prese il titolo di Cinco Vezès Favela. La collezione, ideata dal Centro di Cultura Popolare (CPC) dell'Unione Nazionale degli Studenti (UNE), comprendeva altri quattro cortometraggi: uno slum, di Marcos Farias; Zé da Cachorra, di Miguel Borges; Scuola di Samba Alegría de Viver, di Carlos Diegues; È Cava di San Diogo, di Leon Hirszmann.,
Al centro, letterale e figurativo, del film così assemblato, Coro de Gato, come terza cornice della favela, mantiene una certa eccentricità rispetto agli ideali estetici del PCC., Se non si spinge troppo oltre, e correndo anche il rischio di una semplificazione critica, si può dire che il lungometraggio prova un certo corso, passando dalla denuncia sociale diuno slum alla celebrazione rivoluzionaria di Cava di San Diogo. Tra gli estremi, a sinistra ea destra del centro un po' eccentrico, la denuncia di forme di “alienazione” del popolo. Zé da Cachorra accusa la sofferenza del migrante, sballottato da una parte all'altra, o dalla violenza del proprietario della favela, lo speculatore borghese, o dalla violenza del proprietario del pezzo, che, mentre passeggiava con il suo cane ... nascondendo a malapena, però, la sua ammirazione per il personaggio del titolo (modello di rivoluzionario? debitamente “consapevole”, ovviamente). L'altro breve, Scuola di Samba Alegría de Viver, interpretato da Oduvaldo Viana Filho, detto Vianinha, e la cui argomentazione è sintomaticamente firmata da Carlos Estevam, contrappone il marito direttore della scuola, che quasi si uccide (o viene ucciso) per far uscire la scuola, e la donna coscienziosa, che ha abbandonato il samba , quel “rumore senza senso”, per il sindacato e le sue lotte. Guidando i conflitti delle due militanze, quella “alienata” e quella “consapevole”, il giovane cerimoniere, dopo aver assistito alla parata dei dissapori, si toglie il costume, rinunciando al Carnevale, cioè alla falsa “gioia di vivere ” dalla collina.
Invece di correre al sindacato, come avrebbe dovuto fare il festaiolo “consapevole” del corto di Carlos Diegues, o mettersi in marcia per la vittoria, sfoggiando le carte vincenti e il trionfo dell'organizzazione popolare, come potrebbero fare gli eroi anonimi di Leon Il film di Hirszmann,, il ragazzo da Coro de Gato, scendendo dalla collina, terminato il lungo idillio (2'15”, lungo per un cortometraggio di 12'), non penserebbe, presumibilmente, di iscriversi presto alla Gioventù Comunista. La sua “consapevolezza”, a differenza del proselitismo, a volte più, a volte meno stridente, acquista sembianze di “rivelazione”, di epifania…, materialista, per così dire, scusate il paradosso, ma non proprio rivoluzionario, ancor meno apoteotico o apologetico. L'apprendimento della necessità, delle costrizioni materiali, atroci fino all'estremo per una coscienza in formazione, ancor più importanti nel sacrificio e nella morte (omicidio?), non toglie il ragazzo dalla condizione di vittima, o paziente, né lo trasforma in un potenziale agente di rivoluzione.
Chi potrebbe essere? Il pubblico? Ma il pubblico lì non è scoraggiato come la macchina da presa, impotente com'è di fronte al muro invalicabile della realtà che separa i due mondi, la collina e l'asfalto? Il pubblico non era lì, in città, dall'altra parte dello schermo, se non dall'altra parte dell'oceano? Potessimo udire le trombe del Giudizio, Finale, Inaugurale, lo sa Dio! ma tutto ciò che sentiamo è il minuscolo picchiettio (miagolio?) della pelle tesa...
Certo il nostro senso di sconforto, in fuga dallo spirito sobrio del film, che non ha nulla di melodrammatico, come abbiamo visto, il cui clima secco lascia appena spazio ad una lacrima, è tipico di una piccola borghesia. Il corto sicuramente aspirava ad altre reazioni, meno emotive… più efficaci, diciamo. Destinato, per ragioni commerciali, al pubblico esterno, sognava un'altra accoglienza? Un altro pubblico? nazionale? e un pubblico che forse non era nemmeno un pubblico, ma con il vantaggio comparativo di essere secco e duro come la stessa pelle di gatto, temprato com'era dalla brutalità della vita stessa? Stava finalmente sognando le persone che lo guardavano? Probabilmente sì, che la “modesta azione politica” di un film che vuole essere “popolare, semplice e diretto”, come dice nella lettera a Bernardet, non sia da attribuire esclusivamente al pudore del regista. Come allora spezzare l'assedio? Come raggiungere comunque le persone? Fare arte per la gente, ovviamente... arte popolare?, E come suonarlo? senza spaventarti? Via Centro Culturale Popolare? Ma cos'è esattamente la "cultura popolare"? cosa fa la gente? cosa si fa per lui? cosa gli viene (ed è apprezzato)? cosa si fa in suo nome (in linea con quello che si pensa sia l'interesse popolare)? cosa lo rappresenta (o pensa di rappresentarlo)? per non parlare delle diverse combinazioni e sottolineature delle formulazioni in sé e tra di loro.
Le tante domande, che tante sono state poste, e tante perplessità hanno generato, fanno parte, come espresso nella lettera a Bernardet, di quegli “imperativi diversi” che Joaquim Pedro ha cercato di “conciliare” e sono alla nascita di Coro de Gato. Sottotitolare male: se non ci sono soldi per un lungometraggio, fare un cortometraggio, ma corto di critica, contro il grande capitale (solo cinematografico?); il denaro investito, anche esiguo, richiede un ritorno (per il bene della carriera cinematografica), che a sua volta esige un pubblico, che a sua volta dipende dal circuito distributivo ed espositivo, cioè dal grande capitale cinematografico , che, come è noto, non eccelle per interesse culturale. Se non ci sono condizioni interne, viene filmato all'esterno, beh! approfittando dell'ondata favorevole al cinema nazionale, che cominciava a farsi conoscere nei festival internazionali. Ma le riprese all'aperto non imponevano restrizioni? Il pubblico straniero, non attrezzato, resisterebbe all'immersione profonda nelle case e nelle capanne nazionali? Sconosciuto alla realtà brasiliana, il soggetto non doveva necessariamente essere più “universale”, forzando quel “convenzionalismo”, quella “generalità antiartistica” di cui si incrimina la lettera a Bernardet?, Joaquim Pedro aveva già sperimentato la difficoltà del pubblico europeo a comprendere il suo povero Bandeira, poeta e film..., Come superarlo? Sarebbe persino superabile?
Per non parlare dei vincoli di budget, della precarietà della produzione, di quel sistema da terzo mondo che, se da una parte era così entusiasta, dall'altra non permetteva nemmeno la creazione di un eroe collettivo, mannaggia! Un'alternativa sarebbe un circuito alternativo, militante, sindacale, popolare, come quello per cui il PCC ha perso il sonno..., Se si evadeva la limitazione tematica, nulla garantiva l'accoglienza, ancor meno la comprensione. Arte popolare con contenuti rivoluzionari, come pregava il PCC... assolutamente no!, A proposito, questa “arte popolare” non sarebbe una nuova forma di “alienazione”? Dov'è il diritto di dubitare? il diritto all'arte davvero?, L'arte non sarebbe infatti proprio l'unico mezzo per disalienare le coscienze? Ma, se non viene compreso dal popolo, se rimane nell'ermetismo dei cinenovisti, come fare la rivoluzione? Ma una rivoluzione nell'arte non sarebbe anche una rivoluzione?!, Ma una rivoluzione esclusivamente artistica aiuterebbe?
Ciò che non mancava, insomma, a chi voleva fare arte cinematografica, nuovo cinema, cinema indipendente o altro, erano le tensioni e le intenzioni più struggenti. Joaquim Pedro de Andrade non solo ha messo le mani in questa ciotola, come membro attivo del gruppo Cinemanovista, ma ha bruciato i suoi neuroni per tutta la sua carriera, cercando di equiparare esteticamente i "diversi imperativi" che hanno continuato ad animare (tortura?) la sua vita e il suo lavoro., La sua inclinazione personale, per temperamento e formazione, riuscì a evitare gli sfoghi più demagogici o populisti. D'altra parte, sensibile al suo dibattito contemporaneo, non ha mai smesso di suonare, senza clamore, come in un basso continuo, le sue liriche popolari, almeno fino al 1968, quando la fine della dittatura militare, attuata quattro anni prima, cercò di impedire nessuna, per quanto brutta, ha rotto l'asfalto nero della nuova modernizzazione conservatrice.
*Airton Paschoa è uno scrittore, autore, tra gli altri libri, di vedi navi (e-galaxia, 2021, 2a edizione, rivista).
Pubblicato, con il titolo “Relíquias do Rio Antiga”, nella rivista cinema N. 35 (lug/set/2003)
Riferimento
Coro de Gato
Brasile, cortometraggio, finzione, 35mm, b&n, 12 minuti.
Sceneggiatura e regia: Joaquim Pedro de Andrade
Assistente alla regia: Domingos de Oliveira
Montaggio: Jacqueline Aubrey
Fotografia: Mario Carneiro
Assistenza fotografica: Paulo Perdigão
Musica: Carlos Lyra e Geraldo Vandré
Cast: Francisco de Assis, Riva Nimitz, Henrique César, Milton Gonçalves, Napoleão Moniz Freire, Cláudio Correia e Castro, Mário Carneiro, Carlos Sussekind e i ragazzi Paulinho, Sebastião, Aylton e Damião
Produzione: Saga Filmes (RJ)
Produttore: Marcos Farias
Anteprima: San Paolo, ottobre/61.
Premiere sul circuito commerciale, come episodio di Cinco Vezès Favela: Rio de Janeiro, 3/12/62.
Premi: Diploma Speciale al Festival di Oberhausen, Germania, maggio/62; miglior cortometraggio (condiviso con Collina di Lenin, di Alberto Roldán) al Festival di Sestri Levante, Italia, luglio/62; Premio di qualità CAIC, Rio de Janeiro, novembre/63.
note:
, “Chi vuole trovare l'amore”, di Carlos Lyra e Geraldo Vandré, costituisce il tema musicale del cortometraggio.
, “Nella prima sequenza, che doveva essere lunga, c'era la più grande ambizione del film. Dovrebbe mostrare l'attività dei bambini poveri di Rio de Janeiro, quando piove, c'è vento o c'è il sole, che faticano per guadagnare denaro. Avrebbe carattere documentaristico, ma sarebbe trattato all'interno di uno schema formale esatto: sempre discontinuità di spazio, tempo e oggetto, e sempre continuità plastica e movimento da un'inquadratura all'altra.// Attraverso la soluzione più diretta, con l'uso di risorse sonore, ci sarebbe un passaggio dalla prima sequenza, di carattere documentaristico, alla seconda, di finzione abbastanza realistica, per non scontrarsi con il materiale precedente, già trasformato e avvicinato alla seconda dalla messa in scena stessa” [lettera di Joaquim Pedro a Jean-Claude Bernardet, datata Roma, 24/9/61, e scritta poco dopo il completamento del film (apud Luciana Araujo, on. cit., P. 87/88)].
, Un'altra spiegazione è nota, meno estetica ma altrettanto potente, per la scelta di una materia quasi esotica. All'inizio della lettera a Bernardet, Joaquim Pedro “spiega che il film ha cercato di conciliare 'diversi imperativi'. La prima scelta, il formato del cortometraggio, è scaturita dalla mancanza di 'risorse finanziarie proprie' e dal 'desiderio di realizzare film non sottomessi alle esigenze del capitale 'professionale' del finanziamento cinematografico di Rio de Janeiro'. In assenza di un mercato di distribuzione e proiezione di cortometraggi in Brasile, il film dovrebbe avere "caratteristiche di tema e ambientazione [che] potrebbero interessare il pubblico straniero, al quale si rivolgerebbe con priorità commerciale". Il tema, l'ambientazione e il trattamento seguivano "le nostre convinzioni politiche, la sensibilità personale e le idee che avevamo in quel momento sulla tecnica e l'estetica del cinema". Il film vuole essere popolare, semplice e diretto negli effetti della sua costruzione'” (Luciana Araújo, id. ibid.).
, Per una comprensione storica del neorealismo, lontano dalla reificazione dei procedimenti artistici, così comune nel campo delle arti, si veda il libro di Mariarosaria Fabris (Neorealismo cinematografico italiano, San Paolo, Edusp/Fapesp, 1996). Grazie a lui sveliamo la storia della “scoperta del paesaggio italiano e del gusto per gli ambienti naturali”, “l'uso dei dialetti”, il “valore documentario”, “l'uso di attori non professionisti”, la “ gusto per la cronaca del quotidiano e per i sentimenti degli umili", risorse "stilistiche" tutte forgiate nella speranza di una "riunificazione" italiana solidale, nutrita giorno per giorno nella Resistenza all'incubo fascista.
, Per queste approssimazioni mi baso sul magistrale studio (perché ricco di lezioni e lezioni) di Mariarosaria Fabris, Nelson Pereira dos Santos: uno sguardo neorealista? San Paolo, Edusp, 1994.
, Mariarosaria Fabris segnala come “problema formale” la predominanza del cosiddetto montaggio classico e la “eccessiva dilatazione di alcuni episodi secondari” (Nelson…, op. cit., P. 130/1), sebbene indichi, oltre al “montaggio narrativo”, varie forme di articolazione, come quella dialogica, sonora, spaziale, situazionale, drammatica (per contrasto), — più significativa, e anche ideologica (id., P. 123-6). Da un punto di vista stilistico, sottolinea la mancanza di unità nella caratterizzazione dei personaggi, il cui diverso trattamento nel film ("realismo critico" per i poveri, caricatura e farsa per i ricchi e piccolo borghesi) limita la portata della sua critica sociale (p. 105/6 e 114). Tuttavia, lo studioso avverte che molti di questi difetti sono comparsi anche nel neorealismo italiano, fonte del primo film di Nelson Pereira.
,[7] Cfr. “L'esordio di Joaquim Pedro: gigante addormentato e bandiera popolare”, articolo mio, in Revisione USP n.o 60
, Riguardo all'accoglienza di Eisenstein da parte del Cinema Novo, Glauber disse in un'intervista a una rivista straniera nel 1968: “Eravamo tutti Eisensteiniani radicali e non ammettevamo che un film potesse essere realizzato se non con brevi montaggi, primi piani, ecc. (...) Fiume, quaranta gradi fu influenzato dal neorealismo. Il film ci è piaciuto molto perché in realtà era il primo film Brasiliano, ma da un punto di vista estetico abbiamo fatto delle riserve perché non era un film eisensteiniano (…) Era una mitologia eisensteiniana non digerita (…)” [apud Maria Rita Galvo e Jean-Claude Bernardet, Cinema: ripercussioni in una cassa di risonanza ideologica (le idee di “nazionale” e “popolare” nel pensiero cinematografico brasiliano), San Paolo, Brasiliense, 1983, pag. 205/6].
, Vista da Ismail Xavier Il discorso cinematografico: opacità e trasparenza (Rio de Janeiro, Paz e Terra, 1984, 2a ed., in particolare la prima parte del capitolo VI, “Eisenstein: dal montaggio delle attrazioni al cinema intellettuale”, p. 107/114).
, “(…) La caduta di Jânio è stata fondamentale per l'emergere del clima che ha dato origine al PCC, tutto quel fervore aveva una sola giustificazione: l'idea che ci saremmo arrivati, e molto velocemente. Con le dimissioni di Jânio, fu istituito un colpo di stato di destra per impedire a Jango di entrare in carica e instaurare una dittatura di destra, e tutti coloro che sarebbero poi entrati a far parte del PCC parteciparono alla lotta per la legalità, insieme a Brizola, il Terzo Esercito, l'UNE, la CGT, i sindacati, il movimento contadino, ecc... Durante quel periodo, fino al 1964, avevamo la perfetta sensazione che le classi popolari avessero vinto (...) i ranghi, politicizzando le persone con il semplice tocco di un pulsante , per ingrossare e radicare il movimento per la trasformazione strutturale della società brasiliana. È necessario sacrificare l'artistico? Certo, perché molto presto le classi popolari saliranno al potere. La valutazione della situazione ha portato alla conclusione che c'è stato un aumento del movimento di massa e che tutto dipenderà solo dallo sforzo che faremo per moltiplicare queste forze sociali in aumento (...)” in “História do CPC: Depoimento de Carlos Estevam Martins”, concesso al Ceac (Centro Studi Arte Contemporanea) il 23/10/78, L'arte nella rivista 3 - Domanda: Il popolare, São Paulo, Kairós, marzo 1980, pag. 80).
, Per comprendere l'importanza del montaggio “parallelo”, “alternato”, simultaneo, per il cinema classico, che era stato creato da Griffith a partire dal 1908 e fu definitivamente sistematizzato nel 1915, con il suo Nascita di una nazione, avviando lo sfruttamento commerciale su larga scala del cinematografo, fino ad allora una novità che non si sapeva ancora molto bene a cosa servisse, vedi, di Paulo Emílio Salles Gomes, “DW Griffith”, “Birth of a nation” e “ Intolleranza e serenità", Critica cinematografica al Supplemento letterario (Rio de Janeiro, Paz e Terra, 1982, vol. I, p. 361/74).
, “Per la caccia al gatto, abbiamo scelto il trattamento classico del montaggio parallelo, sviluppato come vertice unificante nelle scene di inseguimento, con l'intenzione di precipitare il ritmo, con cadute, interruzioni improvvise e riprese del precedente sviluppo del ritmo fino a un parossismo finale, concluso da una pausa più brusca e da una lunga pausa che dovrebbe aprire l'andamento dell'epilogo. Questo trattamento aveva il vantaggio di permettere all'eroe del film di essere sempre l'intero gruppo, invece che un singolo rappresentante della classe, ma a causa di un difetto di produzione abbiamo dovuto modificare l'epilogo originale e individuare un piccolo eroe nelle ultime sequenze ” (lettera a Bernardet, apud Luciana, op. cit., P. 87/88).
, “Rispetto al film, la sceneggiatura sottolinea maggiormente la convivenza dei ragazzi in un gruppo. Si incontrano in città, quando si siedono sul marciapiede e contano i soldi guadagnati. E si ritrovano sulla collina, dopo l'inseguimento. Intorno all'angora, mangiano i dolci, fumano e se ne vanno, lasciando solo uno di loro con il gatto (...) "(Luciana Araújo, on. cit., P. 82, corsivo mio).
, “Negli archivi di Joaquim Pedro ci sono due versioni molto simili della sceneggiatura tecnica di Coro de Gato. Nessuno dei due è datato. Per distinguerli userò A e B, sospettando che A sia la prima versione, perché in B ci sono già delle correzioni. dalla fotocamera. La differenza tra le versioni è molto piccola, a partire dal numero di piani (A: 184; B: 186). Ci sono alcune aggiunte e correzioni che rendono più chiara la descrizione. Dall'uno all'altro la variazione più significativa è il finale: in A il ragazzo vende il gatto; in B, lo scaccia con una pietra” (Luciana Araújo, on. cit., p. 82).
, Capra segnata a morire (1984), di Eduardo Coutinho, è stato un altro progetto avviato sotto gli auspici del CPC e del MCP, il Movimento de Cultura Popular de Recife. Ma questa è un'altra storia. Interrotto dal golpe del 1964, quando era stata girata poco meno della metà del film, il documentario, che riassumeva vent'anni di scellerata dittatura, fu lavoro quello è diventato prima… per tua fortuna e per nostra sfortuna.
, vedi il famoso Bozza preliminare del Manifesto CPC, scritto da Carlos Estevam Martins nel 1962, e le sue categorie estetiche: "arte del popolo" (tipo folcloristico), "arte popolare" (hobby, evasione) e "arte popolare rivoluzionaria" (contenuto rivoluzionario in forma popolare). Lapidariamente, “l'arte del popolo e l'arte popolare, se considerate da un rigoroso punto di vista culturale, difficilmente potrebbero meritare il nome di arte; d'altra parte, se considerati dal punto di vista del CPC, in nessun modo possono meritare la denominazione di popolare o di popolo” (Art in Magazine 1 — Gli anni '60, San Paolo, Kairós, gennaio-marzo/1979, pag. 72).
, Nella sua stessa maniera eisensteiniana, il cortometraggio di Hirszman elogia, a livello didattico, la resistenza del popolo allo schiacciamento del capitale… Solo la cava popolare poteva fermare la macchina capitalista.
, “Secondo Guido Aristarco, la vera novità del neorealismo non risiedeva nelle riprese in ambienti reali o nell'uso di dialetti e attori non professionisti, ma nel fatto che portava sullo schermo l'idea dell'epifania: 'Il neorealismo aveva scoperto, per il cinema, l''epifania': parafrasando Joyce, si può dire che, mentre altri registi vedevano nelle cose solo cose, un Rosselini e un De Sica (e, quindi, Zavattini) vedevano, o cercavano di vedere, qualcosa di più, 'l'altra faccia' nascosta a quelle cose (di una bicicletta, per esempio) e agli uomini'” (Mariarosaria Fabris, Nelson..., on. cit., p. 91).
, Come curiosità morbosa, diamo un'occhiata alla testimonianza di Cacá Diegues sulla sua accoglienza popolare Scuola di Samba Alegría de Viver: “Ho passato mesi a filmare in una favela con i ragazzi; per non parlare dei "ragazzi", gli abitanti della favela di Cabuçu. Quando ho finito, volevo che le prime persone a vedere il film fossero loro, i favelados… (…) Hanno visto il film, e quando è finito hanno riso molto, perché sono apparsi i loro amici (…) Allora ho chiesto: cosa ha fatto si pensa? Allora il direttore della scuola di samba si voltò e disse: 'Ah! Molto bello... ma ehi, dottore, questo non è cinema, questo non è cinema'” (apud Maria Rita Galvo e Jean-Claude Bernardet, on. cit., p. 242).
, Una suggestiva affermazione del fotografo del film, Mário Carneiro, ci permette di identificare, presumo, cosa intendesse il regista con il convenzionalismo e la generalità del suo approccio al soggetto: “L'attore era un ragazzo della favela. Aveva una personalità molto forte, non era facilmente manipolabile. Nell'ultima scena del film, è dovuto scendere dalla collina piangendo, una scena molto bella. Joaquim ha detto: 'Ora devi piangere, mostrare emozione. Pensa a una cosa triste. Alla morte di tuo padre, per esempio». E il ragazzo: 'Ehi, Seu Joaquim, se penso alla morte di suo padre mi viene da ridere. Mi picchia tutto il giorno. Quello che desidero di più è che muoia'. Il ragazzo era cattivo. Furono provati altri stratagemmi emotivi, nessuno dei quali funzionò. Allora Joaquim disse: «Come ultima risorsa, devo farti del male, ti pizzico. Pensi di piangere?'. E il ragazzo: 'Io non piango, no. Raccolgo un sasso e gli spacco la testa. (...)'” (apud Luciana Araujo, op. cit., P. 83).
, “Sono stanco di mettere in mostra Manuel Bandeira, che, dopotutto, non può interessare un pubblico straniero” (lettera a Paulo [César Saraceni] e Gustavo [Dahl], datata Parigi, 4/5/61, apud Paolo Cesare Saraceni, Inside Cinema Novo — il mio viaggio, Rio de Janeiro, Nova Fronteira, 1993, pag. 104). Più direttamente, Novais Teixeira si chiederebbe, in un articolo d'epoca, vedendo il film di Bandeira soccombere al “malinteso generale” del pubblico straniero: “(...) quale significato può avere, per chi non conosce il significato lirico intimità e semplicità francescana della sua personalità, la figura sullo schermo di un uomo piccolo e modesto, che fa la spesa nel quartiere di Castelo a Rio de Janeiro come qualsiasi altro mortale?” (apud Luciana Araujo, on. cit., p. 78).
, Come parte di Morbid Curiosity II, vediamo, se i nostri occhi non sono annebbiati, un altro capitolo (drammatico? melo? joco?) Alla ricerca del proletariato perduto: "Abbiamo messo in scena molti spettacoli ai sindacati, ma nessuno si è presentato per guardarli" ("História do CPC: Depoimento de Carlos Estevam Martins", L'arte nella rivista 3, on. cit., P. 78). Se la gente non andava a teatro, lui andava dalla gente, e così nacque il “teatro di strada”, sostenuto dal famoso carro UNE. “Una volta che abbiamo portato il carro a Largo do Machado, stavamo organizzando uno spettacolo su un lato della piazza, mentre dall'altro c'erano un suonatore di fisarmonica e un ragazzo che suonava il tamburello. Nonostante tutta la nostra attrezzatura audio e luci, il suonatore di fisarmonica e il suonatore di tamburello hanno riunito più persone di noi. Siamo partiti per un incontro di valutazione e ne è uscita una folla fenomenale. Ricordo di aver urlato: 'Non è possibile, questo è un totale e completo fallimento, io esco con i fisarmonicisti e tu rimani qui, intendi comunicare con le masse e stai prendendo una lingua che non è passato'. Fu da lì che è emersa questa concezione del PCC che dovremmo usare forme popolari e riempire queste forme con il miglior contenuto ideologico possibile” (id., P. 81).
, “Ho fatto un film, Coro de Gato, che aveva un'intenzione poetica di cui sono orgoglioso e che vorrei mettere in pratica. Ma intendevo in quel film un sistema di sovrapposizioni per raggiungere tutti i livelli, tutto il mondo. Mi sono convinto che questo riduce la validità artistica e culturale di ciò che si fa. Secondo me, la cosa più efficace è avere piena libertà rispetto a questo (…) i dogmi fondamentali sono sempre generalizzazioni e, fondamentalmente, sono contrari a tutto ciò che è validità artistica” (David Neves, Cinema Novo in Brasile, apud Maria Rita Galvo e Jean-Claude Bernardet, on. cit., P. 256/257).
, “E sto arrivando alla conclusione (…) che questa ideologia, serenamente, definitivamente stabilita e definita, forse non fa per me. La mia unica certezza è che ho il diritto di dubitare di tutto e il dovere di esporre questo dubbio nello sforzo di superarlo per agire o di agire per superarlo, utilizzando l'azione come processo di conoscenza” (id. ibid.).
, “C'è una grande rivoluzione generale che abbraccia tutto e ce ne sono altre, su piani diversi. Ad esempio, se l'artista fa un'opera importante del suo tempo, originale e unica, opera una rivoluzione (...) Stiamo facendo cinema rivoluzionario, ma lo stiamo facendo a un livello in cui può essere davvero utile e contribuire a qualcosa "(id. ibid.).
, Cfr. “Mané, bandiera del popolo” (Nuovi studi Cebrap n.o 67), mio articolo sul film più complesso della cosiddetta prima fase di Joaquim Pedro de Andrade, Garrincha, Allegria do PovoDi 1963.