da JOÃO LANARI BO*
Commento al film diretto da Ali Asgari e Alireza Khatami, al cinema
"Allora il sole si raffreddò e la fertilità abbandonò la terra."
(Forough Farrokhzad).
Cronache dell'Iran è il titolo semplicistico del film realizzato nel 2023 da Ali Asgari e Alireza Khatami: il titolo originale, tratto da una poesia di Forough Farrokhzad, sarebbe “Earthly Verses”. Farrokhzad, scrittore e anche regista, è nato nel 1935 ed è morto nel 1967, vittima di un incidente stradale. La sua scrittura interpreta l'esperienza quotidiana senza l'intenzione di guidare, educare, guidare... è un ritratto accurato del dolore e del piacere di un'intera generazione che vive un cambiamento radicale., come dice una tua lettrice, Farzaneh Milani.
Le operazioni del linguaggio mentale che portano alla traduzione dei titoli dei film, oltre agli obiettivi commerciali, meritano senza dubbio studi a parte: in questo caso, purtroppo, si tratta di un impoverimento. Il distributore statunitense è sfuggito alla trappola e ha lanciato il prodotto come “Terrestrial Verses”. L'omaggio dei registi a Forough non è circostanziale: confuta, allo stesso tempo, la prospettiva della tradizione modernista del poema e quella del cinema iraniano post-1979, prestando attenzione all'autoritarismo teocratico contemporaneo della Repubblica islamica iraniana.
Tutto questo, riassumendo appena, senza alcuna intenzione di guidare, educare, condurre...Un ritratto minimalista e poetico che cattura, per un breve lasso, piccole e fugaci interazioni di quelle che convenzionalmente vengono chiamate mentalità, con tutta la carica storica che il termine suggerisce. Ci sono nove episodi o vignette in “Cronache dell'Iran”, nove personaggi: telecamera fissa, qualcuno interrogato o interrogato, uno sguardo unico, il punto di vista dello spettatore condiviso con il punto di vista dell'autorità che interroga. In linea di principio non ci sono montaggi all’interno di ogni interrogatorio: il tempo della performance è reale, finzione e documentario si fondono in una sintesi improbabile.
Nella prima vediamo un giovane davanti a un notaio che insiste sul nome che lui e sua moglie vogliono dare al loro neonato – Davi. L'impiegato rifiuta, non è un nome islamico, né iraniano, o qualcosa del genere: e chiede, Chi è il tuo autore preferito? Gholam Hossein Saedi, risponde il giovane. Uno scherzo privato Per il pubblico iraniano, Gholam è in realtà uno scrittore di sinistra nemico del regime, esiliato a Parigi dopo il 1979, riporta Wikipedia. Il burocrate sembra non cogliere l'ironia e insiste, sempre nascosto nell'inquadratura opposta, perché non solo Hossein? Il giovane risponde che Hossein è arabo, non iraniano.
Poi, in un centro commerciale che respira l'aria del capitalismo demoniaco dell'Occidente, Selena: ha otto o nove anni, indossa le cuffie e balla al ritmo di TikTok, indossando una camicetta di Topolino. Fuori dal campo, voci femminili discutono di un abbigliamento adeguato per un evento, qualcosa che copra corpo e capelli, un velo, il famigerato hijab. Selena entra ed esce dall'inquadratura, finché il suo corpo non trasfigura il corpo islamico, automatizzato. La madre è riluttante, ma accetta la trasformazione. Una volta terminato il calvario, la ragazza si libera degli indumenti eccessivi e torna su TikTok.
Ecco l'ovvio, direbbe Nelson Rodrigues: il pezzo di stoffa chiamato hijab è l’artefatto più politicizzato sulla scena in questo formidabile paese che è l’Iran, uno dei granai culturali dell’umanità (gli antichi greci lo sapevano). L’arresto e la morte della giovane curda Mahsa Amini, nel 2022 – seguita da massicce proteste ed esecuzioni patetiche e macabre – è stato dovuto all’uso scorretto, secondo la polizia religiosa, dell’hijab. Sono quasi 90 milioni gli iraniani il cui futuro politico dipende da questo semplice pezzo di stoffa. Renderne l'uso facoltativo è la proposta coraggiosa dei riformisti.
In un altro episodio, l’autista dell’app Sadaf, poco più che ventenne, cerca di recuperare la sua auto trattenuta dalla DMV locale: è stata ripresa dalle telecamere di sorveglianza senza il suo hijab. Sadaf insiste sul suo diritto alla privacy, ma l'interlocutore la ignora e si affretta a pranzare.
La successiva, un'altra giovane donna, Faezah, imbarazzata e timida in un colloquio di lavoro, potrebbe lavorare senza il suo hijab (si tratta di un'azienda privata). La generosa offerta, tuttavia, nasconde uno scopo grossolanamente sessista: la trasgressione del canone religioso funge da innesco per la seduzione predatoria.
Non è una novità che la vita non sia facile per i registi iraniani – e non sarebbe diverso per Ali Asgari. Di ritorno a Teheran dopo aver mostrato “Cronache dell'Iran” a Cannes gli è stato confiscato il passaporto per impedirgli di partecipare a festival internazionali e, peggio ancora, è stato minacciato di arresto, soprattutto se avesse persistito nel suo desiderio di dirigere film (Alireza Khatami vive in Canada ed è stato escluso dalla repressione rabbia).
Le vignette che si susseguono nel film di Asgari e Khatami suggeriscono, in definitiva, un gioco di specchi di repressioni e restrizioni – dentro e fuori il film che si svolge davanti ai nostri occhi.
*Joao Lanari Bo È professore di cinema presso la Facoltà di Comunicazione dell'Università di Brasilia (UnB). Autore, tra gli altri libri, di Cinema per russi, cinema per sovietici (Bazar del tempo). [https://amzn.to/45rHa9F]
Tecnico
Direzione: Alì Asgari, Alireza Khatami
sceneggiatura Alì Asgari, Alireza Khatami
Cast: Servin Zabetiyan, Sadaf Asgari, Faezeh Rad
Titolo originale Ayeh haye zamini
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