dentro la nebbia

WhatsApp
Facebook
Twitter
Instagram
Telegram

da RICARDO FABBRININI*

Considerazioni sul libro di Guilherme Wisnik.

Em dentro la nebbia, Guilherme Wisnik articola ingegnosamente la riflessione estetica e la produzione artistica e architettonica contemporanea.[I] È un libro sul rapporto tra estetica e politica dagli anni '1990 in poi, che passa attraverso l'urbanistica, l'architettura, l'installazione, la pittura o la fotografia. Concetti della critica delle arti visive sono trasposti dall'autore, con disinvoltura, nei campi dell'architettura e dell'urbanistica. In un testo che unisce informazione storica e riflessione teorica, ci sono attente analisi di opere, che vengono assunte come sintomi dei mutamenti della logica artistico-culturale del capitalismo negli ultimi quarant'anni.[Ii]

Nei commenti alle opere uniche, l'autore indaga fino a che punto l'arte e l'architettura “abbiano ancora le condizioni per favorire l'apparizione del nuovo e dello stupefacente in un mondo dove tale potenza sembra essere stata catturata dalla dimensione globale del spettacolo mediatico” e tecnoscienza, “privando all'arte ogni prerogativa di innovazione”.[Iii] Al centro del libro c'è la convergenza tra arte e architettura in una poetica dei materiali.[Iv] Utilizzando il saggio “Trasparenza: letterale e fenomenale” di Colin Rowe e Robert Slutzky, del 1963, che vedevano nella trasparenza una “connessione tra la poetica plastica dei pittori e degli architetti”, Wisnik mostra, ad esempio, i cambiamenti dell'architettura rispetto alla bicchiere.

Dalla trasparenza, letterale o fenomenale, l'autore dissotterra il simbolismo. Mostra il progressivo spostamento dello scheletro strutturale basato sul ferro e sulla trasparenza del vetro dell'architettura razionalista di inizio '1980, per i vetri con ornamenti storicisti della cosiddetta architettura postmoderna degli anni '1990, e, da questi, per i vetri a specchio dell'architettura corporativa come quella dei centri finanziari negli anni '2000 e 'XNUMX; contro cui si rivolterebbe il vetro lattiginoso che, rifiutandosi di isolare l'edificio dall'intorno, opererebbe come forma di resistenza all'architettura egemonica.[V]

Nell'immaginario dei pionieri dell'architettura moderna, vale la pena ricordare che il vetro simboleggiava progresso tecnologico, uguaglianza democratica e trascendenza utopica. La sua trasparenza, consentendo l'integrazione tra spazio interno ed esterno, avrebbe rotto con la falsificazione delle facciate ornate che coprivano la vita del suo interno: “La modernità [come Wisnik sintetizza da Anthony Vidler] è stata eretta, insomma, sul mito della trasparenza”.[Vi] legatario di ethos L'illuminismo che ha informato l'arte e l'architettura moderne, la trasparenza del vetro è stata assunta, quindi, come “indice di verità, semplicità, onestà e purezza”. [Vii]

Va segnalato in questa direzione che l'ideale della trasparenza si è concretizzato nelle gallerie, nelle stazioni ferroviarie, nei padiglioni delle Esposizioni Universali alla fine dell'Ottocento; sia nelle opere di Paul Scheebart, Bruno Taut o Walter Gropius (secondo Rowe e Slutzky), risalgono all'origine stessa della filosofia occidentale – alla democrazia greca.[Viii] Il valore della trasparenza letterale intendeva così, secondo l'immaginario razionalista occidentale, uno spazio comune ed egualitario, simmetrico e secolarizzato perché non più confinato nella penombra dei santuari; del resto, nella democrazia ateniese del V e IV secolo aC tutto avveniva in pieno giorno: il cittadino che entrava nel agorà dalla polis vedeva tutto pur essendo visto da tutti; inoltre, l'espressione di opinioni; i dibattiti tenuti, la stesura delle leggi; così come le decisioni giudiziarie basate su di esse, sono state guidate anche dal “valore della trasparenza”.

Questo ideale di vita sociale e politica simboleggiato dalla trasparenza (o dall'assenza di ambiguità) del vetro, divenuto programmatico per i sostenitori dell'architettura funzionalista all'inizio del Novecento, è stato però oggetto di critiche. Se il vetro è “strumento per eccellenza dell'illuminismo razionale moderno”, esso “si presenta storicamente come nemico sia della proprietà che del mistero”; il che significa che “dietro la sua superficie antiauratica, nulla rimarrebbe nascosto, in segreto”.[Ix]

Secondo Walter Benjamin, ad esempio, il vetro è un materiale asettico e impersonale, “freddo e sobrio”, che abolisce la memoria e il vissuto. [X] È un materiale “così duro e così liscio” che “non vi si attacca niente”, il che significa che non trattiene i segni lasciati dalla mano, e quando la mano li lascia, si cancellano facilmente. [Xi] Le “tracce dell'uomo sulla terra” sarebbero state eliminate nella “cultura del vetro” di Scheerbart, o nel culto dell'acciaio del Bauhaus, poiché “creavano spazi in cui è difficile lasciare tracce”, dice Benjamin. [Xii]

Dal vetro trasparente si è passati al vetro specchiato. Nella descrizione dell'Hotel Bonaventure, a Los Angeles, nel 1976, di John Portman, il critico Fredric Jameson ha messo in evidenza il vetro a specchio che isola l'edificio dall'ambiente circostante, costituendosi come uno “spazio totale, un mondo completo, una sorta di città in miniatura."[Xiii] Mentre l'architettura di Le Corbusier si apre alla città, non nel senso di accoglierla, ma con l'intenzione di trasformarla, cioè di diffonderne le forme e il modo di vivere attraverso il tessuto urbano, l'Hotel Bonaventure di Portman ti avrebbe restituito le spalle ai dintorni.

Se il primo è sicuro di sé e volitivo, scommettendo sul potere sociale della forma-architettura funzionale; il secondo sarebbe narcisistico in quanto indifferente a tutto ciò che gli è esterno. Solo gli ascensori panoramici situati nelle quattro torri che fiancheggiano l'atrio centrale dell'Hotel – con laghetti in miniatura, boutique e scale mobili, come in centri commerciali o parchi di divertimento – è che il visitatore possa vedere la città, che finisce per ridursi a mera immagine, a orizzonte spettrale. Se questa immagine affascina – sempre secondo Jameson – è perché nasce dalla “passione nichilista per i modi in cui il reale scompare”, secondo l'espressione di Baudrilllard. [Xiv]

Certa architettura contemporanea, invece, ha rifiutato sia il vetro trasparente dell'architettura moderna (con il suo simbolismo) sia il vetro specchiato dell'architettura aziendale dell'era globale, a favore della “trasparenza fenomenale” del vetro lattiginoso. Dalla traslucenza di questo vetro, posto tra il trasparente e lo specchiato, risulterebbe un effetto “opacizzato”. Sarebbe “nelle superfici ambigue del vetro sabbiato”, nelle “strane membrane” attraverso le quali “le cose [dentro o fuori l'edificio] appaiono come spettri e ombre” che risiederebbe il potere critico della forma, nella poetica di Wisnik materiali.[Xv]

È possibile ipotizzare, estendendo la poetica dell'autore, che nella rifrazione del raggio di luce che attraversa una pelle di vetro lattiginoso, si verifichi una deviazione (una specie di clinamen, nel termine di Lucrécio, o minimo détournement, nell'espressione de Guy Debord, Roland Barthes o Gilles Deleuze) che, velando o distorcendo ciò che si vede, restituiscono a quell'immagine il suo enigma. Questi “veli traslucidi che lasciano intravedere qualcosa degli spazi interni avvolgendoli di mistero” opererebbero così, a nostro avviso, come una forma di resistenza alle immagini egemoniche della società dell'ipervisibilità: immagini piatte; schiaffi; liscio; superficiale; epidermico; pellicolare; nessun rinculo; nessun enigma, nessun volto nascosto; nessun altro lato; senza pieghe; nessuna piega; senza rovescio; senza linea di fuga, nei termini usati da Jean Baudrillard in tutto il suo saggio. Nelle immagini sfocate, di luce fioca, filtrate dal vetro lattiginoso, avremmo, insomma, la negazione del mondo senza sbavature, di una continuità senza crepe, proprie dell'ordine dei simulacri, dell'iperrealtà del immagini, di alta definizione, estremamente intense dal punto di vista sensoriale.

Questo è ciò che accadrebbe in opere come il Kunsthausdi Peter Zumthor (Bregenz, 1991), una Galleria Götz, di Herzog & de Meuron (Monaco di Baviera, 1992) o il Istituto Moreira Salles (San Paolo, 2011), secondo Wisnik. Guardando dall'esterno di questi edifici, è possibile vedere al loro interno, per la luce che attraversa la pelle semiopaca o torbida dei loro involucri, solo sagome luccicanti. In questa serie di opere, l'autore include anche il Fondazione Cartier per l'arte contemporanea, di Jean Nouvel (Parigi, 1994), nonostante la singolarità di questa costruzione; perché in esso non ci sono turgide pelli, come nei casi precedenti, ma “piani paralleli di vetro, alcuni solo scenografici, senza alcuna funzione reale se non quella di creare ambigui effetti di visione”, che si tradurrebbe in “un ricco rimescolamento percettivo tra l'edificio, i giardini interni e il contesto urbano”.[Xvi]

“Con rara sensibilità plastica, Jean Nouvel [Wisnik conclude il suo commento su Fondazione Cartier] riesce a sciogliervi la lettura di un volume solido attraverso quella che lui stesso chiamava poetica della nebbia e dell'evanescenza”. [Xvii] È possibile chiedersi, tuttavia, nonostante la leggerezza minimalista comune a questi edifici, se non lo avremmo fatto Fondazione Cartier di Jean Nouvel, un virtuosismo formale che non si trova in altri edifici. L'effetto dissolvente della struttura edilizia del Fondazione, in una strana atmosfera nebbiosa, non sarebbe scenografico – nonostante l'immensa distanza formale che li separa – quanto l'involucro esibizionista, in lastre di titanio, del Museo Guggenheim di Frank O´Gehry (Bilbao, 1997)?

In questo senso Wisnik si discosta da Hal Foster, per il quale il potere di resistenza dell'architettura (o la sua qualità formale, etico-estetica) risiede nella dialettica tra la tettonica (il letterale, o struttura) e la pelle (l'immagine, o superficie). Questa dialettica tra “letteratura” ed “effetto fenomenale”, o materialità e immaterialità, sarebbe però solo eccezionalmente assicurata, come in certi lavori di Herzog & de Meuron, Kazuyo Sejima (su cui torneremo), e Richard Gluckman; perché il dominante nello stile globale di archistar, sempre secondo Hal Foster, sarebbe il predominio del “fenomenale” sul “letterale”. Ciò è evidente, ad esempio, nel Fondazione Cartier, perché qui la scatola di vetro non opererebbe come letterale trasparenza o chiarezza strutturale nel senso dell'architettura miesiana, ma come un involucro che supera, se non “umilia la struttura”.[Xviii] In questo edificio, la palizzata di vetro farebbe rarefare il letterale e il fenomenico si intensificherebbe come un bagliore, o svanirebbe come nebbia, a seconda dell'ora del giorno. Sarebbe un'architettura, secondo Foster, che mirerebbe a produrre atmosfere, “abbagliando” l'osservatore, come se il suo modello ideale fosse un “gioiello illuminato”; o beni di lusso.[Xix]

La nebbia è una topos, originata dalla pratica della pittura. Basti ricordare le forme nebbiose – come il “fumo che si mescola all'aria polverosa quando raggiunge una certa altezza” come lo descrisse Leonardo da Vinci nel suo libro. Trattato di pittura[Xx]; le ninfee di Claude Monet; Voi sfumato di Odilon Redon; le vaporizzazioni di JMW Turner; e, nella linea pittorica della fotografia, le nuvole di Alfred Stieglitz che portano alla cancellazione del referente (dell'oggetto come luogo dato), ponendo l'immagine al di là delle qualità intrinseche del referente, in modo tale che essa, l'oggetto , non sarebbe più osservata “per il suo aspetto esteriore, ma secondo le regole della bellezza pittoresca”, come diceva il pittore ottocentesco William Gilpin[Xxi]; i light painting in madreperla di Armando Reverón; o, infine, gli acquarelli del Pittoresco atlante dei cieli di Hércules Florence, tra tanti riferimenti pittorici o fotografie pittorialiste, di nebbie.

Ci sono diversi significati attribuiti alle nebbie in tutto il libro. Sono “segnali insieme negativi e positivi nel mondo attuale”, “in fondo la nuvola (o nebbia) – sottolinea l'autore – non è univoca”, ma plurale.[Xxii] La nebbia è usata, prima di tutto, per rappresentare eventi di distruzione o morte nel XX e XXI secolo. Di qui le menzioni dell'autore alle nubi radioattive causate dal lancio di bombe atomiche il 6 agosto 1945 sulle città di Hiroshima e, tre giorni dopo, sulla città di Nagasaki, in Giappone (tradotte in serigrafie da una serie di funghi zuccherati di Andy Warhol negli anni '1960); la nuvola nera di detriti prodotta dall'implosione del complesso residenziale Pruitt-Igoe, di Minoru Yamasaki, in S. Louis, Missouri, alle 15:32, il 15 luglio 1972, che fu interpretato dallo storico Charles Jencks, in un libro del 1977, come segno della fine della "Plan Ideology" dell'architettura moderna o dell'inizio del cosiddetto postmoderno architettura; e, infine, la nube giallo-bianca composta da polvere di marmo, cemento, acciaio e titoli finanziari, che ha inghiottito diversi isolati di Manhattan, dopo l'attacco di Al-Qaeda, l'11 settembre 2001, al World Trade Center, progettato da Yamasaki , Leslie E. Robertson e Emey Roth & Sons.[Xxiii]

La nebbia, dentro dentro la nebbia, è anche un'immagine per lo stadio attuale del capitale finanziario o immateriale, perché non ha zavorra nel cosiddetto mondo reale. È l'immagine del capitalismo della rete digitale, del movimento incessante di informazioni e capitali speculativi in ​​tutto il mondo globale: “Non è [solo] un'immagine dell'evoluzione tecnologica senza che sia, più profondamente, una mutazione del capitalismo” , ha detto, in questa direzione, Gilles Deleuze.[Xxiv] La nebbia è nuvola (Cloud) “invisibili e onnipresenti”, carichi di big data e algoritmi che aleggiano sopra le nostre teste[Xxv]. La nuvola è tanto astratta quanto concreta dato che traccia tutte le nostre azioni: “Il marketing è ormai lo strumento di controllo sociale, e forma la razza sfacciata dei nostri padroni” – “l'azienda”. [Xxvi] La nuvola è la società del controllo [e non la società disciplinare, in senso "moderno"], di un controllo "a breve termine e in rapida rotazione", "continuo e illimitato", che "rileva la posizione di ciascuno, lecito o illecito” operando una “modulazione universale”, sempre secondo Deleuze. [Xxvii]

La nebbia, infine – nella condensazione di Wisnik – figura il “sublime digitale”.[Xxviii] Si può, infatti, evocare il sentimento del sublime di fronte alla nuvola digitale, perché quest'ultima implica ciò che, essendo troppo grande, sfugge a ogni misura, a ogni tentativo di sussumere nelle categorie del pensiero. Il “sublime digitale” o “sublime capitalista”, nei termini usati dall'autore, corrisponde alla nozione apparentemente paradossale di “sublime immanente” di Jean-François Lyotard. [Xxix] Il “sublime immanente” è, secondo Lyotard, il “fatto essenziale della postmodernità”, vale a dire: che la logica del capitalismo e della tecnoscienza è eccessiva, poiché sono le “infinite possibilità di trasformazioni e operazioni dei dispositivi che pongono questa stessa logica in movimento"; che è stato caratterizzato da Lyotard, in La condizione postmoderna come “prestazioni del sistema”, compresa la “sua stessa ottimizzazione”: la “crescita del potere e la sua autolegittimazione attraverso la produzione, memorizzazione, accessibilità e operabilità delle informazioni”.[Xxx]

Il sentimento del sublime di fronte alla nuvola digitale, insomma, non “farebbe credere alla realtà di questo mondo”, ma “farebbe scoprire la sublimità che lo sostiene”: il sempre crescente investimento libidico nello “strumento-arma” – nel termine strategia utilizzato da Lyotard nella sua caratterizzazione della razionalità tecnico-scientifica “postmoderna”. [Xxxi] Nella nozione di sublime digitale abbiamo aaggiornamento dell'estetica del sublime con la sostituzione del “sublime trascendente” (che autori come Jameson e Lyotard associano all' “estetica della modernità”) con il “sublime immanente”, il che significa che l'Idea di una ragione emancipatrice che mira alla totalità, è stata sostituita dall'idea di un puro artificio, che segue la logica della performance, in continua espansione della tecnoscienza. La nebbia rappresenta quindi l'eccesso del mondo digitale, con la sua intensità spettrale, priva di significato, tipica del feticcio, che è fonte di fascino.

La nebbia opera anche, in questo libro, come immagine dell'indeterminazione. Viviamo, secondo l'autore, nella nebbia, allontanando l'idea di fatalità o di un percorso a senso unico nella storia. Guilherme Wisnik costruisce, in altre parole, una dialettica delle nuvole: un'opposizione tra il mondo virtuale, basato sull'istantaneità dell'informazione (il sublime digitale) e la poetica dell'annebbiamento, inteso come forme interne di resistenza a questo stesso mondo globale. Se da un lato la nebbia è metafora del “capitalista sublime”, basato sulla nuvola dell'informatica, degli algoritmi di controllo e della volatilità delle azioni finanziarie, come abbiamo visto; d'altra parte, la nebbia è anche indice di vaghezza rispetto al futuro, come testimoniano certa arte e architettura recenti: “Del resto dentro la nuvola, cioè nel mondo attuale, la luce è diffusa, non permettendo la definizione né di centri né di margini nella sua emissione e ricezione. Quindi abitiamo – nei termini di Jeffrey L. Kosky – un globale sfocatura, una sfocatura globale”.[Xxxii]

Stare in mezzo alla nebbia è vivere, quindi, l'esperienza dell'imponderabilità del divenire, cioè che qualcosa di diverso da ciò che è dato sta per nascere. Questa associazione della nebbia con l'avvento del nuovo (di un “altro nuovo”, perché non è più il vecchio nuovo moderno), di ciò che si intravede tra le velature del presente, risale, secondo Wisnik, al “Miti poetici amerindi” analizzati da Lévi-Strauss, secondo il quale, la fitta nebbia che discende improvvisamente frapponendo gli uomini e il loro ambiente avrebbe “un ruolo cosmogonico, di interruzione e ripristino del mondo, alterando bruscamente l'ordine delle cose”: “si è il velo che copre per un istante la realtà, innescando una situazione dalla quale le cose trasformerebbero e cambierebbero posizione”. [Xxxiii] Nel mondo attuale le nebbie, come nel mito descritto, opererebbero anche come segni di trasformazione, non perché rifondassero il mondo esistente su nuove basi come nella cosmogonia amerindia, ma perché farebbero intravedere indici di libertà (di invenzione di possibilità) nel bel mezzo della naturalizzazione del capitalismo digitale-neoliberista.

È nella “poetica dell'annebbiamento” (già introdotta a proposito del vetro lattiginoso) che l'autore individua forme residuali ed emergenti di resistenza all'arte e all'architettura egemoni del capitalismo neoliberista, come le fotografie di Michael Wesely; installazioni di Olafur Eliasson; e le “costruzioni” dell'ufficio SANAA di Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa; e l'ufficio Diller+Scofidio, di Elizabeth Diller e Ricardo Scofidio. Questi sono alcuni esempi, tratti dall'autore, che permettono di precisare il significato che attribuisce alla poetica dell'annebbiamento come forma di resistenza.

Con “telecamere speciali” che “filtrano enormemente la luce che colpisce il film”, Michael Wesely “registra scene” che “si estendono per lunghissimo tempo”. [Xxxiv] Dilatando “enormemente l'istante dello scatto fotografico in minuti, ore, giorni, mesi o anni, il fotografo conferisce così un tratto sorprendentemente tangibile alla durata temporale, normalmente estranea all'universo istantaneo della fotografia” [Xxxv] È il caso delle fotografie della ricostruzione del set Potsdamer-Leipziger Platz, a Berlino, dal 1997 al 2000, progettato da Renzo Piano, Richard Rogers e Helmuth Jahn: “un evento in mini città” – nell'espressione di Otília Arantes [Xxxvi] – “che si definisce come un parco a tema [un centro internazionale per la comunicazione, i media ei servizi] situato nel cuore della città, emulando una falsa condizione di spazio pubblico misto”.[Xxxvii] In queste immagini, quello che vediamo è “un groviglio di forme sovrapposte: edifici in costruzione che si fondono in forme spettrali, orizzonte della città alle spalle, gru e impalcature ovunque, bagliori e luci rifratte e il disegno mutevole del percorso del sole nel cielo durante le stagioni”, nell'ecfrasi dell'autore.[Xxxviii]

In una reazione alla riduzione di Potsdamer Platz ad uno scenario di puro artificio alta tecnologia che produce uno strano fascino per la scomparsa della storia (dopo la caduta del muro di Berlino), le fotografie di Wesely mirano a restituirne la concretezza fisica e la densità temporale. Queste fotografie mostrerebbero così, negli strati sovrapposti del tempo, il cantiere con le impalcature che strutturano l'edificio – “il processo materiale che sta dietro le quinte come risultato di una catena produttiva” – nel rifiuto di ridurre l'architettura a forma significante o forma-simulacro (a immagini spettacolari nel tardo capitalismo). [Xxxix]

Fotografia di Michael Wesely. Potsdamer Platz, Berlino, 1997-2000.

Spiccano due aspetti già indicati nel libro, in cui risiede, a mio avviso, la potenzialità critica delle fotografie di Wesely, ovvero: il palinsesto e la durata. Nei veli sovrapposti nelle fotografie di Potsdamer Platz, abbiamo qualcosa di analogo al “palinsesto”, scrivere sulla scrittura, o pentimento, in pittura. In quest'ultimo caso, gli strati sovrapposti della piazza in costruzione (che evocano anche le rovine di un sito archeologico) sono come le velature di un dipinto; come i successivi veli di colore che lo rendono luminescente, poiché il velo non è opaco, ma traslucido. Come nella velatura o nell'encausto che, sottolineando il valore del colore (la sua luminosità), lascia intravedere le tonalità degli strati inferiori di pittura, nella fotografia del Potsdamer Platz da Wesely è possibile cogliere “tutto ciò che era presente davanti alla telecamera durante tutto il tempo” in cui il suo obiettivo era tenuto aperto.[Xl] Insomma: ciò che si vede, in questo caso, sono i sottilissimi strati traslucidi di colore-luce, situati tra trasparenza e opacità.

Motivato dal testo dell'autore, credendomi fedele al suo contenuto, si può aggiungere che sia negli "strati di tempo che si spazializzano" [Xli] sia nelle fotografie di Wesely che nel pentimento, inteso come rivestimento di strati di vernice, c'è lo stesso "effetto-affetto di indeterminazione", che non può essere sussunto al dispositivo rappresentativo, dato che introduce "l'irrappresentabile" nel costituzione della “rappresentazione mimetica” (delle gru e delle impalcature del Potsdamer Platz), portandola sull'orlo della scomparsa.[Xlii] Così, in entrambi i casi, la struttura abituale della percezione verrebbe destabilizzata sostituendo l'opposizione, o addirittura la reversibilità, tra figura e sfondo (lo spazio ottico) con la porosità, se non l'indistinzione, tra la superficie superiore e quella inferiore. (lo spazio tattile).

Questo è ciò che si può vedere, vale la pena notare, in artisti come Paul Cézanne, Jean Fautrier, Jean Dubuffet, François Rouan, Jackson Pollock, Julian Schnabel, Anselm Kiefer, o anche Gerhrad Richter (citato dall'autore). È vero che l'effetto di sospendere la nitidezza delle forme nelle opere di questi artisti è il risultato della manipolazione dei pigmenti, o della rugosità dell'impasto, mentre nelle fotografie diafane di Wesely l'effetto di velatura, o di pellicole luminose, sono ottenute in fotosensibili film. .

Il secondo aspetto che attribuisce alle fotografie di Potsdamer Platz un enigma è l'incorporazione, in essi, della durata. L'uso di macchine fotografiche con diaframma di lunga durata estende il “momento decisivo” della fotografia, secondo l'espressione di Henri Cartier-Bresson, alla durata del campo lungo cinematografico (o video). Situata tra l'immagine statica e l'immagine dinamica, la fotografia di Wesely permette così, attraverso la dilatazione dell'istante, la cristallizzazione del tempo, come durata, in un'immagine data. Il suo intento è quello di prolungare l'istante decisivo facendone un'immagine-tempo (o durata) e, nella stessa operazione, avvicinare l'immagine-movimento (specifica del cinema) all'immobilità del fotogramma, mettendo così in tensione i regimi temporali di la “forma fotografica” e la “forma fotografica” cinema (o video)”. [Xliii]

Il fermo immagine di Potsdamer Platz aspira, insomma, alla mobilità dell'immagine filmica nel tentativo di cogliere la dimensione processuale delle cose e dei fatti, cioè la successione causale degli eventi nel tempo: o ancora, il processo di gentrificazione promosso dalla “Pianificazione Strategica” di la città di Berlino nel periodo della riunificazione successiva alla caduta del muro, in linea con gli imperativi del capitalismo postindustriale o finanziario. Nella fotografia di Wesely è evidente ciò che il Potsdamer Platz high tech e glamour, mira a nascondere: l'azione predatoria del capitale aziendale globale che cancella il continuo della storia. Questa fotografia reagisce, tornando ai termini di “Dentro la nebbia”, alla “mancanza di spessore storico” dell'architettura-iconica, o dell'immagine pubblicitaria come forma-merce, nella Città globali, a favore della “qualità di fruizione del luogo nella vita reale” [Xliv]

È possibile aggiungere, sempre a proposito della durata, che la fotografia di Wesely impone una certa temporalità alla fruizione dello spettatore. Di fronte alla domanda: “cosa si aspettano da noi le tue immagini sfocate, in cui ogni nitidezza è sospesa?”; si può rispondere che lo è tecnica del ritardo: la percezione gelosa e pigra, cioè il tempo necessario perché «nell'osservazione di queste immagini cominci a nascere tutto ciò che in essa, o davanti ad essa, è realmente accaduto»: la costruzione della piazza. [Xlv] Questa apertura dell'immagine alla "realtà intrattabile" (Jean Baudrillard), che rimanda alla nozione di punto in Roland Barthes, si può sintetizzare nell'interiezione: “Quello era!”. [Xlvi] Questa espressione, però, non va intesa come la fissazione di un istante, come vuole Barthes, ma come l'apprensione del processo di trasformazione della città (o di cancellazione della sua storia), di qualcosa che la avvenuto assolutamente, inconfutabilmente, nel presenti (continuo) di fronte alla telecamera. Sono fotografie che attestano, così, la caparbietà del “Referente”, ad affermarsi come “realtà ontologica”: la costruzione di rose da Potsdamer Platz (dei suoi edifici e dintorni). [Xlvii]

Per questo le fotografie di Wesely sono belle immagini pensose, immagini che costringono sensibilmente il pensiero (perché non c'è punto in esse che non ci guardi) interrogandoci, contrapposte a immagini estremamente intense dal punto di vista sensoriale, che sono, comunque vuote, perché slegate dal vissuto o dalla memoria collettiva. In esse è racchiuso un pensiero impensato, pensiero non riconducibile direttamente né all'intenzione del fotografo né a un oggetto specifico (il studium, secondo Barthes. cioè Potsdamer Spazio come referente). L'immagine pensosa apre così una “zona di indeterminazione” tra “presenza e assenza”, nei termini di Baudrillard, o “tra pensiero e non pensiero, tra attività e passività, e anche tra arte e non arte, in quanto ridefinisce il confine tra questi termini”.[Xlviii]

L'immagine pensosa si oppone, in altre parole, “al potere della pensosità del punto all'aspetto informativo rappresentato dall' studium"; [Xlix] cioè l'immagine pensosa innesca una passione scopica, o una “follia dello sguardo”, secondo l'espressione di Barthes: una circolarità fatta di un andirivieni che non cessa tra diverse modalità di enunciazione, tra “la conoscenza di un oggetto rappresentato ” e il “non sapere che forza il pensiero”.[L] È da questa zona di indiscernibilità (la “figurabilità”, direbbe Lyotard), che è l'imponderabile stesso, che scaturisce l'effetto di “distanza”, o di “un certo mistero”, di queste immagini.[Li] Le fotografie di Wesely interrompono così ogni organizzazione performativa, ogni convenzione o contesto dominabile dal convenzionalismo della macchina generatrice di immagini del digitale e dei mass media, che è sempre tautologico, perché frutto dell'intercambiabilità generalizzata delle immagini-feticcio.

Come secondo esempio della poetica del clouding, tra quelli citati dall'autore, l'installazione nel sito specifico, Il progetto meteo, di Olafur Eliasson, presentato a Sala delle turbine da Tate Modern, nel 2003. Questa installazione era “costituita da un semidisco metallico strutturato da impalcature e illuminato con lampade monofrequenza. Inoltre, l'artista ha installato uno specchio a ridosso del soffitto della sala, raddoppiando lo spazio e riflettendo le sue immagini – l'architettura, le persone e lo stesso mezzo sole che, duplicandosi, si è completato –, oltre a coinvolgerlo in una foschia artificiale, la cui aria di mistero accentuava il senso della probabile irrealtà della situazione”.[Lii] “Il risultato – sempre nei termini di Wisnik – è che le persone si sono riversate al museo durante l'inverno londinese in gran numero, con l'intenzione di sdraiarsi sul pavimento di quella spiaggia artificiale e ricevere sulla propria pelle – anche se solo mediata dagli occhi e attraverso il cervello, ma in modo molto credibile - "l'energia di quei benefici raggi del sole". [Liii]

Installazione di Olafur Eliasson. Il progetto meteo, Tate Modern, Londra, 2003.

È anche possibile, a nostro avviso, associare “quell'aria di mistero” evocata dalle nebbie – nella fruizione di questa installazione di Eliasson – al kantiano “sentimento del sublime”. A Sala delle turbine, una vecchia centrale elettrica, ormai disattivata, il visitatore si trova di fronte all'“assolutamente grande”; con qualcosa “in confronto a cui tutto il resto è piccolo”, sperimentando una “sensazione simultanea di fascino e terrore”, in cui “il piacere è possibile solo attraverso il dispiacere”, proprio come chi entra per la “prima volta” nella Chiesa di San Pietro a Roma, sull'esempio di Kant.[Liv] Tale fruizione sarebbe così analoga al sentimento del “sublime matematico” caratterizzato dall'inadeguatezza kantiana tra l'immaginazione nella sua aspirazione al progresso infinito, alla totalità, come idea di ragione, e la facoltà capace di valutare tale grandezza. Da questa fruizione, nei termini ora di Lyotard, che riprende a suo modo l'“analitica del sublime” di Kant, un sentimento di sospensione tra il tempo presente e ciò che si annuncia senza mai realizzarsi. Nella tremolante luce colorata di Sala delle turbine, ciò che accade è ciò che in esse viene annunciato, la domanda: “Succederà qualcosa?”.[Lv] È nel sostenere questo interrogativo, nell'attesa che qualcosa emerga, o anche, nell'attesa di qualcosa che “avvenga nell'evento”, che si rende evidente la possibilità che si realizzino luoghi che non sono ancora accaduti. [Lvi] È nella fruizione, sospendendo ogni rapporto di dominio – così come nel giudizio riflessivo kantiano, in cui non c'è soggezione della sensibilità alla comprensione, o della comprensione alla sensibilità, ma libero gioco di queste facoltà – che nasce l'attesa che accadrà qualcosa che sorgerà per un impulso che sembra forzare la forma (cioè che fa precipitare l'atmosfera di luce in Il progetto meteo) fuori di sé, verso l'informe, inteso come indice di alternative al reale. Ciò non significa assumere questa fruizione come esperienza di trascendenza attraverso la “presentazione dell'inesprimibile” (nel senso della tradizione romantica e dell'arte d'avanguardia come quella di Mondrian, Kandinsky o Malevitch, negli esempi dello stesso Lyotard) , ma come “rappresentazione negativa” , in quanto vi è in essa un'allusione a qualcosa che non può essere mostrato, o “presentato” – Rappresentazione nel termine di Kant.[Lvii]

Questa dispersione di colori illuminati dal sole artificiale, dal giallo, all'arancio, al rosso o all'ocra, sempre cangianti, permette allo spettatore di affinare la sua sensibilità mentre cammina per la strada. Sala delle turbine. Muovendosi attraverso l'ampio spazio vuoto, lo apprende come totalmente sfumato; cioè si rende conto che ciò che lo circonda è sempre “oscuro”, poiché cambia sottilmente il suo aspetto, a seconda dell'inclinazione del suo sguardo.

Siamo vicini, qui, al tentativo di Hélio Oiticica di espandere l'esperienza sensoriale attraverso l'"incarnazione" del "colore-durata" - del Bilaterale di 1959 giorni penetrabile degli anni '1960 – consentendo al partecipante di “vedere, sentire, calpestare, toccare il colore” emanato da un supporto materiale, come lastre di legno o scatole con pigmenti di colore puro [Lviii]; sebbene dentro Il progetto meteo di Eliasson, non c'è il rilascio della luminosità del colore-pigmento, applicato su legno o concentrato in un contenitore, come in Oiticica, ma piuttosto la costruzione di uno spazio di colore chiaro dalle lampade monofrequenza, come negli artisti Robert Irwin, James Turrell o Anthony McCall del gruppo Luce e Spazio.

La percezione da parte dell'utente di sottili cambiamenti cromatici, mentre si muove, tra le nebbie, attraverso il Sala delle turbine, opera come forma di resistenza alla società della simulazione, in quanto impedisce allo sguardo di diventare ostaggio del fascino fatale delle immagini ad alta definizione del mondo digitale. Nel percepire le sfumature della nebbia, una specie di epoca, sospensione provvisoria del linguaggio visivo dominante che viene semplicemente assunto come naturale, perché certificato dalle infinite reiterazioni del “tutto schermo”.[Lix]

Questa percezione attenta e distesa nel tempo – già richiesta, come abbiamo visto dalle fotografie di Wesely – è “merce sempre più rara, se non un vero lusso” nel mondo colonizzato per la decifrazione immediata, puramente operativa, delle immagini, come accade sfogliando Internet. ; dopotutto, velocità, prestazioni, prestazioni sono le parole d'ordine del capitalismo digitale.[Lx] È proprio, però, nella percezione segnata dalle esitazioni, dalla perdita del tempo e dal tempo perduto, dalla pazienza nello svelare il segreto di ciò che non si coglie immediatamente, perché solo accennato, che avremmo la negazione della temporalità della produzione di immagini cliché (cioè della voracità e della fretta); e per effetto dell'«edonismo ansioso», che governa la vita nell'«ipermodernità».[Lxi]

Il terzo esempio della poetica del clouding è il Museo di Arte Contemporanea del XXI secolo (1999-2004), a Kanazawa, Giappone, dall'ufficio SANAA (Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa), così descritto da Wisnik: “All'esterno vediamo una superficie centrifuga e continua, una facciata curva [un cilindro di vetro] ; e, all'interno, un labirinto di percorsi tra stanze e patii, in cui anche gli spazi di circolazione (gli interstizi tra gli isolati) diventano luoghi dell'essere, acquistando un inedito protagonismo”.[LXII] In questa costruzione, la fondazione è “il grado zero della materialità e della tettonica”, in modo tale che le sue pareti sono “quasi senza spessore” ei suoi pilastri sono “quasi implausibilimente sottili”.[Lxiii] Sottraendo peso e densità all'edificio, SANAA investe nella “qualità riflettente e atmosferica” dei vetri “spesso curvi”, nei “loro diversi gradi di traslucenza e opacità”,[Lxiv] in modo tale che “nel solco della millenaria tradizione culturale del loro Paese”, il Giappone, Sejima e Nishizawa, sapessero “costruire il vuoto”[Lxv].

L'architettura di Museo di Arte Contemporanea del XXI secolo estrarrebbe, sempre secondo Wisnik, “una sensualità imprevista dall'inespressività”.[Lxvi] La sua paternità consisterebbe, paradossalmente, “nel trasmettere un sentimento di volontario anonimato in un mondo narcisistico ed esibizionista”, come testimoniano le forme esuberanti, o virtuosistiche, del archistar.[LXVII] Se nel secondo abbiamo il valore dell'esibizione nella produzione della forma, nel primo ci sarebbe la sua negazione: un'estetica della parsimonia che cancellerebbe, con la perizia tecnica, la struttura dell'edificio.[LXVIII] In questa direzione, direi che il Museo del XNUMX° secolo di Sejima e Nishizawa è una “architettura in dispiegamento” (sviluppo, nel termine di Maurice Blanchot) [LXIX]; e non una “architettura della decostruzione”, come quella di Peter Eisenman o Michael Graves che negli anni Settanta decostruirono, attraverso sezioni longitudinali e trasversali, il “sistema-segno” dell'architettura costruttiva o razionalista, ovvero: il cubo (in operazione simile alla decostruzione operata da Jacques Derrida delle nozioni di verità, soggetto o coscienza, che sono alla base della filosofia della rappresentazione).

L'architettura “sull'orlo dello sbiadimento” di Sejima, “che derealizza i suoi profili in ombre e riflessi”, apre, in altre parole, un vuoto centrale, un tempo di silenzio, una domanda senza risposta. [Lxx] L'“astratta immaterialità degli edifici di Sanaa”, nella formulazione di Wisnik, può essere caratterizzata, a mio avviso, dalla nozione di “non-espressione” (nel termine usato da Theodor Adorno a proposito di certa letteratura moderna); o anche: i suoi edifici possono essere visti come un'architettura di "inespressività"; o, infine, “l'espressione della non espressione”. [Lxxi] Questa nozione di “espressione della non espressione”, qui presa come correlato della nozione di sospensione, già accennata sopra, implica l'idea di indeterminazione – di apertura della forma, in senso estetico e politico. [Lxxii]

In fruizione dell'architettura del Museo del XNUMX° secolo de Sejima, come forma del “non soggettivo del soggetto”, avremmo, infine, il pathos di sospensione – una sorta di spaesamento della nostalgia – che non corrisponde all'idea di speranza, nel senso del progetto utopico dell'architettura moderna – ma come dicevamo a proposito della fruizione in Il progetto meteo di Eliasson - di un sentimento di attesa: "Succederà qualcosa?". L'edificio di Sejima è, quindi, una forma quasi immateriale di fronte alla quale "c'è ancora l'esperienza dell'inaccessibilità", poiché "questo esiste", "c'è", prendendo posto nella forma, come presenza muta davanti allo spettatore , “vicino a lui” e persino “in lui”: “un'immagine fluttuante, posticipata”, un “agitazione silenziosa”, ora nei termini di Georges Didi-Huberman. [Lxxiii]

Il quarto esempio della poetica del clouding che mettiamo in evidenza in “Dentro do fogio” è il “padiglione temporaneo” edificio sfocato progettato da Elizabeth Diller e Ricardo Scofidio per “Expo 2002, in Svizzera, con la consulenza dell'artista giapponese Fujiko Nakaya”.[LXXIV] È una forma artistica o architettonica di eccezione, quindi, resistente all'architettura aziendale egemonica nel mondo globale, derivante da effetti tecnologici. La sua forma è di bassa definizione, perché ha un alto livello di opacità o indeterminazione, prodotto dall'alta tecnologia: “Costruito sul lago NeuchâtelSu Yverdon-i-bagnarsi (Svizzera), edificio sfocato si tratta [nella caratterizzazione dell'autore che qui riassumiamo] “una piattaforma costituita da una maglia di struttura metallica cava, accessibile da un'estesa passerella, e circondata da una nuvola permanente d'acqua captata nel lago che era irrorata da microcontrollori computerizzati -irrigatori” [LXXV]. Sfumando i confini tra arte e architettura, questo padiglione – un “edificio di fumo integrato nei media” – sembra essere il risultato della trasposizione del sfumato dai dipinti di Leonardo da Vinci all'architettura. [Lxxvi] Secondo Elizabeth Diller è un “ambiente immersivo in cui il mondo è messo fuori fuoco, mentre la nostra dipendenza visiva è messa a fuoco [al centro]”; cioè, di fronte a ciò non ci sarebbe "nulla da vedere oltre la nostra dipendenza dalla vista".[Lxxvii]

Padiglione temporaneo di Elizabeth Diller e Ricardo Scofidio. Sfocatura Edificio. Expo 2002, Yverdon-i-bains, svizzera.

Da questa descrizione di Diller si può caratterizzare la fruizione di questa piattaforma come la percezione di una forma architettonica in stato nascendi. In un'archeologia dello sguardo, lo spettatore, in uno stato di attesa, coglierebbe un'immagine-forma ancora indefinita, ma che sarebbe sul punto di venire alla luce. Occorre scendere nelle nebbie (al bagliore) per poi accedere, ancora una volta, alla visione; cioè vedere le cose, di nuovo, come se fossero viste per la prima volta. Le nebbie sono dunque la negatività (l'informe) che anticipa l'immagine (la forma), o anche la preimmagine che è all'origine dell'ordine delle cose visibili. È in questo senso che questa “architettura come atmosfera” producendo “l'ostruzione forzata della visione” acquista una dimensione critica, in quanto si oppone al “rapido consumo visivo”, cioè al pronto riconoscimento dei segni, nella società contemporanea. spettacolo (in cui “l'immagine [cliché] è la forma finale della reificazione della merce”, come diceva Guy Debord). [LXXVIII]

O edificio sfocato, una “architettura in contumacia”, volto a produrre, secondo lo stesso architetto Ricardo Scofídio, un “sublime tecnologico” (che va differenziato dalle nozioni di “sublime digitale”, “sublime capitalista” o “sublime immanente”, che sono state presentate sopra). [LXXIX] Per il critico Mario Costa, in linea con gli studi di Lyotard sulla “Critica del giudizio” di Kant, le nuove tecnologie sarebbero il luogo privilegiato per la produzione di “sentimenti contrastanti”: “il sentimento negativo di terrore o impotenza” e il “sentimento contrario di meraviglia, ammirazione e stima”. [LXXX] Sarebbero le nuove tecnologie a rivelare “alla nostra natura fisica i propri limiti”, nello stesso momento in cui “la nostra natura razionale percepirebbe la propria superiorità”.[LXXXI]

Produrrebbero “un'esperienza negativa e spaventosa” – continua Costa in un'atmosfera kantiana – “l'enorme sforzo per superare i nostri limiti” – rivelando, paradossalmente, “il carattere illimitato e infinito della nostra finitezza”.[LXXXII] Le nebbie microelaborate esalterebbero, in altre parole, l'esperienza comune di essere finiti e allo stesso tempo possedere, secondo l'espressione di Kant, un “pensiero infinito”. [lxxxiii] Alluderebbero a ciò che è irrappresentabile, a ciò che va oltre la possibile rappresentazione. La “facoltà di giudizio riflessivo” attiverebbe, infine, l'immaginazione “verso un progresso infinito”, “alla pretesa della totalità che non può essere oggetto dei sensi” (in un effetto simile a quello dei pollini di luce dorata nella Turbine Hall di Il progetto meteo di Eliasson).[lxxxiv]

Questo nuovo universo tecnico del sublime tecnologico che viene sostituito da "Diller + Scofidio" in edificio sfocato, dalle installazioni all'interno di gallerie d'arte o musei all'architettura nei loro dintorni, nel cuore della città, si oppone così al gran numero di immagini vuote, immagini senza presenza, che non rappresentano altro che il vuoto, come quelle dei film blockbuster che prendono il virtuosismo tecnico come effettismo obbligatorio; così come le immagini dei videogiochi che stimolano l'interattività, qui intesa come interazione con il vuoto, o come fantomatica convivialità: la modalità attualmente egemonica della passività.

Questi sono alcuni esempi della poetica del clouding, nell'arte e nell'architettura raccolti da dentro la nebbia di Guilherme Wisnik, che qui commentiamo liberamente, assumendoci il rischio di infedeltà all'autore. In questa poetica la nebbia opera come forma di resistenza all'“ipervisibilità che sottende il sistema delle false trasparenze” nella società odierna.[lxxxv] Nelle opere che analizza, l'autore avvicinandosi ad Hal Foster mette in relazione l'architettura contemporanea con il minimalismo nelle arti, anche se c'è una distanza nel modo in cui i due autori concepiscono l'arte minimale.

Nel recuperare il dibattito che risale agli anni Sessanta, sulla fruizione di un'opera minimalista, Foster afferma che, di fronte agli oggetti di artisti come Donald Judd o Dan Flavin, lo spettatore si sposta incessantemente dalla “forma oggettivata” alla loro “configurazioni sensate” e viceversa; cosa che non si verificherebbe nella percezione delle installazioni “immersive”, “tecnosublimi” dei minimalisti James Turrell e Robert Irwin, perché in queste vi sarebbe un “abuso sensoriale”.[lxxxvi] “Contro le tendenze contemporanee di cancellazione e sublimazione della tettonica e della materialità nell'arte e nell'architettura”, Hal Foster ha così sottolineato la necessità di preservare “la tensione tra il letterale e il fenomenico”, o, come abbiamo detto, “tra forma oggettiva e forma percepita ”. [lxxxvii]

Vale la pena ricordare che l'insistenza di Hal Foster sull'evidenza della materia e della struttura – indici del vecchio ordine industriale capitalistico – operò come resistenza all'atrofia generalizzata della tettonica, così come al trionfo della pelle o dell'immagine edulcorata, nell'architettura del progetto digitale, autogenerato software di alta tecnologia ciechi alla presenza dell'utente. Foster ha precisato la sua concezione del godimento mostrando, ad esempio, come la mega-scultura di Serra, La questione del tempoA Museo Guggenheim Bilbao, di Frank O´Gehry, fornisce allo spettatore un'esperienza percettiva e cognitiva del tempo e del luogo, modificando la sua percezione del peso, della scala o della durata mentre sceglie, tra le alternative aperte dalle lastre autoportanti, quale direzione prendere , per poi, ad ogni nuovo passo all'interno di queste spirali d'acciaio, creare un nuovo “luogo”; mentre la scenografica facciata di questo museo, che ospita questa mega-scultura, sarebbe un fuoco fatuo di pelli di titanio, la cui "produzione è mitizzata": un "feticcio forma-merce su larga scala", nei termini dell'autore.[lxxxviii]

L'architettura “più fenomenale che letterale”, come la poetica dell'evanescente che mette in crisi la dialettica tra tettonica (la struttura, o letterale) e la pelle (l'immagine, o superficie), difesa da Hal Foster (che segue la lignaggio della tradizione dominante dell'architettura moderna e di una certa architettura brutalista contemporanea) non neutralizza, secondo Wisnik, il potere negativo della forma, anche perché – si può ipotizzare, rafforzando la sua posizione – ci sarà sempre qualche tensione, seppur residua , tra la materialità della forma e l'immaterialità della nebbia.

In ogni caso, è necessario distinguere la sensazione del sublime vissuta dallo spettatore di fronte a Il progetto meteo di Olafur Eliasson; o la sensazione del sublime tecnologico di fronte a edificio sfocato da Diller + Scofidio; oppure, ilpathos di sospensione delle facoltà” davanti alla pedana di Sejima e Nishizawa; dalla distrazione tecno-sublime la luce dà società dello spettacolo. Occorre opporre, in altre parole, una realizzazione estetica dirompente, situata tra arte e architettura, che opera come indice di alterità, di effetti tecnologici, pirotecnici e decorativi, di elettrointrattenimento, che non fa altro che riaffermare la realtà esistente.

Le forme della poetica del clouding sono, dunque, “spazi di attesa e indefinizione”, che si oppongono sia allo spazio tecnocratico fondato su “ordine ed efficienza” degli edifici aziendali, moderni o contemporanei che siano, sia a quello più “astratto e smisurato”. di internet cloud, tipico del “capitalismo globalizzato, virtualizzato”.[lxxxix] Quest'arte/architettura dell'indeterminato – così come i lotti vuoti o i “punti morti” ancora presenti nelle città contemporanee – sono “serbatoi di possibilità d'uso [ancora] non confinate dagli strumenti del potere e della ragione astratta”.[xcc]

Forse queste rapide considerazioni non rendono giustizia alle sfumature di dentro la nebbia, ma si spera almeno che abbiano dimostrato che questo è un libro che sfida piacevolmente il lettore, costringendo il suo pensiero oltre ciò che è già noto. Poiché egli attiva la sua immaginazione facendo scattare la sirena delle sue analogie, quanto detto sopra non traduce fedelmente la lettera di questo libro, dalla prosa limpida e dalla rara orditura, che si è costituito, sin dal suo esordio, come riferimento obbligato per la critica riflessione sulle pratiche crociate di arte e architettura nel capitalismo digitale-finanziario. Guilherme Wisnik non solo evidenzia l'esistenza di forme di resistenza artistiche e architettoniche, ma le assume come un sintomo del dramma vissuto dalla percezione nel nostro tempo di estetizzazione generalizzata: “Comunque, cosa sta succedendo alle immagini?”.[xci]

Nella poetica dell'annebbiamento, in cui l'effetto fenomenico trionfa sul letterale, si instaura una zona di indeterminazione approssimabile al gioco che unisce presenza e assenza, che ci conduce, come abbiamo visto, alla nozione di figurabilità, in Lyotard: “il desiderio esiste in quanto il presente è assente da sé, o il presente assente”[xcii]; o ancora alla sua estetica della “presenza immateriale”, concepita a partire dalla sua interpretazione dell'“analitica del sublime” di Kant.[xciiii]

La fruizione delle opere commentate è un sentimento di stupore nell'attesa, un'apertura fondamentale oltre la loro sottomissione al paradigma della comunicazione, dato che questi spettatori vivrebbero l'esperienza di un linguaggio che non comunica, o meglio, di una “comunicazione… senza comunicazione”. ”, in quanto non esprime il soggetto né si riferisce all'oggetto (o referente). [xciv] Sarebbe a causa della traslucenza o del tremolio delle forme architettoniche che si ribellerebbero contro la smoderatezza della bellezza (all'immanente o al sublime digitale). Sotto forma di presenza immateriale, quest'arte/architettura, conservando un livello di opacità, aprirebbe un campo di indeterminatezza rispetto al divenire, sottraendosi alla comunicazione quotidiana e all'immagine egemonica che rafforza la realtà data.

*Ricardo Fabbrini È professore presso il Dipartimento di Filosofia dell'USP. Autore, tra gli altri libri, di L'arte dopo le avanguardie (Ed. Unicamp).

Versione parzialmente modificata di “Poetica dei materiali nell'architettura contemporanea”, pubblicata sulla rivista Rapsodia: Almanacco di filosofia e arte, no. 14.

Riferimento

Guglielmo Wisnik. Dentro la nebbia: architettura contemporanea, arte e tecnologia. San Paolo, Ubu Editora, 2018, 192 pagine.

Bibliografia.

ADORNO, Teodoro. teoria estetica. Traduzione di Arthur Mourao. Lisbona: Ed. 70, 1982.

AGAMBE, Giorgio. Cos'è il contemporaneo? e altri saggi. Tradotto da Vinicius Nicastro Honesko. Chapecó: Argos, 20009.

BAUDRILLARD, Jean. A tutto schermo, mito-ironia dell'era del virtuale e dell'immagine. Traduzione di Juremir Machado da Silva. Porto Alegre: Sulina, 3a edizione, 2005.

BOURRIAUD, Nicolas. estetica relazionale. Tradotto da Denise Bottmann. San Paolo: Martins Fontes, 2009.

BLANCHOT, Maurizio. Spazio letterario. Traduzione di Álvaro Cabral. Rio de Janeiro: Rocco, 1987.

COSTA, Mario. Il sublime tecnologico. Traduzione di Dio Davi Macedo. San Paolo: Esperimento, 1995.

DA VINCI, Leonardo. Trattato di pittura. Traduzione Angel Gpnzález Garcia. Madrid: Ediciones Akal, 7°. edizione, 2010.

DELEUZE, Gilles. “Post scriptum sulle società di controllo”. In: Conversazioni: 1972-1990. Tradotto da Peter Pál Pelbart. San Paolo: editore 34, 1992.

DIDI-HUBERMAN, Georges. Cosa vediamo, cosa ci vede. Tradotto da Paolo Neves. San Paolo: Ed. 34, 1998.

FAVARETTO, Celso. L'invenzione di Hélio Oiticica. San Paolo: Edusp, 1992,

FOSTER, Hal. Il complesso arte-architettura. Traduzione di Celia Euvaldo. San Paolo: Cosac & Naify, 2015.

FOUCAULT, Michele. “Altri Spazi”. In: Detto e scritto III: Estetica: letteratura e pittura, musica e cinema. Traduzione di Inês Autran Dourado Barbosa. Rio de Janeiro: Università Forense, 2001.

GILPINO, Guglielmo. Saggio sulle stampe. Londra: Creative Media Partner, 2019.

HANSEN, João Adolfo; “Postmoderno & Cultura”. In: CHALUB, Samira. Postmoderno: semiotica, cultura, psicoanalisi, letteratura, arti plastiche. Rio de Janeiro: Imago Editora, 1994.

KANT, Emanuele. Revisione della facoltà di giudizio. Tradotto da Valerio Rohden e Antonio Marques. Rio de Janeiro: Università Forense, 1993.

LIPOVETSKY, Gilles & SEBASTIEN, Charles. Tempi ipermoderni. Traduzione di Mario Vitela. San Paolo: Barcarola, 2004.

LYOTARD, Jean-Francois. Perché filosofare?. Traduzione di Marcos Marcionilo. San Paolo: Parabola, 2013.

___________________, L'assassinat de l'experiénce par la peinture: Jacques Monory. Pandin: Il Castor Astrale, 1984.

___________________, Il postmoderno. Traduzione di Ricardo Corrêa Barbosa. Rio de Janeiro: José Olimpio, 1984.

___________________, L'Inumano: considerazioni sul tempo. Traduzione di Ana Cristina Seabra e Elisabete Alexandre. Lisbona: Estampa, 1989.

___________________, Que Peindre?: Adami, Arakawa e Buren. Parigi: edizioni della differenza, 1987.

PARENTE, Andrea. (ed.). Immagine-macchina: l'era delle tecnologie virtuali. Tradotto da Eugênio Luz et alii. Rio de Janeiro: ed. 34, 1993.

WISNIK, William. Stato critico: alla deriva nelle città. San Paolo: Publifolha, 2009.

_______________, & Giulio Mariutti Spazio in costruzione: città, arte, architettura. San Paolo: Edições SESC, 2018.

note:

[I] WISNIK, William. Dentro la nebbia, San Paolo: Ubu/Fapesp, 2018, pag. 15;31-33;174; cfr. anche dell'autore & Julio Mariutti l'articolo “Minimalismo pop”. In: Spazio in costruzione: città, arte, architettura. San Paolo: Edições SESC-San Paolo, 2018, pp. 172-173.

[Ii] In questo libro, l'autore mobilita sia la critica dell'arte e dell'architettura sia la riflessione estetica contemporanea di autori provenienti da diversi background teorici, come Walter Benjamin; Gilles Deleuze; Roland Barthes; Jean Baudrillard; Jean-François Lyotard; Nicolas Bourriaud; Fredric Jameson, Hal Foster; Georges Didi-Hubermann; o Slavoj Zizek.

[Iii] Ibidem, p. 167.

[Iv] Il libro non si sofferma sul dibattito sui termini moderno e postmoderno. Vicino alla periodizzazione di Gilles Lipovetsky, Wisnik colloca agli anni Ottanta la cosiddetta architettura “postmoderna” – che seguì la fine del progetto moderno in architettura che risaliva agli inizi del Novecento –, riservando il termine “architettura contemporanea ” designare l'architettura postmoderna (dagli anni '1980 agli anni 1990); evidenziando, ovviamente, la polemica attorno al termine “contemporaneo”, come ha mostrato Giorgio Agamben: “il contemporaneo è colui che non si lascia accecare dalle luci del suo secolo, perché percepisce il buio del suo tempo come qualcosa che lo riguarda e non smettere di interrogarlo”. (AGAMBEN, Giorgio. Cos'è il contemporaneo? e altri saggi. Tradotto da Vinicius Nicastro Honesko. Chapecó: Argos, 20009, p. 63; cfr. anche LIPOVETSKY, Gilles. & SEBASTIEN, Charles. Tempi ipermoderni. Traduzione di Mario Vitela. San Paolo: Barcarolla, 2004, pp. 51-101; e, infine, WISNIK, 2018, p.301). Dunque, anche senza ricostituire il dibattito, ora opportunamente tracciato, sulla presunta fine del progetto moderno, o addirittura sulla proclamata “morte dell'arte”, o almeno di una certa idea di arte – quella dell'arte moderna legata da artisti d'avanguardia e critici d'arte del XX secolo, alle nozioni di rivoluzione e utopia - l'autore costruisce, tra i tanti aspetti, una lunga storia dell'architettura (dall'inizio del secolo scorso all'inizio del nostro secolo) nella prospettiva di A poetica dei materiali.

[V] Ivi, p.277.

[Vi] Ivi, p.7.

[Vii] Ivi, p 7.

[Viii] Ivi, p. 28. Vedi anche i commenti dell'autore a Colin Rowe e Robert Slutzky, fondamentali per la sua argomentazione: "Trasparenza: letterale e fenomenale", prospettiva, NO. 8, 1963, pag. 167.

[Ix] WISNIK, G. p.7.

[X] BENJAMIN, W. “Esperienza e povertà”. In: Walter Benjamin, Magia e tecnica, arte e politica: Saggi di letteratura e storia culturale. Opere scelte: volume 1. São Paulo: Brasiliense, 2nd. edizione, 1986, pag. 117.

[Xi] Ibid.

[Xii] Ivi, p.118.

[Xiii] JAMESSON, F. apud WISNIK, G., p. 201. Cfr. anche “Postmodernismo e società dei consumi”. In: JAMESON, Federico. la svolta culturale. Rio de Janeiro, 2006, pp. 17-44.

[Xiv] BAUDRILLARD, J. Simulacri e simulazione. Lisbona: Antropo: p. 197. Questo scenario di puro artificio che è l'atrio del Bonaventure Hotel, con le sue superfici lucide e specchianti, disorienta talmente il corpo sensomotorio del visitatore da non riuscire più a localizzarsi al suo interno. Questa impossibilità di mappatura cognitiva dell'“iperspazio” dell'Hotel – che rimanda alle nozioni di “non luogo” di Marc Augé e di “spazio spazzatura” di Rem Koolhaas – è andata rapidamente aumentando negli ultimi due decenni, come mostra l'autore; basta guardare "applicazioni come Google Maps e Waze”, che portano a “un [ancora maggiore] declassamento della nostra cognizione dello spazio”. (WISNIK, p. 201).

[Xv] WISNIK, pag. 9.

[Xvi] Ivi, p.15.

[Xvii] Ibid.

[Xviii] FOSTER, Hal. Il complesso arte-architettura. San Paolo: Cosac & Naify, 2015, p. 151.

[Xix] Ivi, p.152.

[Xx] DA VINCI, Leonardo. Trattato della pittura. Madrid: Ediciones Akal, 7°. edizione, 2010, pp. 344-345.

[Xxi] Cfr. GILPINO, Guglielmo. A Saggio sulle stampe. Londra: Creative Media Partner, 2019.

[Xxii] WISNIK, p.307.

[Xxiii] A proposito dell'attacco a Torri Gemelle, dice Wisnik: “Questo è ciò che vediamo nelle splendide foto di strada di quel giorno: un terribile tifone provocato dall'uomo, sulla scala monumentale di una città di torri, come un'apocalittica catastrofe post-naturale, che fa piovere polvere e carta sulla città (azioni, titoli finanziari, capitale fluttuante?), in una sorta di sinistro carnevale. E, oltre, il fumo nero dell'incendio delle torri – come se la città si fosse improvvisamente trasformata in un campo di esplorazione petrolifera –, il fumo bianco del momento della loro caduta, la nube giallastra che aleggiava negli strati più bassi delle città dopo, posandosi come fuliggine sulla gente, e l'intensa foschia grigia che ha coperto New York per settimane e che, simbolicamente, aleggia ancora nell'aria, dando l'impressione che non si dissiperà tanto presto. Un presagio, forse, della nube tossica del capitale finanziario in fiamme che colpì la città (e il mondo) sette anni dopo, con il crollo della banca d'affari Lehman Brothers il 15 settembre 2008 – quest'altra nube è, ovviamente, solo simbolica . (WISNIK, p. 153). Permettetemi di aggiungere a questo elenco di nebbie tanatologiche, le nuvole verdastre trasmesse in tv, in diretta, al mondo intero, il 17 gennaio 1991, causate dai bombardamenti del Kuwait e dell'Iraq da parte degli Stati Uniti, che allora guidavano una forza di coalizione internazionale, innescando, via satellite, il “ War do Golfo”: “In tv, la Guerra del Golfo è stata uno spettacolo istantaneo che prescindeva da ogni mediazione narrativa come interpretazione della storicità dell'evento, poiché evento e cronaca erano simultanei. La morte non è mai stata vista, ma la sua finzione naturale, amplificata nelle modalità razionalizzate della sua produzione come natura fittizia: i bombardamenti su Baghdad erano ecletticamente belli, verdi e blu post-utopici di missili decostruttori, nuvole gialle di esplosioni e tende nere di ideologia , viola scuriti di fumo neoliberista contro un cielo blu cobalto fondamentalista, dialetticamente ritmati dall'armonia curda dei crolli performativi – come un set di Spielberg, un film di Greenaway, una tela neobarocca, un video neokitsch, l'opera totale, wagneriana e portatile, consumata a casa nella totale parità dei tempi, contemporanea come il romanzo cavalleresco, l'impero romano, il marketing politico dell'etica e della morale, i dischi volanti, la mancanza di materia e il popcorn”. (Cfr. HANSEN, João Adolfo; “Postmoderno & Cultura”. In: Samira Chalub (org). Postmoderno: semiotica, cultura, psicoanalisi, letteratura, arti plastiche. Rio de Janeiro: Imago Editora, 1994, p. 80).

[Xxiv] DELEUZE, Gilles. “Post scriptum sulle società di controllo”. In: Conversazioni: 1972-1990. San Paolo: editora 34, 1992, p.223.

[Xxv] WISNIK, pp. 101.

[Xxvi] DELEUZE, Gilles, p.224.

[Xxvii] Ibidem, pag. 225.

[Xxviii] WISNIK, pp. 101; 297.

[Xxix] WISNIK, pag. 297. Cfr. anche LYOTARD, Jean-Francois. L'assassinat de l'experiénce par la peinture: Jacques Monory. Pandin: Le Castor Astral, 1984, p. 74.

[Xxx] LYOTARD, 1984, p. 108. Cfr. anche LYOTARD, Jean-Francois. il postmoderno. Rio de Janeiro: José Olympio, 1984, pag. XVII.

[Xxxi] LIOTARD, JF. L'assassinat de l'experience par la peinture: Jacques Monory, P. 149.

[Xxxii] KOSKY, Jeffrey L. apud WISNIK, p. 289.

[Xxxiii] WISNIK, pp. 119; 255.

[Xxxiv] WISNIK, pag. 133.

[Xxxv] Ibid.

[Xxxvi] ARANTES, Otilia. “Berlino riconquistata”. In: Berlino e Barcellona: due immagini strategiche. San Paolo: Annablume, 2012, p.125.

[Xxxvii] Ibidem, pag. 112.

[Xxxviii] WISNIK, pag. 137.

[Xxxix] Ibidem, pag. 139.

[Xl] Idem, p.133.

[Xli] Ibid.

[Xlii] LACAN, Jacques. Seminario, libro 11: i quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Rio de Janeiro: Zahar, 2008, pag. 76.

[Xliii] FATORELLI, Antonio. Fotografia contemporanea: tra cinema, video e nuovi media. Rio de Janeiro: Senac Nacional, 2013, p.177.

[Xliv] WISNIK, p.135

[Xlv] KIAROSTAMI, Abas apud FATORELLI, A. fotografia contemporanea, tra cinema, video e nuovi media, p. 127.

[Xlvi] BARTHES, Rolando. La camera lucida: appunti sulla fotografia. Rio de Janeiro: Nova Fronteira, 1984, pag. 15.

[Xlvii] BARTHES, Rolando. La camera lucida: note sulla fotografia. Rio de Janeiro: Nova Fronteira, 1984, pag. 15.

[Xlviii] RANCIERE, Jacques. lo spettatore emancipato. San Paolo: WMF; Martins Fontes, 2012, p. 105.

[Xlix] Ivi, p.41.

[L] Ivi, p.166.

[Li] Ivi, p.89.

[Lii] WISNIK, pag. 281

[Liii] Ibidem, pag. 283.

[Liv] KANT, Emanuele. Revisione della facoltà di giudizio. Rio de Janeiro: Forense Universitária, 1993, pp. 26; 98. Facciamo questo parallelo osservando che il sublime, per Kant, non è l'oggetto, ma la disposizione della mente attraverso una rappresentazione che occupa la facoltà del giudizio riflessivo.

[liv] LYOTARD, Jean-Francois. Que Peindre?: Adami, Arakawa e Buren. Parigi: edizioni della differenza, 1987.

[Lvii] LYOTARD, Jean-Francois. L'Inumano: considerazioni sul tempo. Lisbona: Estampa, 1989, p. 95.

[Lviii] FAVARETTO, Celso. L'invenzione di Hélio Oiticica. San Paolo: Edusp, 1992, pp.66; 92.

[Lix] BAUDRILLARD, Jean. A tutto schermo, mito-ironia dell'era del virtuale e dell'immagine. Porto Alegre: Sulina, 3a edizione, 2005.

[Lx] BARTHES, Rolando. O Neutro: Appunti di lezioni e seminari tenuti al Collège de France 1977-1978. San Paolo: Martins Fontes, 2003, p. 27.

[Lxi] LIPOVETSKY, Gilles & SEBASTIEN, Charles. Tempi ipermoderni. San Paolo: Barcarolla, 2004, p. 55.

[LXII] WISNIK, ibidem, p.25.

[Lxiii] WISNIK, pag. 27.

[Lxiv] Ibid., p.25. È interessante notare come Kazuyo Sejima, in modo critico, abbia associato i livelli di “traslucenza e opacità” delle sue forme sinuose e spettrali, con la mancanza di “profondità e trasparenza” del “mondo digitale contemporaneo” (opponendosi così IL ideologia secondo cui ciò che prevale nel mondo virtuale è la “piena visibilità”). WISNIK, Ibid.

[Lxv] Ibid.

[Lxvi] Ivi, p.23.

[LXVII] Ivi, p.27.

[LXVIII] È vero che il “Museo d'Arte Contemporanea del XXI Secolo” di SANAA può essere visto anche, è bene aggiungere, come un esibizionismo al contrario: come un'ostentazione di sobrietà nella forma.

[LXIX] BLANCHOT, Maurizio. Spazio letterario. Rio de Janeiro: Rocco, 1987.

[Lxx] WISNIK, pag. 27.

[Lxxi] Cfr. ADORNO, Teodoro. teoria estetica. Lisbona: Ed. 70, 1982.

[Lxxii] Questo tentativo di spersonalizzazione – che attribuiamo a Kazuyo Sejima – di abbandonare la forma del soggetto dalla forma architettonica, rendendo il linguaggio impersonale (in architettura) rimanda anche alle nozioni di “mutismo”; di “forza senza forma”, “neutrale” o “espropriatrice”, presente in Maurice Blanchot, Georges Bataille, Roland Barthes o Michel Foucault.

[Lxxiii] DIDI-HUBERMAN, Georges. Cosa vediamo, cosa ci vede. San Paolo: Ed. 34, 1998, pp. 129;169.

[LXXIV] WISNIK, pag. 291.

[LXXV] Ibid.

[Lxxvi] Ibid.

[Lxxvii] DILLER, Elizabeth apud WISNIK, ibidem.

[LXXVIII] RENDELL, Jane; apud WISNIK, p. 293.

[LXXIX] WISNIK, pag. 301.

[LXXX] COSTA, Mario. Il sublime tecnologico, Esperimento, 1995, p.22.

[LXXXI] Ibid.

[LXXXII] Ibid.

[lxxxiii] KANT, Emanuele. Critica della Facoltà di Giudizio, pp.139;142.

[lxxxiv] Ivi, p. 17;19;40.

[lxxxv] WISNIK, pag. 273.

[lxxxvi] FOSTER, Hal. Il complesso arte-architettura, P. 230-243.

[lxxxvii] WISNIK, pag. 33; 85.

[lxxxviii] Ivi, p.152.

[lxxxix] WISNIK, p.21;129;223.

[xcc] WISNIK, pag. 129. È possibile congetturare se le nozioni di terreno vago o “dead lot” – come quelli occupati dall'artista Gordon Matta-Clark, a New York, negli anni Settanta – ovvero spazi interstiziali o vacuoli urbani, di natura indefinita e metamorfica, e quindi difficilmente rappresentabili, non potevano essere così vicini alle nozioni di “piattaforma” o “stazione” caratterizzate dal critico e curatore Nicolas Bourriaud come “spazi per la gestazione di nuovi modi di vivere”; quanto della nozione di “eterotopia” intesa da Michel Foucault come “contrapposizioni in luoghi reali”; cioè come “luoghi che paradossalmente sarebbero fuori da tutti i luoghi”, ma che ritroveremmo all'interno di spazi sociali esistenti. Cfr. WISNIK, pag. 1970; BOURRIAUD, Nicolas. estetica relazionale. San Paolo: Martins Fontes, 2009, p.29; FOUCAULT, Michele. “Altri Spazi”. In: Detti e Scritti III: Estetica: letteratura e pittura, musica e cinema. Rio de Janeiro: Forense Universitária, 2001, p. 415. Dopo tutto, gli utenti in Sala delle turbine na Tate Modern, A Londra; al Museu de Arte Contemporânea da SANAA a Kanazawa; o nel padiglione edificio sfocato de Diller+Scofidio a “Expo 2002”, a Yverdon-les-Bains, non vivrebbero un altro modo il mondo esistente, anche se solo per un certo tempo, dando concretezza a queste nozioni di Bourriaud e Foucault? Questa congettura, tuttavia, potrebbe essere un'associazione abusiva, quindi estranea all'intenzione dell'autore.

[xci] BAUDRILLARD, Jean. Simulacri e simulazione, pag. 105;201.

[xcii] LYOTARD, Jean-Francois. Perché filosofare?. San Paolo: Parábola, 2013, p. 61.

[xciiii] LYOTARD, Jean-Francois. L'Inumano: considerazioni sul tempo, P. 90.

[xciv] Lyotard, J.F. "Qualcosa come: comunicazione… senza comunicazione”. In: Parente, A. (org.). Macchina per immagini: l'era delle tecnologie virtuali. Rio de Janeiro: ed. 34, 1993, pag. 93.

Vedi tutti gli articoli di

I 10 PIÙ LETTI NEGLI ULTIMI 7 GIORNI

Il complesso dell'Arcadia della letteratura brasiliana
Di LUIS EUSTÁQUIO SOARES: Introduzione dell'autore al libro recentemente pubblicato
Forró nella costruzione del Brasile
Di FERNANDA CANAVÊZ: Nonostante tutti i pregiudizi, il forró è stato riconosciuto come manifestazione culturale nazionale del Brasile, con una legge approvata dal presidente Lula nel 2010
Il consenso neoliberista
Di GILBERTO MARINGONI: Le possibilità che il governo Lula assuma posizioni chiaramente di sinistra nel resto del suo mandato sono minime, dopo quasi 30 mesi di scelte economiche neoliberiste.
Gilmar Mendes e la “pejotização”
Di JORGE LUIZ SOUTO MAIOR: La STF decreterà di fatto la fine del Diritto del Lavoro e, di conseguenza, della Giustizia del Lavoro?
Cambio di regime in Occidente?
Di PERRY ANDERSON: Dove si colloca il neoliberismo nel contesto attuale dei disordini? In condizioni di emergenza, è stato costretto ad adottare misure – interventiste, stataliste e protezionistiche – che sono un anatema per la sua dottrina.
Il capitalismo è più industriale che mai
Di HENRIQUE AMORIM & GUILHERME HENRIQUE GUILHERME: L'indicazione di un capitalismo industriale di piattaforma, anziché essere un tentativo di introdurre un nuovo concetto o una nuova nozione, mira, in pratica, a indicare ciò che viene riprodotto, anche se in una forma rinnovata.
L'editoriale di Estadão
Di CARLOS EDUARDO MARTINS: La ragione principale del pantano ideologico in cui viviamo non è la presenza di una destra brasiliana reattiva al cambiamento né l'ascesa del fascismo, ma la decisione della socialdemocrazia del PT di adattarsi alle strutture di potere
Incel – corpo e capitalismo virtuale
Di FÁTIMA VICENTE e TALES AB´SÁBER: Conferenza di Fátima Vicente commentata da Tales Ab´Sáber
Il nuovo mondo del lavoro e l'organizzazione dei lavoratori
Di FRANCISCO ALANO: I lavoratori stanno raggiungendo il limite di tolleranza. Non sorprende quindi che il progetto e la campagna per porre fine al turno di lavoro 6 x 1 abbiano avuto un grande impatto e un grande coinvolgimento, soprattutto tra i giovani lavoratori.
Umberto Eco – la biblioteca del mondo
Di CARLOS EDUARDO ARAÚJO: Considerazioni sul film diretto da Davide Ferrario.
Vedi tutti gli articoli di

CERCARE

Ricerca

TEMI

NUOVE PUBBLICAZIONI