Sbriciolare gli scenari

Ricardo Hamilton, Crescita e forma, 2014
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da PABLO PETRAVICIUS VIEIRA*

Considerazioni sullo spettacolo teatrale Lo straniero

Il pezzo Lo straniero, basato sull'acclamato testo di Albert Camus, guadagna nuova vita sotto la direzione di Vera Holtz e attraverso l'interpretazione di Guilherme Leme Garcia. La storia segue le disavventure di Meursault, un uomo comune e senza pretese, che si reca al funerale di sua madre. Il giorno successivo, viene coinvolto in una passione sensuale con un ex collega. Testimonia a favore di un amico accusato di violenza domestica, solo perché gli aveva chiesto un favore e, per caso, uccide un arabo sulla spiaggia. Processato e condannato a morte, Meursault affronta un destino tragico.

Quando lo spettacolo inizia, il palco si rivela quasi vuoto: una panchina e un uomo disteso nella penombra, che si alza e pronuncia la famosa frase di apertura: “Oggi è morta la mamma. Forse era ieri, non lo so”. L'annuncio della morte viene ricevuto tramite una nota. La panca, semplice e multifunzionale, funge da elemento scenico flessibile, mentre la scena buia, con i teli neri sullo sfondo, ci colloca nel punto inaugurale e ambiguo della rappresentazione e della vita, per quanto assurda, e ci invita a ricostruire mentalmente le scene . Troviamo la pièce così: le ambientazioni in cui le giornate trascorrevano senza crisi sono crollate per perpetuare la monotonia delle giornate di Meursault, arricchita però dai colori che ci giungono attraverso i gesti e le descrizioni dell'attore.  

Lo spettacolo è composto da un unico attore che assume i ruoli di personaggio e narratore, avvicinandosi intensamente al pubblico, suo bersaglio, e pronto a catturare il cuore e la coscienza degli spettatori, che, seduti nell'ombra, diventano testimoni dell'azione di Meursault. destino. Rappresenta, in una certa misura, il destino di ognuno. Sebbene il personaggio descriva gli avvenimenti e i suoi sentimenti (ridotti alle sue sensazioni fisiche), e i dialoghi degli altri personaggi siano presentati attraverso il solo attore, è al pubblico che si confessa. Instaura una complicità con il pubblico, con lo spettatore nascosto dai fatti, che si nasconde dietro le linee immaginarie del testo o le sagome sfocate degli spalti. A volte si rivolge direttamente a loro.

Il costume di Guilherme, una tuta dai toni sobri, completa la proposta minimalista del set. Mette in risalto il volto dell'attore, rendendolo ipnotizzante e permettendo al pubblico di credere, per un momento, che la fuga di Meursault dalla condanna a morte sia riuscita e che lo incontriamo su questo palco nascosto in cui ci presenta la testimonianza della sua vicenda con la vita. La tuta è in grado di articolare la percezione diffusa tra il lavoratore ordinario, il prigioniero e il mestiere dell'attore. L'attore ha saputo esaltare l'acidità di un pudore così profondo che può raggiungere l'indifferenza di chi non trova più alcun valore al di là della vita che i suoi occhi attestano. In questo modo, Meursault diventa un corpo, materializzato nell'attore, e nelle sue forze, sia di seduzione che di distruzione, come qualsiasi altro corpo al mondo. L'obiettività con cui è imposta la scena e il modo in cui è narrato il testo è tale che è capace di esprimere sarcasmo senza essere intenzionalmente sarcastico. L'effimero risalta nella vita di tutti i giorni, dove appare più fermo, a volte eterno. Lo straniero risuona di un'attiva inanizione intellettuale che traspare nel discorso inquietante pronunciato dal personaggio, con il tono profetico di chi si ritrova aggrappato a una verità spiacevole: “ci abituiamo a tutto”.

Se leggere l'opera può risultare sconcertante, assistere allo spettacolo è un'esperienza travolgente che completa e arricchisce il testo originale. Lo spettacolo rivela la necessità di una messa in scena, che amplifica la forza vitale dell'opera letteraria. Nel dramma del personaggio Meursault è evidente il desiderio da lui contenuto di possedere un corpo, una voce e un volto. A questo proposito, la performance di Guilherme è così vivida e convincente che, spettacolarmente, sembra essere il volto nascosto dell'eroe taciturno. Il suo tono di voce, aspro e potente, accompagnato da una dizione leggermente nasale, risuona della tagliente modestia del personaggio, propagandosi nella cattedrale del teatro echeggia l'inadeguatezza dell'attore-personaggio di fronte alle esigenze della vita.

È possibile percepire nella voce di questo attore la confluenza menzionata da Albert Camus, secondo cui la voce “è sia dell'anima che del corpo”. Ispira la verità per la quale le onde sonore che la animano sono essenziali, soprattutto il fatto innegabile dello stupore della coscienza esitante di fronte alle forze che sovrappongono l'identità frammentata di questo straniero sulla terra, di questo esilio dal mondo, di questo uomo apolide che trova nel corpo di questo attore la sua espressione.

Sebbene lo spettacolo si sia svolto in inverno, il teatro buio è soffocato dal calore solare che si propaga dal palco. Siamo schiacciati dalla stessa nebbia che insegue esaurientemente Meursault nella trama. Puoi sentire il ristoro di una nuotata nel mare algerino. Le scene richiedono l'invasione di paesaggi e sensazioni, riflettendo il modo in cui Meursault vive la vita, svuotandone il contenuto soggettivo: attraverso le sensazioni corporee. Albert Camus contrappone la vita felice percepita nell'epidermide al colpo di un proiettile, sovvertendo l'equilibrio di una felice giornata in spiaggia, intervenendo sulla storica follia dell'uomo nella natura. Quante volte l'uomo non ha saputo ripetere la sua condanna?

Lo straniero di Albert Camus si inserisce in questa strana esperienza della consapevolezza che la vita procede nonostante tutto il desiderio di giustizia e di correzione della realtà da parte degli uomini seri. È la sensazione di non appartenere alla casa che dovrebbe essere, in definitiva, la più familiare di noi stessi. Questa ambiguità all'interno dell'identità esplora il distacco dell'esilio dalla realtà e la soggettività frammentata. Mette in luce l'intrigante sensazione in cui si materializza l'assurdo, grande tema di Albert Camus, il rapporto sproporzionato tra il bisogno umano e il mondo insensato che lo circonda, come realtà che lottano per superare un accordo artificiale. Meursault, a sua volta, si getta nell'abbandono totale, nell'incontro naturale del suo essere, immerso e governato secondo le forti sensazioni della natura.

C'è quindi la ricerca di un incontro, di un tocco, di un tuffo in mare, di un labbro sincero, di un bacio di Marie – che, seppur spettrale e calda nell'immaginazione, non è presente sulla scena. Tuttavia, l'eccesso di sole sulla testa di Meursault fa “vacillare tutto”. L'incontro casuale con un arabo che lo sfida, unito all'intensità del sole, provoca una lacrima di sudore salato che gli brucia gli occhi, simboleggiando la cecità e la morte. Ha appena ucciso un arabo anonimo.

Poi ha luogo un processo assurdo che mette in discussione le banalità e le meschinità di Meursault, cioè ogni aspetto della sua vita. Questa banale percezione viene utilizzata per giustificare il suo crimine e la sua punizione, rivelando l'insensibilità cognitiva e morale che permea la sua esistenza. Condannato a morte, trascorriamo alcuni giorni – o meglio, alcuni minuti – con Meursault in prigione, assistendo alla sua rivolta conflittuale contro il prete che lo tormentava con promesse di salvezza eterna.

Meursault è ribellato alle illusioni umane e, allo stesso tempo, immerso in una comprensione profondamente incarnata di se stesso e situato nell'estrema brevità del suo tempo. Cosa succede nell'ultimo secondo nella mente di un condannato a morte, in attesa della ghigliottina? Alla fine, per Meursault, non importa se vive per sempre o muore tra dieci o vent'anni; succede lo stesso. È andato troppo oltre nel suo svuotamento psichico. C'è senso di colpa in questo? È vivido, cosciente, aggrappato alla terra bruciata da cui non riesce a staccarsi.

Lui però è colpevole non solo del delitto, ma di tutto: di aver messo la madre in manicomio, di aver mostrato insensibilità al funerale, e di essere stato complice, anche se per mera convenienza, della violenza coniugale dell'amico. È colpevole di tutto e quindi la sua condanna è la morte. È colpevole di non aver pensato ad altro dal giorno in cui sua madre, pur essendo meno colpevole, ha eseguito la pena indicata nella nota. Ma, se c'è un colpevole, è il sole che gli colpisce il volto, l'immagine splendente del coltello del nemico, il tremolio delle sue dita sulla rivoltella. L'eccesso di sole e l'incontro con l'arabo culminano in un processo assurdo che esamina la banalità della sua vita come le vere condizioni del suo crimine.

In prigione, Meursault, davanti al prete, si oppone a Dio perché sia ​​un incallito alleato del suo tempo, snervando il presente e tutte le sensazioni che lo colpiscono in faccia e dice che se potesse scegliere un'altra vita, gli piacerebbe averne una potrebbe ricordare lo stesso in cui vivi attualmente.

L'opera raggiunge il ridicolo della monotonia. Tuttavia, riesce a creare le calde sensazioni che circondano Meursault. Ci fa sentire le curve e le carezze di Marie, la sinergia con le onde del mare, possiamo vedere, continuamente, i paesaggi dell'Algeria, dove si svolgono gli eventi. Lo spettacolo si svolge in inverno, in un teatro prevalentemente buio e ci trasporta ancora nell'immaginazione in un'aria pesante, illuminata e soffocante.

Questa sensazione di essere nella testa di Meursault, pertinente all'opera e alla funzione di unico personaggio/narratore, invade anche noi, ci infastidisce, dimostra come ci addormentiamo di fronte a tante usanze e illusioni che, se potessimo vedere veramente noi stessi, saremmo angosciati e se potessimo sentire la dissonanza tra la realtà e le nostre aspettative, questa sproporzione dell'assurdo, osserveremmo come queste idee possano far crollare gli scenari dei nostri pensieri.

L'indifferenza imposta anche nel buio pesto è sapere che non c'è verità nelle cose serie e ciò che conta è la sensazione che la distanza e la solitudine ci avvicinano a una strana certezza nella natura. È assurdo lasciarsi trasportare dai ritmi della natura e dalle sue sensazioni. La naturalezza con cui si realizza l'indifferenza è sproporzionata, però è astuta perché è superficiale e profonda, in fondo ad una luce, perché ne ristabilisce l'equilibrio, perché riempie il suo essere vuoto con le nebbie del mare, però , senza ancora sapere cosa il vagabondare di tanta fortuna riserverà.

Il pezzo si distingue per esplorare la disconnessione con i significati razionali della realtà, sottolineando un significato naturale che sovrappone la mortalità alla vita eterna. Sebbene lo spettacolo sia turbato dall'interconnessione tra metafisico e fisico, questa connessione diventa chiara in rari momenti, poiché lo spettacolo ci permette di sentire l'assurdo in momenti di pensiero ordinari e talvolta vuoti. Questa sensazione dell'assurdità dell'esistenza banale è intensamente evidenziata dalla performance di Guilherme.

Quando Meursault si ribella al prete, la semplicità del personaggio, accentuata dai gesti dell'attore, che alza gli occhi verso il fondo della sala verso il fascio di luce che lo illumina, ricorda il filosofo cinico Diogene che risponde ad Alessandro la Grande: “Non voglio niente da te, solo che tu ti allontani dal mio sole, perché mi stai facendo ombra”. In altre parole, Meursault rivela, in carne, sangue e voce, l'angoscia di sentirsi straniero al mondo, salvo la presenza del corpo che lo accompagna e lo spiazza dai bisogni che risuonano nella soggettività. La forza esuberante della natura si riflette visibilmente nel volto dell'attore.

La disputa tra Meursault e il prete è caratterizzata da un'intensità viscerale. Con un unico fascio di luce, l'opera ci rivela, attraverso le sbarre della prigione, il cielo che Meursault osservava. La scena evoca le parole di Caetano Veloso: “Quando fui imprigionato / In una cella / Fu allora che vidi per la prima volta / Quelle fotografie / Nelle quali appari intero / Ma lì non eri nudo / Ma coperto di nuvole / Terra / Terra / Per quanto distante / Il navigatore errante / Chi ti dimenticherà mai?

L'opera di Albert Camus non cessa di manifestare questa libertà che non è del tutto dissociata dalla necessità. La libertà in Camus non è separata dal desiderio di trovare un senso per continuare a vivere, al contrario, mette in discussione il correlato esistenziale dell'oggetto della sua domanda. Il bisogno di significato non implica la necessaria esistenza del significato. L'esistenza dell'uomo è la forma di un pensiero che insistentemente si pone in spiazzamento, slegato dai rapporti causali richiesti dal pensiero.

In questo modo si preserva il carattere universale e astratto della nostalgia, ma la sua possibilità non viene compresa, almeno secondo le esigenze del ragionamento nel suo significato strettamente logico, ma svilito da un'estetica che si intreccia con la natura. È una comprensione della vita che trascende le categorie del ragionamento intellettuale, abbracciando un'identità che comprende l'ambiente, la natura, l'esterno e l'inumano, che non risponde alle suppliche di una persona disperata.

In questo contesto, il corpo dell'attore-personaggio acquista una posizione ontologica significativa nel dramma, illustrando il dramma del destino umano e offrendo un'esperienza concreta del tempo e della presenza, ravvivata da una luminosità solare nell'immaginazione. La vitalità del personaggio e dell'opera si confonde con quella del sole.  

Alla fine, lo spettacolo lascia un'impressione profonda: dopo il successo dell'attore nella sfida proposta dal regista, la performance di Guilherme realizza l'ambigua sintesi tra l'opera, l'autore e il mestiere dell'attore. Il risultato è una rappresentazione potente e intima che riflette l'immagine letterario-filosofica di Albert Camus e la vitalità del teatro, che era la sua passione.

*Pablo Petravicius Vieira è dottorando presso il Dipartimento di Filosofia dell'Unifesp


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