Discorsi del romanzo poliziesco francese

Glauco Rodrigues. Il tuo collo è come la torre di Davide..., 1967.
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da BENTO PRADO JR.*

Considerazioni sulle opere di Frédéric Dard (San-Antonio) e Albert Simonin

Restringiamo il nostro raggio d'azione. Non intendiamo discutere le “lingue” del romanzo poliziesco francese considerate nel loro insieme. Quello che ci interessa è la vicinanza e la distanza tra due autori: Frédéric Dard (che ha scritto buona parte della sua opera sotto lo pseudonimo di San-Antonio, il nome di uno dei suoi personaggi principali) e Albert Simonin. In sostanza, vogliamo utilizzare un breve riferimento a Simonin per sottolineare l'originalità di San-Antonio.

La vicinanza tra i due è evidente per diversi motivi. Vicini, perché contemporanei: il primo vissuto dal 1921 al 2000, il secondo dal 1905 al 1980. adattamento, superando così il confine che separa la letteratura dalla cinematografia. Il confine tra il romanzo e la versione cinematografica si fa talmente poroso che io stesso, appassionato lettore di entrambi e assiduo spettatore degli adattamenti cinematografici (quante volte ho visto Grisbi, oro maledetto [Tocca au Grisby], 1954, di Jacques Becker? Quante volte ancora dovrò rivedere questa versione del romanzo di Simonin, con Jean Gabin, Jeanne Moreau e Lino Ventura?), spesso oltrepasso questo limite senza rendermene conto.

Nella memoria testi e immagini formano un corpo unico. Ma vicino, soprattutto, per aver aperto la porta alla malavita francese della metà del Novecento, svelando questo mondo sociale soprattutto attraverso il lavoro letterario sulla lingua in cui si esprimeva.

Nessuno ignora che i banditi hanno una loro lingua, e i gialli e il cinema americani ci hanno fatto conoscere questo “dialetto” (che, in questo caso, deve qualcosa al dialetto della mafia italiana).

Più difficile per il lettore brasiliano è penetrare il gergo lavorato dai nostri due autori. Tanto che una traduzione portoghese di un romanzo di Simonin, trasponendo il gergo per la corrispondente lingua dei marginali in Portogallo, aggiunge un lungo lessico per il lettore portoghese, traducendo la lingua “professionale” in lingua comune. Inutile dire che, per il lettore brasiliano, la lettura di questa traduzione è più problematica dell'originale: i “professionisti di qui e di oltreoceano” decisamente non parlano la stessa lingua. È vero che è difficile leggere bene gli scritti di Joyce nelle traduzioni, nelle quali molto si perde; ma è possibile farlo, con grande piacere. Se una catastrofe ha distrutto tutte le versioni originali di Odysseus, le loro traduzioni garantiranno al romanzo un posto altissimo nella letteratura del secolo scorso.

Forse non è così per i nostri bravi romanzieri. Possiamo leggerli, infatti, solo in francese. Le traduzioni uccidono ciò che è vivo in esse. È l'uso locale della lingua, intraducibile, anche quando permette una visione più ampia del mondo. Nel caso di San-Antonio, senza dubbio, siamo di fronte alla migliore letteratura, irrimediabilmente popolare e locale.

Ma quello che ci interessa qui, lo ripetiamo, è la distanza che separa autori come Simonin e Frédéric Dard (o San-Antonio). Il primo, diciamo, in forzata approssimazione, è una sorta di Guimarães Rosa (riflessa e meditativa) del linguaggio degli inferi, mentre il secondo è una sorta di Louis-Ferdinand Céline, nemico di ogni pudore. Vero è che quest'ultimo (così ben analizzato da Trotsky, che nelle mirabili pagine anarchiche di questa specie di nichilista radicale seppe prevedere la sua futura conversione all'estrema destra – lo stesso Trotsky che, nell'occasione, fece notare anche alcuni ambiguità nei bei romanzi "fidanzati" di Malraux, che però lodava) già facevano emergere la brutalità della vita quotidiana e del mondo extraborghese sulla calma superficie delle belle lettere francesi.

Il riferimento a Céline è indispensabile affinché il lettore non immagini che io qui contrapponga Simonin a San-Antonio, secondo l'asse che contrappone Dashiell Hammett a Mike Spillane (“Mike Spillanne, che scrittore!”, come ripeteva sempre l'anima buona dell'imbecille interpretato dal bravissimo attore Ernst Borgnine nel film. Marty [1955, di Delbert Mann]).

Con Céline, invece, la sintassi irrompe, dando luogo a un'ininterrotta irruzione di eruttazioni, esclamazioni, urla e imprecazioni che portano quasi al limite o all'estinzione del linguaggio: all'urlo, al di sotto o al di là della parola.

Potrei fare mille esempi di questo “stile” nei suoi romanzi, ma preferisco cercarlo in un articolo in cui risponde a un testo di Sartre (“Il ritratto di un antisemita") nella rivista Tempi moderni, nei difficili tempi del dopoguerra, soprattutto per Céline, che si era alleata con il nazismo e ne aveva adottato l'antisemitismo. Sotto il titolo "Il tremolio della bocca”, in un linguaggio simile a quello del buon San-Antonio, dice: “[…] Ma a pagina 462 la stronzetta, mi lascia senza parole! OH! Quel dannato culo marcio! (…) Tu miserabile lerciume intasato di merda, mi esci di tra le gambe per sporcarmi di fuori! Caino ano, pfui!”. Tutto accade, in questo torrente di insulti, come se la struttura sintattica della lingua crollasse, lasciando il posto a una pura enumerazione, alla mera giustapposizione di espressioni “atomiche”. La stessa forma, priva della disgustosità del testo citato, riappare gioiosa ed erotica in un paragrafo sulla copulazione del romanzo. San Antonio chez les Mac: “E mi muovo, fratelli! A me la sospensione della Citroën! Vedi Miss Mapple e muori! Applico il cervello magico, la trottola d'Alvernia, il tourbillon bulgaro (…), il grande sei, il grande nove, il grande Condé (…), il lanciere del Bengala, il gondoliere con una mano sola, il petomane senza voce (in petto uomo della fauna) e la crociera suprema”. Si potrebbe parlare del pastiche di Céline, ma di un pastiche che ci trasporta dalla tragedia nera alla facezia gioiosa.

Così, con San-Antonio, ciò che fa esplodere il linguaggio o “decostruisce” la narrazione non è la disperazione, la miseria assoluta, ma qualcosa come una scelta giocosa di rimescolare le carte. Dal giocare con il linguaggio e con la vita, producendo giochi di parole (come nel titolo del romanzo Raptà la Rapp – ratp è l'acronimo della metropolitana parigina) e capovolgere le situazioni in modo da ridicolizzare quanto di più serio c'è nella tradizione letteraria, politica o intellettuale. Un sano anarchismo? In ogni caso, un allegro anarchismo che prende tempo nel moltiplicarsi dei giochi di parole.

Così, l'assistente di San-Antonio, Bérurier (Béru-Béru), un bruto ignorante ma simpatico (che il lettore può immaginare interpretato dall'ingombrante Gérard Depardieu, che lo ha già rappresentato al cinema), dice "circonferenze ai luogotenenti" per esprimere "circostanze attenuanti", in un romanzo che presenta anche un nobile irlandese di nome Sir Constance Haggravant. Non è la disperazione che si esprime in questo flusso continuo di giochi di parole, ma anche di oscenità, impregnate dell'erotismo delle battute più che degli erotismi tragico-morali-metafisici, ma qualcosa come un saluto alla vita comune che non sembra fare a meno di una demolizione sistematica delle regole dei generi letterari.

Ecco un esempio. In un romanzo intitolato Y At-Il un Français dans la Salle? [C'è un francese nella stanza?], che ci ricorda la famosa battuta dell'umorista francese che chiede: “Ci sono dei belgi tra il pubblico?”, e poi aggiunge: “Se c'è, non importa, la racconto due volte” . Il personaggio centrale è un eminente politico di opposizione al Presidente della Repubblica (tutto indica Giscard, con esplicito riferimento agli aristocratici schiocchi di bocca, di grande prestigio, con cui punteggiava i suoi discorsi), che si trova in una situazione tragica: l'imminenza della scoperta che suo zio aveva denunciato gli ebrei alla Gestapo.

Ad un certo punto della narrazione si legge: “È il momento in cui tutto si confonde nel mio libro. Il momento che mi sfugge in questo stranissimo tardo pomeriggio (“non come gli altri”). Raccogli i personaggi per farne un fascio di personaggi, mettili insieme ("recuperare”). Quella in cui Seruti picchia il figlio per punirsi solo per aver chiesto al Presidente che ore sono. L'istante in cui Noëlle prepara una dissertazione ("disserta" su Camus, mentre suo padre guarda il telegiornale (...). Taïaut, il cane, si lecca il sesso alla porta della sua nicchia. Lo stesso istante del tempo che è ora , ti dico. E ogni momento vissuto in modo diverso compone una diarrea degli stessi istanti che decompone la vita in sottili lame. Capisci? Forse non ne hai voglia, in fondo. Con che diritto cercherei di inserire il mio pensiero nel tuo? irrimediabilmente falso e avaro in materia di buona volontà ". Nella mia traduzione, ovviamente, la maggior parte della grazia è andata, poiché non posso tradurre."tema"("dissertazione) da “disserta”, che non significa nulla come sostantivo in portoghese, né conserva la comicità del verbo inesistente “recuperare”. È la brezza del discorso popolare, sensibile nell'originale, che necessariamente scompare nella traduzione, come se Juó Bananére diventasse Olavo Bilac.

Ma, anche nella cattiva traduzione, c'è sempre lo shock provocato dal narratore che (sospendendo le regole di “illusione” narrativa che garantiscono un minimo di “realismo”, apparentemente indispensabile al romanzo poliziesco) dice qualcosa del genere: “Lettore , smettila di fare lo stupido , è tutto uno scherzo, e non me ne frega un cazzo di te! Una sorta di demoralizzazione dello stesso genere letterario, anche se si esprime attraverso una mimesi della riflessione “filosofica” sui paradossi della temporalità.

Poiché siamo lontani dalla serietà dei dialoghi di Grisbi, oro maledetto, quando, ad esempio, informato che Max, l'eroe del romanzo, vuole rinunciare al crimine, il suo amico, il proprietario della discoteca, gli dice: "Caro Max, alla nostra età non cambiamo vita". . Frase che Gérard Lebrun [1930-99], il filosofo francese, nostro collega dell'USP, non ha mancato di citare, anche in alcune lezioni, anche se ha aggiunto un'ironia assente nel romanzo e nel film.

Non sembra fuori luogo citare qui un saggio di Otto Maria Carpeaux, “Una voce della democrazia di San Paolo", per quanto riguarda il divina increnca, di Alexandre Ribeiro Marcondes Machado, che anche sotto uno pseudonimo ironico (Juó Bananére) ha dato voce al “povão” (qui, questa parola tradurrebbe bene la parola “populo”, che aggettivi il fluido stile francese di San-Antonio). Soprattutto perché il critico europeo basato in Brasile vi trovò la ripresa di un'antica tradizione, che risale ai secoli XVI e XVII, in Francia, Spagna e principalmente in Italia: quella della poesia dei maccheroni, il cui principale rappresentante sarebbe Teófilo Folengo, autore dell'epico eroe-fumetto Baldo. O come Giuseppe Gioachino Belli, ricordato anche dallo stesso Otto Maria Carpeaux, in un altro saggio (“roma sotterranea”), questo poeta “dialettale” che scrisse 3.000 poesie contro l'ordine costituito (soprattutto il papato), nella lingua delle periferie romane del XVIII secolo.

In questo senso potrei, seguendo l'indicazione di Carpeaux, collegare il nostro autore al remoto François Villon. Non lo faccio perché sento già San-Antonio sbraitare: “Déconne pas le gars, espèce de totologique petit Junior!".

San-Antonio è decisamente maccheroni, nel primo senso della parola. Il bersaglio della sua ironia è sempre il potere. Senza disturbare l'eventuale lettore del romanzo quasi poliziesco di cui sopra, Y At-Il un Français dans la Salle? Con il nostro autore, questo non è mai un romanzo poliziesco, poiché tutti sappiamo, tra la gente comune, chi sono i criminali - possiamo riprodurre qui due frasi di quell'opera in cui, come sempre, il narratore, presumibilmente neutrale o ideale, non può trattenersi dall'aggiungere: “E io, l'autore di Bourgoin-Jallieu, ti stupirò affermando che […] Perché sappiamo da molto tempo che la vita privata dei grandi della Terra è non quella di tutti e che bisogna perdonarla».

In una parola, l'allegro populismo di San-Antonio e il ritratto malizioso del politico conservatore sono tutt'altro che rivoluzionari e puzzano di conformismo. Ma anche così, questa forma di rassegnazione di fronte alla disuguaglianza non riesce ad alleggerire il cuore del lettore. Leggendo questi libri, possiamo sempre ridere, nella nostra solitudine.

* Bento Prado jr. (1937-2007) è stato professore di filosofia all'Università Federale di São Carlos. Autore, tra gli altri libri, di alcuni saggi (Pace e Terra).

Originariamente pubblicato sul giornale Folha San Paolo, rubrica “mais!”, del 29 febbraio 2004.

 

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