da ALESSANDRO DE OLIVEIRA TORRES CARRASCO*
Riflessioni sulla genesi dello stallo politico brasiliano.
“Un italiano, che vendeva tappeti a Calcutta, mi ha dato l'idea di venirme; dire (nella tua lingua):
– Per i perseguitati, per gli ustionati, c'è un solo posto al mondo, ma in quel posto non si abita” (Adolfo Bioy Casares, L'invenzione di Morel).
Non è né semplice né facile arrivare subito al punto in cui il soggetto è appunto una fantasmagoria. Ogni tentativo corre il fatale rischio retorico di qualche manierismo di dubbia efficacia, e, additando il fantasma qua, là, là, è sempre pronto a disfare, sublimare e confondere, come al solito, con la realtà più cruda, all'altezza la condizione di un fantasma. Così, c'è sempre il rischio di soccombere alla fantasmagoria che è credere ai fantasmi, anzi, ai pericoli dei pericoli. Pertanto, queste righe portano il grave rischio di una mistificazione, qualcosa come un'autocombustione spettrale, inghiottita dalla sua tesi: non sono da nessuna parte.
Spieghiamo. Dall'elezione dell'attuale presidente, indice di una riorganizzazione politica avvenuta dopo il golpe bianco mascherato da impeachment, nel 2016, uno dei temi preferiti dell'analisi politica al dettaglio (e a buon prezzo) è la portata, la portata e natura di tale centro politico, che non va necessariamente ed immediatamente confuso con quello che viene chiamato “centrão”, in diretto riferimento ad una parte importante di deputati e partiti del Congresso Nazionale. Il presupposto nascosto di queste analisi sarebbe il seguente: sia il golpe del 2016 sia stato “di centro”, di conseguenza, conferma del noto “Dilma ha perso il centro”, uno dei tormentoni che circolavano all'epoca, il cui rinforzo retorico venne con un'altra osservazione, già allora piuttosto dubbia, in quanto l'impedimento/colpo di essere del “centro”, lasciava intatto il “centro”, pur tenendo conto di tutte le apparenze contrarie.
La nostra modesta e ben più comune “invenzione del dottor Morel”, il centro, sarebbe lì, a sfilarci davanti, come ogni tanto riappare. Qua e là, nello scambio di opinioni, vengono commercializzati gli esempi più notevoli di queste analisi, il “centro” come criterio di misura, di chi se ne allontana – gli estremi –, di chi vi si avvicina – la destra, con altri vocativi più belli –, e proprio come a Penso molto sui generis, il “centro” funziona come trasparenza da sé a sé e, per estensione, trasparenza da sé all'altro, nella versione più ottimistica dei cartesiani, Io sono, io esisto, così che la semplice volontà della sua enunciazione, come promessa, tesi o speranza, è sufficiente a realizzare le sue condizioni di esistenza.
Questa misura di tutte le cose – vi avverto, non ce n'è una – sarebbe non so quale riedizione di un famoso cataplasma per chi nel 2018, 2016+2, ha scommesso su quello che sapeva, e molti non lo fanno credere, pur sapendo, e avere ora qualche imbarazzo – inutile – per ritirare il premio allo sportello scommesse – “cavallo oscuro” in corsia 17 –, insieme alle ultime notizie degli oltre quattrocentotrentamila morti, e contando, oltre a tante altre centinaia, centocinquantamila morti già contratte a breve, forse brevissimo termine, sommate al collasso del sistema sanitario, alla mancanza di ossigeno e di forniture ospedaliere di ogni genere, recessione persistente, stagflazione, ecc., ecc., ecc., mantenendo però “il tetto delle spese”, indice e sommario di tutto il processo – un consenso di “centro”, in quanto “tutti” si riconoscono e si congratulano a vicenda.
Così, quando si è insediato l'attuale governo, erano tante le anime buone a scrutarne i possibili e probabili elementi di moderazione, quelli che lo avrebbero portato “al centro” (sono tentato di usare le famigerate “virgolette”, e forse, citazioni per “citazioni” ”, ma rispetto la buona fede di quegli analisti dell'occasione e di quell'occasione in cui hanno preso tutto trollo, lavandoti le mani dalla truffa, molto seriamente). Ci sarebbero i segni idiosincratici del centro nazionale in quel famoso assetto che andava dall'allora Ministro della Giustizia, passando per i militari – i “nostri” professionisti dell'esperienza –, attraverso lo staff tecnico, non solo i nuovi arrivati, anche quelli ereditati dal governo Temer, compreso l'artefice del tetto di spesa, oggi comodamente nel privato, dove sostiene senza paura le coliche altrui.
Poi i fatti hanno smentito quelle speranze, forse una, due o tre volte, ci sono state le stesse intelligenze a scrutare gli elementi di moderazione nelle istituzioni nazionali (e anche, in un appello struggente, la moderazione delle istituzioni internazionali), gli elementi di moderazione nelle azioni del parlamento, la fantasia estiva che fu quel “parlamentarismo” bianco, leggero, camuffato o che altro, gli elementi di moderazione nel Potere Giudiziario e arriviamo, oggi, al culmine, nella ripresa dell'insistente indagine del elementi di moderazione rilanciati dalle Forze Armate, cosa difficile da mettere in prospettiva, diciamo, dopo il colpo di stato e l'autoritarismo endemico di cui sono portatori, diffusori e amplificatori, conosciuti e conosciuti.
Modestamente, qui con i miei bottoni nell'infimo clero, i fantasmi che vedo sono di un altro ordine (sogno e ho incubi sulle signore di Santana, gli squallidi scapoli della nostra Facoltà di Giurisprudenza, una parata militare di criminali sorridenti, un anonimo casa a Niterói, reati contro l'umidità prescritti da queste parti, e mi sveglio sempre fradicio). Forse è il caso che adeguo le mie allucinazioni a quelle della nostra opinione media pubblicata su scala industriale, e già faccio la riserva, per chi comprende, nonostante questa stessa opinione nasca, cresca e fiorisca secondo lo stesso scrutinio locale , e di famiglia, “gremio da scuola privata”, qualcosa di molto nostro. Non sono disperato di ricorrere eventualmente a qualche aiuto farmacologico, confesso che sono molto tentato, non capire, sarebbe troppo, cercare semplicemente di placare tanti incubi e chissà, sopravvivere alla loro furia. Sfortunatamente, non è un sogno che si sogna da soli, l'incubo a cui partecipiamo, come predisse una volta un filosofo molto popolare.
Prima dell'effetto di queste pillole miracolose, però, strizzerò l'occhio all'incubo e poi un altro, perché in fondo il mestiere obbliga.
Non sono pochi coloro che, anche oggi, dopo il 2018+2, fanno professione di fede l'indagine sugli elementi di moderazione a disposizione e nel governo e nel suo ambito istituzionale e persino, con drammatico richiamo, a tale società brasiliana, civile e organizzato. Questa, in parte, è diventata l'ideologia della convivenza con l'attuale governo, ed ha una funzione quasi terapeutica. Un tale appello, però, non è privo di “storia”, per così dire: il golpe del 2016 si è ricoperto di uno strato sottilissimo di apparente moderazione e “centrismo”, nonostante la violenza e la virulenza che ha mobilitato, tutto d'ora in poi già così annunciato e rivelato vecchio. Quindi, per comprendere la nuova riorganizzazione del nostro autoritarismo che oggi governa e i suoi corollari (classicismi, razzismi, schiavitù di ogni tipo, in una nuova ed efficace riorganizzazione di Certo risentimento, e in termini discorsivi inediti, attualizzando la massima del radicalismo di destra, il mezzo è il proprio fine, come indicava già Adorno nel lontano 1967[I]), capace, per così dire, di cooptare il nostro partito dell'ordine, è importante capire quanto quello che chiamiamo “centro” funziona e ha funzionato in determinate condizioni ben precise e la sua sostanza non ha sostanza.
Qualcuno dirà: questo è proprio il centro, a cui rispondo, questo è solo l'inizio della favola. Sta di fatto che la ricerca del centro sublimata dal golpe del 2016 ha prodotto alcuni fenomeni pittoreschi: sia una certa critica morale, quando non moralistica, in cui il repertorio “critico” per descrivere i mali della politica – non avendo un “centro ” (trascendentale, perché per l'empirista basta il “fulcro”) – richiederebbe nuove o rinnovate versioni di qualche nuova o rinnovata versione delle soggettività, diagonali, orizzontali, trapezoidali o altro, che vanno dall'“imprenditorialità” di un pousada a Noronha all'“imprenditorialità” del fattorino di biciclette.
Un tale blocco di comprensione, cioè perché la “società civile” si discosta dal proprio testo, potrebbe essere l'effetto dei tropici? Non so, con i miei bottoni qui, ma nessuno dovrebbe stupirsi se si passa dalla “decostruzione” e dal “rizoma” alla “frenologia” senza alcuna scala, essendo questo eccesso di misure, tra l'altro, la battuta è molto vecchio, la misura della nostra vita ideologica. In questo sforzo si cerca tutto ciò che può essere assunto più o meno come correlato empirico ed attuale di un “centro” il cui idea speculativo è fantasmatico in quanto è altrettanto o più morale. Un tale centro politico urgentemente cercato, peraltro comprensibile e, ovviamente, mai raggiunto, non manca di produrre il fantasma del fantasma. Conosciamo la fine della storia: Brás Cubas muore senza mettere il suo impiastro sugli scaffali. Annunciato, mai realizzato.
Quindi, insisto, vale la pena notare in questo brodo che si infittisce che coloro che oggi cercano e profetizzano il “centro” sono gli stessi che credevano fermamente che il golpe del 2016, con tutte le pirotecniche e la retorica ultra-regressiva, nella maggior parte dei casi, meno “retorica” in senso retorico e ulteriormente retorica del letterale, che era necessario mobilitare e liberare, il finto frais quella "rivoluzione". Il colpo di stato sarebbe, ideologicamente compiuto, un'operazione chirurgica altamente qualificata per estrarre un elemento che si è rivelato (ed era diventato) estraneo alle dinamiche della nostra rappresentanza politica spezzata. L'estrazione di alcuni elementi indesiderabili a quel punto del processo, per semplificare con un vuoto aggettivo, sembrava l'opzione migliore sotto molti punti di vista.
C'era infatti l'aspettativa che la sinistra venisse finalmente estirpata dal gioco competitivo del potere, altrimenti non ne sarebbe valsa la pena, ed è noto quanto le élite nazionali e tutti i loro accoliti siano poco amichevoli con il sforzo, quindi, lo sforzo deve valere lo sforzo, proprio quello che ti serve, per favore. Un gioco di prestigio del genere equivarrebbe a sostituire quarant'anni prima di oggi tutto il campo della sinistra, non solo il Partito dei Lavoratori, e dare l'artificiale benedizione di quarant'anni di vantaggio per il necessario riassetto delle grandi imprese e degli interessi, insieme alle forze e gli attori privilegiati nel suo ambiente, la destra detta “centro”, e atto continuo, tutto secondo i suoi criteri rigorosi e attuali di produttività, redditività e interesse, non più o non sufficientemente contemplati alla fine, cosa drammatica, e questo aggettivo , diciamocelo, ha contenuto, dal ciclo PT nel governo Dilma.
Certo, la perdita di funzionalità (non così repentina) del Pt nel gioco e nella mediazione delle grandi imprese e degli interessi, che ogni governo che governa e vuole governare rappresenta, è un giudizio esclusivo di quelle stesse grandi imprese e interessi, e, aggiungete a questo a questo, il vocalizzo che parte dell'élite politica, sconfitta in tre elezioni presidenziali, ha fatto questo giudizio, amplificandolo e alleandolo a interessi più piccoli e immediati, i propri, addensando il brodo di quel brodo. Quanto a questo, diciamocelo, fa parte del gioco giocato, e non c'è motivo di opporsi al golpe, che c'è stato, un purismo ingenuo che il PT non ha mai avuto, in senso pratico, nonostante ad alcuni e ad altri piaccia mobilitare i purismi per fini, normalmente, impuri, di destra e di sinistra.
E con ciò non è detto che il PT non sapesse assolutamente trattare con questi grandi interessi, e fare con essi i suoi consorzi, in genere parziali e precari, come ha fatto e ha fatto per lungo tempo. E, ancora una volta, è una partita giocata. Come diceva Nicolau: qui, solo, la verità effettiva della cosa. Dunque: il “golpe”, termine, processo e significato ha qualcosa al di là del taglio puntuale che il termine indica, colpo tra virgolette, dunque, e va, per così dire, ben oltre l'intempestività delle sue procedure legali, normative e istituzionali : è stato un passo indietro, istituzionalmente e politicamente, in senso lato, nel riconoscimento e nella funzionalità, in senso specifico, della rappresentanza politica nell'assorbire ciò che nel Pt non era (e forse non può essere) concessione e impegno: il popolo carattere e contenuto che il partito assume come segno e forma la sua identità partitica dandogli una forma storica, e che non viene neutralizzato o neutralizzato negli impegni che ha accettato di assumere per il governo del Paese, che è quello che lo conosciamo Essere.
Il PT ha ritenuto, credo per parte mia, che fosse, ed è sempre stata, un'esigenza del processo di avvicinamento al governo e buona parte del potere istituzionalizzato accettare di essere cooptati in parte dal centro, in parte dal giusto, ma che il costo di questa cooptazione sarebbe inferiore al guadagno sociale di questa nuova articolazione di forze che sono passate attraverso un consorzio di governo con forze diverse da quelle che esso, il PT, intendeva rappresentare o rappresentava in esclusiva. E non cadiamo nella farsa della "correlazione di forze" qui, per favore. A questo punto, i dadi sono stati lanciati, girati e schiacciati.
Questo riconoscimento e impegno segnano le elezioni del 2002. Dalla “Lettera al popolo brasiliano” all'impegno per il controllo fiscale e di bilancio, passando per l'”autonomia” operativa della Banca Centrale, il “neoliberismo più che compromesso” di più di due terzi del ciclo del PT al governo, tutto era una concessione accettata con fini pragmatici: poter governare e accumulare potere in questa operazione. Che ci siano opportunismi di ogni genere in mezzo a tutto questo e nel processo stesso è tanto ovvio per questo quanto per tutto il resto, il che significa che non si può e non si deve dare risalto analitico a questo segreto di Pulcinella, sotto la forza di qualsiasi appelli morali. , come piace al risentimento borghese. Il risultato è la verità (e la verità è il risultato), senza dubbio: potendo governare, il PT, entro questi limiti ristretti e irrisori, ha fatto un governo popolare, come si è già detto, e non ha senso per me ripetere il tormentone: come “mai nella storia di questo Paese”.
Forse questo sarebbe il punto cruciale: quanto di ciò che il PT ha dato di sé al processo sarebbe una “vera resa” e quanto non rimarrebbe “dogmaticamente” legato alla “autenticità” delle sue origini, questo convescote enigma di i ricchi potrebbero essere stati segnati nella permanente sfiducia dei ricchi nei confronti delle buone intenzioni (nei loro confronti) del PT. La critica apparentemente realistica (e cinica) di una certa élite intellettuale molto radicata nel nostro caro Alma Mater dell'Antica Repubblica: la scarsa sofisticazione del PT, che torna di tanto in tanto nella polemica e ribattente discussione sul “populismo” – tra parentesi, di “sinistra” -, questa altro Il fantasma (o fantasma dell'altro) che a volte fa della paura congenita dell'“haitianismo” che ha modulato il nostro XIX secolo sarebbe, insomma, la sua mancanza di cinismo, poiché il cinismo è il più alto destino morale che si addice ai moderni e commuove troppo i nostri piccoli moderni.
Giocare e lasciare giocare, la famosa ambivalenza tra tatto e cortesia che si era così formalizzata alla fine dell'Ottocento, nel mondo alfabetizzato francese, non rientrava nel costume “radicale” dei più importanti massoni e il partito di sinistra, dopo il 1988, o non si adattava in parte. Il corollario di questa incapacità porterebbe a un realismo insufficiente, incapace di emulare e catturare il cinismo dei tempi moderni, e tutto il feticismo che esso implica, secondo questo giudizio critico da salotto. Pochi direbbero che questa arretratezza del PT gli gioverebbe, come sembra essere: partito dei lavoratori, in senso classico, e anche partito dei poveri, come è sempre stato e continua ad essere, mantenendo le due strade aperte, il lavoro socializzato dal processo produttivo, in apparente crisi, il lavoro formale, e i senza lavoro “fisso” (formale e “tutelato”) e condannati al lavoro, che vivono ai margini del processo che sostituisce ed esclude loro.
Sta di fatto che nessuno perdona i dogmatismi postkantiani, a maggior ragione dopo il nuovo bellalettrismo degli anni Trenta, così tipico di noi stessi, ricondizionato dalla pertinacia dei professori francesi, essi stessi effetti e partecipi della costruzione di un “neutro” e “ “centro” neutralizzante”, il “centro repubblicano” della Terza Repubblica francese, in quanto fu quello che, corrispondendo alle aspettative (non realizzate) della Rivoluzione di luglio (1830, Francia), “repubblica” senza Terrore, pur essendo, in lettera, un progetto di monarchia costituzionale liberale, si realizza solo nella Terza Repubblica (1870, la Francia dopo il II Impero), finché la crisi degli anni Trenta (del XX secolo) ruppe tanti contratti quanti ce n'erano, e la consueta fantasmi, fascismo, sciovinismo, antisemitismo e, ovviamente, “lotta di classe”, sono entrati in quella scena, facendo crollare tutto.
I presupposti di questa critica snobistica – che scambia i termini a seconda dei casi, oscillando da una discreta propensione antipopolare al più esplicito anti-PTismo – sono stati alquanto offuscati negli anni del boom, in termini di Pil, alleanze politiche e promesse d'amore, costruzione del centro dalla P.T., dal 2002.
Tuttavia, queste critiche da salotto emersero e acquistarono sempre più amplificazione e divennero sintomi, in quanto il governo Dilma perse, per così dire, il controllo del processo, e meno amato, non fu più in grado di coordinare e monitorare le varie aspettative in gioco: è due per lì, due per qui. La perdita di efficacia dell'assetto iniziale, nel governo Dilma, è naturalmente l'effetto di tante cause, concorrenti e contraddittorie, che via via sono apparse come il grande spiraglio di un'opposizione (e di alcuni elementi recessivi della sinistra) la cui il miglior cinismo si stava rivelando inefficace nel riconquistare il processo politico che gli era sfuggito di mano durante il triste secondo mandato del professor Cardoso.
Si dà il caso che il PT abbia guadagnato un corpo senza precedenti negli anni dell'altopiano e non sarebbe solo un gioco di corpo a toglierlo dalla striscia vincente proprio così. Quindi, entra chateux et chandons la tesi dell'impedimento appare, drastica, e alimentata dalle impasse politiche ed economiche, in gran parte altrettanto istituzionali, che la Presidente Dilma eredita e in parte aggrava, meglio figurata dopo quelle giornate di giugno 2013, sulle quali non entrerò nel dettaglio, in quanto esulano dallo scopo di questo articolo.
Rivolgo l'attenzione analitica su questo punto: essere sconfitti politicamente è una partita giocata, l'effettiva verità della cosa, come, ancora una volta, ci ricorda Nicolau. Precisiamo, però: l'impedimento è un'operazione straordinaria sotto ogni aspetto, e ancor più quando applicato ad un partito integrato nel sistema delle regole del processo politico. Come non poteva essere altrimenti, ha prodotto effetti straordinari, in gran parte al di fuori del controllo di chi credeva di averla sotto controllo, anche se nell'immediato, nel tempo della politica, con l'arresto dell'ex presidente Lula, mille teste asciutte, il conto sembrava chiuso e la faccenda chiusa. (Poi si sapeva, ora si sa: era la truffa del biglietto vincente).
Vede, la mia lieve ricostruzione di questo processo, in questi scarabocchi che ho messo qua e là, non ha altra pretesa che la seguente: c'è stata una disorganizzazione del processo, che ha preso corpo e scala nel passaggio dal primo al secondo Governo Dilma, per ragioni endogene ed esogene, e che sono apparse, per cause necessarie e contingenti. Questo squilibrio non produsse necessariamente l'impedimento/golpe, ma ne fornì ragioni sufficienti. Le spaccature con il centro politico, accelerate nel ciclo Dilma, che prendono forma e cominciano a isolare il governo nel proprio campo, e che hanno a che fare con dinamiche elettorali emergenti, l'isteria dell'opinione media con la spettacolarizzazione criminale, chiaramente orientata , soprattutto perché ancorato al tormentone “la corruzione del PT”, frode di dichiarazione esaustivamente ripetuta, poiché non era “del PT”, in quanto era quello che era sempre stato, era dove era sempre stato, affari come al solito, la fine del super ciclo di materie prime, ecc.
A ciò si aggiungono i contrasti tra il governo e il campo in cui si trovava impegnato, che si sono acuiti, a torto oa ragione, anche per gli effetti del 2013, tutti sfociati nella seconda legislatura, con il forte calo del PIL e i suoi corollari, reddito, produttività, condizioni di accumulazione, ecc. Tutto sommato, non basterebbe comunque a neutralizzare, come si dice, “tra parentesi”, il PT e con esso quasi tutta la sinistra, che lo seguirebbe per forza di gravità, volenti o nolenti. In un altro modo: la disorganizzazione del governo Dilma (bombardato da scosse esterne e “interne” di ogni sorta, ma, ribadiamo, non c'è “sfortuna” in politica, solo fortuna) non era motivo sufficiente per il fuorigioco.
L'impedimento era una delibera in parte venduta, in parte comprata da una cordata tra l'élite politica, gli sconfitti del 2002 sommati ai nuovi ospiti arrivati, e le grandi imprese e interessi e le cui aspettative, poi frustrate, dovevano essere reciprocamente riallineate, e chirurgicamente, con la magia di non pagare lo specifico costo politico di una così tremenda eccentrica manovra. Pertanto, si è deciso di non vincere un'elezione del PT, si è deciso di toglierlo dal gioco. L'operazione, bizzarra di per sé, andrebbe bene solo se qualche operazione magica fosse accettata come valida. Tipica stregoneria delle élite locali la cui modernità, prima della moderna etica del lavoro, è dell'ordine dell'incantesimo e, per estensione, non è insolito che credano fermamente in tutti i tipi di operazioni spirituali. Gli esempi abbondano. Il ritorno del teologico-politico tra di noi non è una regressione, ma un'affermazione della nostra specifica modernità, è bene notare.
Sarebbe il bello di tutto, se non fosse per la tragedia: c'è un incredibile nucleo di irrazionalità nella razionalità che ha avviato l'impedimento, in termini politici e istituzionali. E con questo nucleo, a quanto pare, nessuno contava, nessuno dei suoi mecenati. C'è una dissociazione cognitiva importante nei leader dell'impedimento: data tutta l'acqua che era già passata sotto i ponti, non sarebbe possibile estirpare il PT senza estirpare insieme il “centro” che il PT ha omogenizzato e “accentrato” in gergo di sinistra, in una certa misura, lo disciplinava e lo organizzava in termini di rappresentanza e interessi, con un certo successo, soprattutto dopo la metà del primo mandato del Governo Lula, anche considerando la crisi dei rapporti che il centrodestra aveva vissuto con il governo Dilma, dalla metà del primo mandato alla fine del suo interrotto secondo mandato.
Quello che il PT ha fatto a passo di lumaca, e che rappresenterebbe una conquista perenne nella politica nazionale, è stato modernizzare il centro a partire da sinistra (dimentichiamo il “mensalão”, perché nessuno che ha perso i denti da latte ha licenza di presumere che il PT, al potere, non farebbe quella che era pratica comune di governo, “morale” o “immorale”). In parte, a parte questo progetto Tucano all'inizio, con Mario Covas, ma che si è rivelato il contrario, il centrosinistra dell'ex MDB è stato disciplinato dalla destra “moderna” della fine della dittatura, che , in termini di pubblico e critica , si può vedere a San Paolo, prendendo come esempio l'istruzione pubblica. Qui, con tutti gli effetti deleteri, possibili e immaginabili, la pubblica istruzione sotto la lunga dinastia dei tucani è un disastro scontato e finito, sotto il quale “tutti” tacciono.
E non c'è impegno pubblico più grande tucano che quello di abbassare il più possibile, e in questo caso la fantasia va lontano, nella stessa misura in cui conserva, a malincuore, il sistema delle università statali per i laureati del sistema delle scuole paritarie di l'alta classe della zona ovest di San Paolo. Certo, stiamo migliorando e miglioreremo man mano che una parte crescente di questa élite, “internazionalizzandosi” “dall'esterno”, inizia a riallocare i suoi eredi in “università” “centrali”, in particolare quelle nordamericane, e la rende più superfluo anche il sistema universitario pubblico locale, dal punto di vista dei capi e dei loro immediati.
Torniamo, dunque, mettendo il più possibile, tra parentesi, queste misere miserie.
Così, in parte l'innovazione propria del PT nella modernizzazione della rappresentanza politica, dati gli angusti limiti entro i quali essa si è svolta, in parte l'accumulazione di un processo che proveniva dai punti di riferimento della Costituzione del 1988, tutto sommato, un imperfetto e limitato , ma cumulativo e, in senso generale, “progressivo”, questo era il nostro stato di cose prima del balzo in avanti che è stato il 2016. Saremmo iscritti a un processo a lungo termine, almeno in apparenza, lentissimo, ma efficace, il che non significava che non fosse ancora sanguinario e ingiusto, a seconda del codice postale e del colore della pelle del cittadino brasiliano. Questo processo guidato dal PT faceva già parte della costruzione “immaginaria” del centro.
Ma, anche in apparenza, verissima apparenza, nonostante tutto, questa è stata fatalmente abortita, il che dà un buon margine di diffidenza e di mistificazione per gli ultimi periodi di chi vi scrive. Quindi forse l'aneddoto qui raccontato è esso stesso quello di un fantasma, o meglio, un aneddoto di fantasmi per fantasmi: la fraseologia politica non può fare la differenza. boom senza che la realtà della nuda violenza sembri dare a tutti noi una lezione.
Di seguito, senza poter dire quanto sia stato causato dal blocco di questo processo, né quanto ne sia stata la causa ultima, l'effetto decisivo del colpo di stato subito dalla presidente Dilma è stato il seguente: quello che sembrava essere il “centro” è stato distrutto, che era ed era sempre stato un miraggio e una finzione di tipo specifico e operante, ma più o meno efficace, a seconda delle arti dello stregone. Gli attori al centro, alla fine di questo processo, ammutoliti, hanno perso i costumi e sono corsi agli estremi della scena.
I presunti e nuovi protagonisti al centro della scena sono rimasti senza “scala”; senza “congedo”, il testo è andato perduto: di qui la violenza e l'irruzione quasi oscena dei discorsi privati – famiglia, religione, parenti, amici del pub, squadra di calcio – in occasione del fatidico voto sull'impedimento, e da qui, efficace e travolgente, è venuto quello che sappiamo: un inedito degrado discorsivo, un'ampia licenza di violenza verbale, direi quasi inaudita, che è, paradossalmente, non solo verbale. Il mezzo è il messaggio, come dice lo slogan pubblicitario. La nostra violenza ha acquisito una nuova figura di autocoscienza. Guadagno o perdita, ecco il fatto.
Questa fantasia “centrale” non è nuova nella nostra storia politica e ha le sue varie versioni. Un centro “fantasy” era il sogno Castellisti quando, realizzando il golpe del 1964, anche loro preparati e pensati a lungo, con uno strato di vernice da quattro soldi in più rispetto al golpe del 2016 – paradossalmente, tra l'altro – non hanno esitato a mettere in moto una riforma del partito , una riforma istituzionale della politica di rappresentanza (Atti Istituzionali 2, 3 ed epurazioni politico-amministrative di ogni tipo, bipartitismo, costituzione concessa) per rendere la resistenza a ciò che diverrebbe irrealizzabile, resistenza in termini di grammatica politica consacrata dal precedente ciclo, 1945-1964.
In una parola, si curarono diligentemente di svuotare la rappresentazione, allora operante, di contenuti popolari, per non perdere ad un altro il rappresentazione intendevano proteggere. Questa operazione fonda il mito autoritario-militare che il golpe abbia avuto un “appoggio” popolare: ciò che era popolare e osteggiato, non conta più, perché non è più rappresentato. La riorganizzazione delle forme grammaticali e sintattiche della lotta dipende dalla grammatica naturale della vita politica, che in gran parte deriva da “istituzioni” (“istituzionalità”, in senso lato, segreti questo linguaggio, per così dire, del conflitto lecito) . Svuotare e sterilizzare il lavoro, mettere al bando il PCB, il nostro primo partito di massa e popolare, è stata la grande opera politica di quell'ampio spirito di (terribile) prosa da caserma parnassiana, Golbery do Couto e Silva, e che l'ha compiuta per vie storte, ci sono essere d'accordo.
L'apertura, che ha operato l'ultimo presidente generale, che ha fatto carriera iniziando come assistente di Golbery, è avvenuta anche nel contesto della fine del ciclo dei "miei compiti politici": si era costruito un centro ampio, senza unità complessiva, facilmente cooptati dai dettaglianti, in teoria, il tutto nell'ottica di evitare l'intensificazione ideologica tipica dei primi anni Sessanta, al culmine dell'impasse fatale dell'allora ciclo populista, con le sue fondamentali riforme. La MDB, poi PMDB, attuale MDB, che sarebbe, come è, l'erede del colpo di stato del 1964, e in quanto non c'è demerito, si verifica solo come l'effetto meglio previsto della modernizzazione politica pianificata dal castelist, a poco a poco ha assunto questo ruolo di responsabilità, vale a dire man mano che gli autostoppisti esordienti del golpe del 1964 si assottigliavano lungo la strada, frammentandosi ai margini di quel centro immaginario in costruzione.
Bisogna riconoscere che alla fine del percorso il MDB si vertebra, un po' inaspettatamente, dall'argilla della sua argilla emerge un Golem, che consapevolmente o no, divenne erede del autentico (l'”autentico MDB”, al quale rendo un modesto omaggio), e messo in pratica, per quanto possibile, il programma radicale del 1972-1974, per quanto possibile, nell'ultimo terzo degli anni Ottanta: ampio, generale e sanatoria – cosa che non avvenne, è bene sottolinearlo per l'ennesima volta, né di diritto né di fatto, ma mobilitò un nuovo centro, momentaneamente concretizzatosi alla fine della dittatura, soprattutto intorno al tema riproposto dell'amnistia e dell'amnistia umana diritti – e la (ri)costituzionalizzazione del Paese, che è andata oltre quanto previsto – è possibile che Mario Covas, a capo della Commissione di sistematizzazione, abbia trascinato a sinistra questo vecchietto del centro, Ulisses Guimarães – nonostante la tesi iniziale, quella dell'autentico, sconfitto, essendo quella di una (ri)costituzionalizzazione attraverso un'Assemblea Nazionale Costituente esclusiva.
Nell'arco di questo processo, dall'IBAD, con il suo famoso e celebrato scrittore e cineasta, all'“odio e disgusto della dittatura” sono rimasti solo frammenti di laburismo storico, e un vago ricordo degli anni di gloria del PCB, distrutto e ricostruito poche volte, e la massa amorfa di questo centro, che però, con la Costituzione del 1988, e il processo che l'ha mobilitata, porta e figura la memoria del momento di migliore materializzazione di questo centro immaginario. Bisogna pensare quanto il dettaglio dell'articolo 5o CF non include la lotta per un'amnistia ampia, generale e senza restrizioni.
Potrebbero però apparire nuovi attori, come da quell'inceppamento generale che fu il progetto iniziale degli intellettuali del golpe del 1964: infantilizzare per proteggere il dibattito politico e, per estensione, la rappresentanza politica, attraverso i fantasmi del laboratorio culturale, nell'anticamera del SNI, che sotto la cura dello stesso Golbery, prese forma nei primi anni Sessanta e ora riappare con tutta la familiare litania: “anticomunismo”, “sfera di influenza della civiltà occidentale”, “ pace sociale”, “potere moderatore dell'esercito”, ecc., ecc., ecc.
Questo non è stato senza scopo, ammettiamolo. Mentre si “modernizza”, il Paese continuerebbe ad essere “protetto” dal dibattito eminentemente moderno sulla disputa sui guadagni della modernizzazione, classico costo dei conflitti distributivi (basti vedere quanto gli incrementi di produttività non sono stati riconvertiti in salari negli anni del miracolo, contrariamente alla teoria “della buona”): lotta di classe, per gli intimi. Spieghiamo: la promessa era di avanzare nei modi e nei processi di sfruttamento e accumulazione, e di proteggerci dal dibattito distributivo con la tutela e la benedizione militare (il cui costo è molto inferiore, in termini contabili, al costo politico e distributivo senso stretto).
Molto semplicemente: l'uso perverso, esteso e autorizzato della discrezione e della violenza di Stato come mezzo per eccellenza di estinzione e soppressione dei conflitti, che ha fatto di questa violenza, mediata e meditata, l'ostacolo non-politica di un dibattito il cui retroterra moderno, per eccellenza, sarebbe ed è politico. Evidentemente ciò non avviene impunemente, cioè senza costi storici permanenti, e senza contaminare una società ei suoi modi di vivere. Forse la società brasiliana non era così assurdamente violenta come lo è oggi prima di quello che il colpo di stato del 1964 le ha insegnato ad essere, uno dei miei controfattuali preferiti. Ma è diventata decisamente violenta e feroce, e potremmo anche dire radicalmente violenta dopo quella sfortunata data ed evento. Oggi, sembra, quella violenza che è la nostra violenza acquisisce nuova coscienza di sé, insieme al Paese stesso, meglio accomodato alla propria perversità e violenza.
Tornando al nostro tempo, seguiamo. A tutti gli effetti, l'intenzione nel 2016 era questa, cum grano sporco, però, con più limitazioni e attraverso altri espedienti: invece della riforma del partito e del blocco della pura volontà contro la politica, che inaugurò il golpe del 1964 – la violenza di stato richiede un attore disposto alla violenza, per il quale ci sono sempre forze militari volontarie – con la noti effetti catastrofici, e che precede e rende possibile il piano Campos-Bulhões, quest'ultimo possibile grazie all'estirpazione artificiale e violenta (come di consueto per i militari) dei mezzi propriamente moderni per il dibattito distributivo: la politica; nel 2016 abbiamo avuto la raffinatezza del tetto di spesa di Temer, azione legata al colpo di stato, il “ponte verso un tale futuro”, che a volte fa e riassume tutte queste pretese, votata e approvata in un anno di importante espansione fiscale consentita, con chiare intenzione di fare il successore e influenzare il processo elettorale prima della sua efficacia.
In tal senso, non vi era manipolazione elettorale più palese di questo espediente, confezionato su misura per garantire la continuità dei vincoli imposti dal golpe, concedendo ciò che presto sarebbe stato radicalmente negato, a patto, ovviamente, che le migliori argomentazioni tecniche degli ideologi del rentismo e dei loro sostenitori si osservavano accoliti, di “centro”. Quello che nessuno aveva previsto era che, dopo tutti questi aggiustamenti e violenze, fino ad allora niente di molto nuovo tra noi, mascherato dai discorsi e dai testi più istrionisti, ma anche da quelli meno istrionici e più “tecnici”, il centro della fantasia, e il supremo fantasia dell'élite nazionale, che intendeva realizzarlo in un film, tutto sommato, divenne improvvisamente favola delle vecchie comari.
E questo effetto collaterale, l'estinzione del centrodestra, che per essere così importante ha offuscato il sintomo che intendeva curare, il rifiuto del contenuto popolare alla rappresentanza politica, è apparso, definitivo e prematuro, nel 2018, anche per chi ha il privilegio di autoinganno a costo zero o disagio, beneficio che il comando concede e offre in premio, comprensibilmente: l'impedimento ha distrutto il centro a cui si intendeva consegnare il potere e ha premiato l'estrema destra brasiliana, più organica e organizzata di si potrebbe supporre, meglio preparati soprattutto per l'anomia istituzionale volutamente costruita dall' stabilimento.
Quella stessa estrema destra che, negli anni in cui il PT portava nella sua orbita la materia ectoplasmatica del centro, appariva residuale e impertinente, e quando, allora, si pensava che si stesse creando con grande solerzia un cordone sanitario che lo isolasse da mero residuo di ogni possibile autoritarismo e violenza di cui siamo eredi, è diventato sintomo di qualcosa di più grande, che in quel momento ha trovato le sue migliori condizioni di espansione dal penultimo colpo di stato.
Date le caratteristiche della nostra rappresentanza politica e la difficoltà storica di formare partiti politici nazionali in senso proprio, il centro brasiliano è sempre sussidiario a un attore che gli dà sostanza in una tipica operazione di trasfigurazione. Il Pt non è di centro, ma è dalla sua sostanza partitica che deriva il centro che ha prevalso nell'ultimo blocco. L'apprendimento da ciò è stata la grande novità e la grande risorsa che il PT ha costruito durante i suoi anni di stallo, e l'uso pragmatico che ne ha fatto ha dato un inaspettato salto di direzione al suo governo. Il golpe contro il Pt è stato anche e soprattutto il golpe al centro, che non si può ricostruire senza quella magia tipica della rappresentanza politica. E senza questo “centro”, date le nostre condizioni di governo e di esercizio del potere, la rappresentanza politica si deprava e degenera. Ecco dove sembriamo essere in questo momento. In un centro depravato, da nessuna parte.
Il 2018+2 porta questa verità retrospettiva: non esiste un centro politico attuale. Non perché non ci fosse, non perché non ci potesse essere: semplicemente perché il centro, come un Golem che ha già fatto la sua comparsa in questo testo, ha bisogno di un soffio divino permanente per esistere, ha bisogno di un'operazione magica - vediamo i termini giusto, infine - ha bisogno di una densa operazione ideologica per prevalere. Quello che ha fatto il golpe del 2016 è stato spezzare questo incantesimo, con il pretesto di organizzare le finanze pubbliche, ma il cui obiettivo nascosto, e non tanto, era quello di estirpare e bloccare quanti più contenuti popolari e di sinistra ce ne potevano essere nell'ordine di rappresentazione. .
Ci si può lasciare senza essere popolari, si può essere popolari senza essere lasciati. Questa era l'ultima condizione ad hoc attaccato alla nostra poverissima democrazia da chi detiene il potere. Ci sono voluti due anni dopo il 2018 del governo più violento e regressivo perché questa verità cominciasse ad emergere. Siccome il modo di operare dell'estrema destra è di prendere i mezzi come fine, la "propaganda" come teoria, la verbosa virulenza è già azione, non è e non può essere Mero discorso. A questo si aggiunga quanto accaduto: sotto una vertiginosa pandemia che, paradossalmente, ha immobilizzato un altro catalizzatore che ha accelerato e drammatizzato ancora di più il processo, si sono create le migliori condizioni di laboratorio per cominciare a riconoscere questa verità, che, guarda caso, l'attuale presidente riconosce: lui, politico esperto, sa che questo “centro” esiste solo se c'è questa trasmigrazione dell'anima, questa materializzazione ectoplasmatica, che diligentemente blocca, e mantiene, lui e il suo blocco di potere, con evidenti radici materiali, nel “concreto”, che chiamano anche la loro “autenticità”, con qualche ragione e, più o meno, funziona come tale, per mantenere l'obiettività politica nell'orbita delle loro ossessioni e perversioni, per così dire.
Quello che era il centro, il "centrão", viene portato al centro di questo discorso di estrema destra che è un'agenzia politica in senso stretto. Con umorismo, ovviamente, dopotutto siamo brasiliani e abbiamo tropicalizzato la barbarie per molto tempo. E queste ossessioni, depravazioni e perversioni, vale la pena dirlo, sono molto oggettive e non un caso di analisi e nemmeno di psicologia sociale, che prima era il centro, ma ora è un mero "centro", sotto contratto con l'estrema destra, efficace con zelo, perché solo così si riconosce reale.
Sebbene alcune persone recalcitranti preferiscano mantenere la convinzione che i tavoli stiano in piedi da soli, è necessario riconoscere la chiarezza di questa dura verità: non lo fanno. Ma questo da solo, a conti fatti, non basta, è palesemente insufficiente dal punto di vista critico e analitico. Quindi andiamo un po' oltre.
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“Criticare la filosofia politica classica non significa semplicemente approfondire la sua problematica per dimostrare l'inadeguatezza dei suoi metodi. Si tratta di interrogare il proprio oggetto, riprendendo da lì il suo vero campo e la problematica che gli deve corrispondere. La critica della filosofia politica ha dunque il suo fondamento nella costituzione dell'oggetto della politica”.[Ii]
Ritorno, come preambolo a questa seconda parte, se non il concetto, almeno lo spirito, il clima politico e teorico che ha reso l'opera di Emir Sader, notevole sotto diversi aspetti,[Iii] tesi magistrale difesa nel 1968, pietra miliare per una certa sinistra, in quanto attraversava i migliori riferimenti critici dell'epoca, dentro e fuori le mura universitarie. In quei giorni l'opera di Sader formalizza in modo esemplare una certa critica alla filosofia politica classica, se mi permettete, in termini di avanguardia e di sinistra, poi, sulla cresta dell'onda, quando tenta, in modo molto sintetico , di correlare, approssimativamente, come per una reciproca determinazione, “modo di produzione” e “rappresentanza politica e potere”, il problema politico moderno per eccellenza, mobilitando a questo scopo elementi politicamente vivi o ancora vivi, con nuove abitudini mentali portate da l'università appena arrivata – la stessa correlazione che cercava con altri mezzi, per altri scopi e con un'altra scala e tavolozza concettuale, per così dire, Ruy Fausto nel suo insieme Marx: logica e politica, di cui Emir è stato mentore, e José Arthur Giannotti in Lavoro e riflessione.
Tutto ciò allo scopo di stabilire un taglio analitico sufficientemente preciso da separare gli effetti della fraseologia politica, la sua natura essenzialmente ideologica, che facilmente produce incantesimi, dal suo fondamento. scopo e sostituire, in un nuovo allineamento di un'istanza con l'altra, la "politica" in un'altra prospettiva di intelligibilità.
Non a caso quest'opera ha ricevuto la seguente menzione: “Ecco il punto controverso che vale la pena evidenziare, il destino di un discorso filosofico quando il suo oggetto perde consistenza sociale. È il caso della Filosofia politica, genere caratteristico dell'Ancien Régime: con la subordinazione del meccanismo dello scambio a quello della produzione, non solo rimane senza soggetto ma, come pensiero residuale, comincia a focalizzarsi in un modo invertito sul processo reale. Ciò circoscriveva un punto di vista originale da cui criticare la filosofia politica (vittima della sostantivazione del capitale commerciale), che di fatto si inaugurava con una breve lettura di Machiavelli e Rousseau. Due circostanze, tuttavia, hanno precluso la prova della fecondità di questa variante della critica materialista dell'ideologia. Pochi anni dopo, come è noto, divenne luogo comune segnalare il deficit del marxismo nel campo delle scienze politiche (per non parlare della pratica disastrosa dei marxismi ufficiali): il discorso strategico di conquista del potere aveva preventivamente squalificato ogni concezione istituzionale-positiva ecc. Fu quando la cattiva coscienza della sinistra, in un momento di egemonia liberale, riscoprì la Democrazia, e con essa, la presunta dimensione originaria del cosiddetto “politico”. È bastato un passo per dotarlo di una propria ontologia, risorgendo con la cosiddetta ontologia della filosofia politica, che ha cessato di essere un mero capitolo storiografico per elevarsi al rango di fonte originaria di nozioni quali la valutazione del progresso della contemporaneità società capitalista”.[Iv]
Senza malriposte nostalgie, diciamocelo, non c'è molto tempo per questo, accenno a quel programma e al problema sostanziale tributario di quel programma, sopra delineato - quanto la critica e l'analisi politica attuale non siano esse stesse fraseologie politiche con un secondo strato ideologico, quello dell'ideologia del rigore o quello dell'ideologia della scienza. Senza l'intenzione di portare la conversazione su quei lati più seri, anzi, al contrario, la porto, come mi conviene, da un'altra parte, senza però perderla di vista. Né un'ontologia della politica, né un'ontologia dell'essere sociale, né un ritorno in senso stretto alle determinazioni reciproche del “modo di produzione”, solo la critica della critica della fraseologia fatale di cui siamo vittime, almeno quelli che sono da queste parti, in prossimità della pianura.
Ad un certo punto Il sogno degli eroi, dello stesso Bioy Casares che apre questo testo, Clara, la nostra eroina, chiede a Ruivo della sua conoscenza delle auto, lei che ha bisogno dell'auto di Ruivo per raggiungere in tempo Emilio Gauna (cosa che non accade), che, per inciso, è un meccanico . Riproduco l'intero brano, con l'augurio dell'oligarchia agraria argentina: “Clara le preguntó por qué no estudiaba ingeniería. – Credi che io capisca la meccanica? Non una parola. Se l'auto si rompe su di noi, non aspettarti niente da me, devi lasciarla per strada. Sono nella letteratura automobilistica, non nella scienza. Vi assicuro che è una letteratura terribile”.[V]
Vediamo, il Finalmente questo volontario esercizio di involontaria letteratura comparata da parte nostra.
Lotta di classe in Francia & Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte & Ricordi del 1848.
Cominciamo con il dittico di Marx, La lotta di classe in Francia e Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte.
Il contesto in cui si inscrive questo insieme è notevole, e va notato perché erano, in fondo, tempi straordinari, nonostante tutta la bibliografia revisionista dopo il 1980 cercasse di dimostrare il contrario, anche se solo a scopo pubblicitario.[Vi] Dopo la Rivoluzione del 30 (1830) (questo era già in Marx, ma riappare cristallizzato in Hobsbawm, doppio lettore, dei fatti e dei primi interpreti dei fatti), le illusioni di ordine di restaurazione dopo il 1815 si dissolvono con la promessa di riprendere le promesse della Rivoluzione (1789), le promesse precedenti alla Prima Repubblica.
Accade così che ciò non sia più possibile, le “energie” sprigionate dalla Prima Repubblica, e in gran parte dal Terrore, che consacrano, per così dire, la nuova grammatica politica, non consentono l'illusione, cara a coloro che erano i migliori quadri del partito dell'ordine: recuperare la promessa di una repubblica senza rivoluzione (e senza terrore). La diagnosi più o meno diffusa dei giovani liberali, in parte sconfitti dalla restaurazione (la gironda in anticamera della prima costituzione e la monarchia liberale, che perde il passo della storia, soprattutto a causa del tradimento del re), in parte contemplata dal vecchio ordine che ritorna, è che, nonostante il ritorno, il vecchio ordine non ha futuro, solo un passato.
Ora, a questo si aggiunga qualcosa che ha a che fare con il “nuovo ordine” che emerge e che complica ulteriormente il rapporto tra il vecchio e il nuovo: le rivoluzioni del 1848, socialiste, quindi, in una possibile linea di lettura, ma non esclusivamente con la continuità degli eventi del 1789 e del 1793-1794, si sovvertono in “rivoluzioni” di ordine: dapprima progressiste, diventano reazionarie, mistero già noto e cantato in versi e in prosa.
Per Marx c'è una grande pista da seguire nell'indagine di questo nuovo meccanismo infernale che è la politica dopo la rivoluzione, ormai sempre all'ombra della rivoluzione stessa: il disadattamento fondamentale, la contraddizione a livello di apparenza, un'altra definizione di ideologia, si dà tra la rivoluzione dei mezzi di accumulazione/produzione, le nuove energie liberate che i nuovi balzi di produttività forniscono e il “posto” del potere che è rappresentato dai discorsi sul potere e sul potere.
Per altri versi, il che rende il paragone ancora più curioso, Tocqueville in Ricordi del 1848, vede la stessa fondamentale discrepanza tra il discorso politico e il reale, “il” sostantivo politico proprio in questa discrepanza.
Riassumendo e semplificando, soffermiamoci sull'interstizio che si crea tra “Repubblica” e “modo di produzione”. Questa sovrapposizione produce un tumulto sintattico-semantico tipicamente moderno, la fraseologia del nostro tempo: ciò che chiamiamo, ancora una volta, ideologia. L'ideologia qui ha una complessità inaspettata. Non si tratta di mera falsità o verità, ma di come certe illusioni (come le illusioni trascendentali, possibili ben più diaboliche eredi del genio del male cartesiano) funzionino oggettivamente, abbiano significato e conseguenze pratiche. Sono stregonerie che sostituiscono il lavoro, perché non c'è stregoneria senza l'opera dello stregone.
L'ideologia è anche un modo indiretto di comprendere come le illusioni producono i loro effetti senza che questi effetti siano comprensibili attraverso una relazione intuitiva comune che il soggetto avrebbe con il mondo. Insomma: funzionano in un altro regime epistemologico e semantico e si rivelano soltanto criticamente, controintuitivamente. Quindi, giustamente, la tavola danza con i propri piedi. O 18 Brumaio si tratta soprattutto di questo: come la lotta di classe, cioè come i conflitti fondamentali sotto forma di riproduzione materiale della società migrano e si trasfigurano in figure di una figurazione che nulla avrebbe a che fare con la loro immediatezza, con ciò che denotare, che non avrebbe nulla di "rappresentativo" nel senso comune.
Ciò che questo fondamento fondamentale, la lotta di classe, rappresenta sempre in modo diverso. La lotta di classe, che è anche un substrato più complesso di quanto si suppone, riassumiamo, un conflitto e una disputa tra lo slancio all'accumulazione, il valore come nuovo infinito attuale, e le condizioni materiali date (finite) per questo infinito e prosaico si perfeziona, conferendo quella “vera efficacia” di cui si parlava, in tedesco, a metà del XIX secolo, è il nuovo Penso in atto, la misura delle misure delle intelligenze dei fatti. Subliminalmente ci sta dicendo Marx, e da parte mia rimane sospesa la tesi, che questo nuovo assemblaggio materiale del mondo renda obsolete le filosofie politiche del vecchio regime, senza negarle astrattamente, come si dice in gergo.
Nel caso francese, post-rivoluzionario (dopo il 1789), gli incrementi di produttività della riforma agraria attuata dalla prima costituzione (1791) si scontrarono con il modello della proprietà fondiaria francese, allora non sufficientemente “produttiva” per soppiantare le condizioni “naturali” (e oscillazioni) della produzione, dovute, ad esempio, al modello di rotazione dei lotti, e alla conseguente impossibilità di aumentare la produttività per superficie coltivata, pur conservando il consolidato modello di piccola proprietà, il cui fondamento politico è immobile.
Il che porta a complicazioni economiche di ogni genere: sia dalla parte del vecchio che del nuovo: il fallimento del raccolto, per motivi “naturali” – freddo, caldo, pioggia, sole, parassiti – quando dalla parte del nuovo: il nuovo parco industriale limitando la sua espansione alla quantità di cibo disponibile[Vii]. Come osserva Braudel[Viii], c'è una vecchia crisi nel 1947 - dell'ordine della produzione agricola, della produzione alimentare - e una nuova, della nuovissima ondata "industriale" che si è installata in Francia trent'anni dopo il 1815. C'è uno squilibrio produttivo che implica uno squilibrio discorsivo, ma non nel senso lineare che si potrebbe supporre, ecco un'altra variazione del moderno: l'ideologia è, allo stesso tempo, uno spazio non orientato per definizione, diciamo, un nastro di Moebius, la sua rivedere è necessariamente a posteriori e non geometrico. Le impasse produttive producono una fantasia specifica che difficilmente (cioè non intuitivamente) le corrisponderebbe in modo denotativo, secondo una qualsiasi categoria di sana comprensione, e anche quando ci si appella alla ragione, la risposta di solito non è facile.
Di qui la ripetizione come farsa (Marx estetizza il problema più, per esigenze critiche, che teatralizzarlo – che fu il limite, per così dire, dell'Illuminismo a pensare il politico, come appare in Rousseau). In un certo senso, la farsa precede la ripetizione (ha un antecedente logico, per così dire) nel senso che si ripete solo perché ci si libera dal “dire la stessa cosa” quando si dice “la stessa cosa”. Ecco un modo di parlare della ripetizione che non è ripetizione dell'ordine della mera comprensione, quindi tautologia: non è la politica come spettacolo, ma come spettro e spettrale, lo spazio speculare che si ripete con la stessa aria familiare, ma dicendo un'altra cosa: l'essenziale ideologicoanzi, nel senso migliore del termine.
Ecco il vecchio brano: “Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno volentieri, in circostanze liberamente scelte, queste, anzi, trovano tutto già fatto, dato, ereditato dal passato. La tradizione di tutte le generazioni morte pesa come un incubo sul cervello dei vivi. E proprio nel momento in cui sembrano occupati a trasformare se stessi e a sovvertire la realtà per creare l'assolutamente nuovo, è proprio in questi tempi di crisi rivoluzionaria che evocano con ansia e chiamano in loro aiuto la manna degli antenati, da cui prendono a prestito i nomi, parole d'ordine, usanze, per rappresentare il nuovo pezzo storico sotto quello vecchio e venerando, camuffato e con queste linee prese in prestito”.[Ix]
Bene, entrambi dentro Il 18 brumaio, di Marx, come in Ricordi del 1848, di Tocqueville, che ora portiamo meglio adattato alla scena, c'è un'insolita convergenza (oltre alla pubblicazione tardiva che segna la fortuna critica dei due libri): il dominio proprio della politica è descritto come il luogo per eccellenza della discrepanza tra parole e cose, e alle immagini classiche di Marx – la prima come farsa, la seconda come tragedia – ne esistono altre altrettanto notevoli, in cui gli attori centrali di questa scena, le classi, assumendo il palcoscenico della politica, sotto la scenografia della storia, prendi una cosa per un'altra: la repubblica borghese per la repubblica romana, il nipote per lo zio, la monarchia costituzionale per la repubblica borghese.
Tocqueville dirà, con lo stesso spirito: «Tutto ciò a cui ho assistito quel giorno portava il segno visibile di tali ricordi; Ho sempre avuto l'impressione che ci fossero più sforzi per rappresentare la Rivoluzione francese che per continuarla”[X]. Questa diagnosi congiunta, di Marx e Tocqueville, dell'avanguardia operaia radicalizzata a Parigi e dintorni, e di uno dei migliori rappresentanti del partito dell'ordine, un po' come i fratelli Gongourt della cronaca politica, per eleganza e stile, che, peraltro, sono molto seducenti, ritraducono il filo conduttore delle nostre considerazioni: l'esperienza dell'Ottocento è un lungo racconto farsesco in cui lo spirito, volatile, si sottrae alla lettera e la cui diagnosi (corretta) di Comte produce una rimedio insolito, il positivismo, il più riuscito tentativo ideologico di scandire il ritmo delle parole e delle cose, nel momento tanto atteso della normalizzazione della repubblica. Nel migliore dei casi, questo sarebbe il miglior apprendistato del “politico”. Nel peggiore dei casi, la migliore archeologia dell'ideologia della Terza Repubblica.
Si riassume così la verità del XIX secolo, francese ed europeo, e la sua fantasmagoria: per Marx, il presente era fantasmatico perché bloccava il futuro, la politica come mistificazione, la fraseologia non valeva necessariamente il suo valore nominale, e la sua efficacia derivava da questo non valore; per Tocqueville il passato (il vecchio regime) era fantasmatico perché bloccava il presente, la politica non era sufficientemente reale per infestare il fantasma del passato e riordinare il tempo del presente secondo il senso morale degli eventi: democrazia e concertazione tra le classi.
Il posto della politica, sostanziale nella sua non sostanza, è forse il posto della finzione, che è il modo più comodo per criticarne l'apparenza. Ma una finzione retorica, cioè una finzione necessariamente organizzata in modo retorico. Tocqueville ha cercato di occupare un posto impossibile, da qui i limiti ideologici delle sue analisi, in genere brillanti, che richiedono la sostituzione di un trattato sulle passioni dell'anima: in gran parte la commedia degli equivoci del 1848 deriva da uomini dall'anima piccola, dalla fantasia, manca il principio di realtà. Si narra la rivoluzione del 1848, ma spostandosi in quel luogo dove viene raccontata, la si scopre priva di contenuto: il centro di cui si voleva farsi portavoce, era più fittizio del tentativo dell'avanguardia operaia di fare una critica socialista della proprietà, che produce, come contro-golpe, l'unità dei nemici delle giornate di giugno, una nuova edizione della provincia contro Parigi. “Rivoluzione liberale”, dopo il fiasco della rivoluzione degli anni '30, prima come ideologia, poi come finzione.
Marx parte dal presupposto che la finzione di questo luogo in cui si fonda la fraseologia politica, pur narrando, non conti, cioè essenzialmente l'imbroglio ideologico. Cosa racconta il modo di produzione – contra la vecchia letteratura politica della filosofia politica del vecchio regime, “stato”, “sovranità”, “sudditi” – non conta. Questo quid pro quo non era lontano dalla fine quando l'ultimo stupore retorico della politica di estrema sinistra ha articolato il bolscevismo con il cappello rosso del giacobinismo.
All'indomani delle “rivoluzioni” e delle “rivoluzioni” che i trent'anni gloriosi del capitalismo hanno prodotto nel secolo scorso, dopo la seconda guerra mondiale e la pax americana già in atto in Europa, il giacobinismo è stato definitivamente sterilizzato in nome del contenimento del bolscevismo, con le migliori intenzioni e teorie, e il risultato fu una riedizione di un “centro” anodino, proprio come fece il repubblicanesimo della Terza Repubblica francese, essendone, appunto, la sua grande opera, ripetuta (come una farsa?) in la Quinta Repubblica francese. Incapace, ricreativo e meramente reattivo al “mondo della vita”, da questo luogo abbiamo assistito al lento degrado del welfare state, più congetturale che essenziale, a quanto pare. Da quello stesso luogo abbiamo assistito all'ascesa del neoliberismo, oggi in procinto di consegnare le armi ai nuovi radicalismi di destra, a quanto pare. Nulla è così, impunemente: in assenza di radicalismo di sinistra, il radicalismo di destra si è riempito: e la vecchia xenofobia è diventata la neolingua dei “nostri” diritti sociali.
La vecchia storia trascendentale del centro, che prendo in prestito dal vecchio mondo, come esempio di successo, è questa: bisogna credere nella finzione, e contare sull'aumento relativo della produttività in modo tale da poter creare i presupposti minimi per narrare questa storia, la storia, la storia dei vari tentativi di falsa emancipazione, termine oggi incredibilmente anacronistico, rendendola “propositiva”, spiegabile, anche se non auspicabile... , controbilanciata dalle più fantastiche speranze di futuro, viaggi nello spazio, smaterializzazioni, magie tecnologiche a portata di un sospiro.
Nella versione francese che riporto frettolosamente, in tono farsesco, come si conviene, sia Marx che Tocqueville annotano il destino fraseologico del centro, senza un vero luogo, il suo vero posto essendo lì, fatalmente, sotto il permanente rischio di non avendo posto. . Il successo della longevità del Secondo Impero nasce anche da questo: il nipote seppe sistemarsi poco a poco in un centro desiderabile e immaginabile, il lieto fine di ogni narrativa occasionale, un opuscolo su carta da giornale da leggere sui mezzi pubblici. Se non fosse stato per la trappola di Bismarck e il fallimento del 1870, forse avrebbe avuto un apprezzamento migliore, per tanti successi raggiunti. Ma è sempre il momento, dopo tutto il revisionismo di Furet[Xi] e i suoi amici, verrà il tempo della lode e della lode per suo nipote.
La domanda torna ai nostri bottoni: ci sarebbero le condizioni per la costruzione di un centro coerente tra di noi? L'eccesso di violenza che ci caratterizza forse complica troppo il compito, perché ci rende troppo letterali. Di certo ci manca lo spirito letterario, contro tutta questa infame letteralità, anche se di cattiva letteratura.
Intanto, di fraseologia in fraseologia, arriviamo alla fine della favola: dalla tua favola narratur.
“Ho capito che era vero quello che avevo detto, ore prima, Morel (ma è possibile che non quello che ho detto, per la prima volta, ore prima, ma qualche anno fa, l'ho ripetuto perché era la settimana, sul disco eterno).
Provavo ripudio, persino disgusto, per queste persone e per la loro instancabile attività ripetuta. Sono apparsi molte volte, in alto, sui bordi. Trovarsi su un'isola abitata da fantasmi artificiali era il più insopportabile degli incubi; innamorarsi di una di quelle immagini era peggio che innamorarsi di un fantasma (forse abbiamo sempre desiderato che la persona amata avesse l'esistenza di un fantasma)”.[Xii]
*Alexandre de Oliveira Torres Carrasco Professore di Filosofia presso l'Università Federale di São Paulo (Unifesp)
Riferimenti
ADORNO, T. Aspetti del nuovo radicalismo di destra. Editore Unesp, San Paolo, 2020.
TOCQUEVILLE, A.De. Ricordi del 1848. Penguin&Companhia, San Paolo, 2011.
BIOY CASARES, A. Opere complete I. EMECÊ, Buenos Aires, 2012.
MARX, K. Les Luttes de Classes in Francia. Gallimard, Parigi, 1994.
MARX, K. Lavori, Banda 8. Dietz Verlag, Berlino, 1960.
note:
i] ADORO, T., Aspetti del nuovo radicalismo di destra. Editora Unesp, São Paulo, 2020. «Se ai mezzi si sostituiscono in misura crescente i fini, allora si può quasi dire che, in questi movimenti di destra radicale, la propaganda costituisce, a sua volta, la sostanza della politica», p. 55.
[Ii] SADER, E., Stato e politica in Marx. Editora Cortez, San Paolo, 1983, p. 16. Estratti evidenziati dall'autore.
[Iii] ARANTES, PE, Un dipartimento francese d'oltremare. Pace e terra, Rio de Janeiro, 1994. “Appendice: Critica della filosofia politica”, pagg. 252-254.
[Iv] Idem, ibidem, pag. 253.
[V] BIOY CASARES, A., Il sogno degli eroi. Emecê Editores & La Nation, Buenos Aires, 2004, p. 223.
[Vi] HOBSBAWM, EJ, Echi della Marsigliese, Rutgers University Press, New Jersey, 1990, pp. 85 e segg.
[Vii] TOCQUEVILLE, A. Ricordi del 1848, Penguin Company, São Paulo, 2011. Tocqueville, che vive molto lucidamente (per un membro del partito dell'ordine) il processo che va dal 1848 al colpo di stato del 1852, fiuta lo stesso vero nucleo, per così dire, dietro le numerose fraseologie periodo crociate. La proprietà rurale e il suo stato. In un momento in cui la critica al partito socialista si radicalizzava, nelle giornate di giugno, e si toccava lo statuto della proprietà, la massa dei piccoli proprietari terrieri, eredi della Rivoluzione del 1789, reagì “contro Parigi”, in un movimento che mai cessò di avere analogia con quanto avvenne alla fine della Prima Repubblica, la Repubblica Giacobina. Mentre Marx cerca di dimostrare, in modo molto agile, quanto lo sviluppo economico francese sostituisca il piccolo proprietario come servitore del debito ipotecario (quando prima era servitore del feudo), Tocqueville mostra che l'attaccamento allo status di la proprietà è ciò che fa cambiare direzione alla Rivoluzione del 48 rispetto alla radicalizzazione socialista. Segnalo anche la notevole edizione brasiliana di The Memories of 48, tradotta da Modesto Florenzando, con introduzione e note di Renato Janine Ribeiro.
[Viii] BRAUDEL, F., “Prefazione", in TOCQUEVILLE, A., Memorie di 48, op.cit.
[Ix] MARX, K., La lutte declasses en France, suivi de, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte. Trans. Maximilien Rubel, in collaborazione con Luis Janover. Parigi, Gallimard, 1994, p. 176.
[X] TOCQUEVILLE, A. Ricordi del 1848, Penguin Company, San Paolo, 2011, pag. 93. Nello stesso spirito, un passo precedente illustra quanto si intende evidenziare: «Non è certo una delle caratteristiche meno bizzarre di questa singolare Rivoluzione che il fatto che l'ha originata sia stata diretta e quasi voluta da coloro che sarebbero stati rovesciati da potere. , e che era previsto e temuto solo da uomini che avrebbero vinto”, p. 61.
[Xi] HOBSBAWM, EJ, Echi della Marsigliese, Rutgers University Press, New Jersey, 1990, pp. 62 e segg.
[Xii] BIOY CASARES, A., Opera completa I (1940-1958), EMECÉ, Buenos Aires, 2012, p. 62.